venerdì 22 settembre 2006

Curve, lattine & Prosecco: adesso è polemica

Angelo Peretti
Ullallà, che putiferio! S’è innescata la polemica sul Prosecco in lattina. A suon di comunicati stampa. Ma serve un premessa. O meglio, un riassunto delle puntate precedenti, ché del Rich Prosecco - è questa la pietra dello scandalo - n’ho già scritto all’inizio di luglio. A coloro cui basti un sommario riepilogo, le cose stanno, grosso modo, così: il Rich Prosecco è una creatura di Günther Aloys, che ha pensato di confezionare un Prosecco, appunto, in eleganti lattine dorate da 200 ml. Il prodotto viene promosso dalla G.A. Workshop di Ischgl, nel Tirolo austriaco, mentre a curarne la commercializzazione è la Rich Sales & Marketing di Memmingen, in Germania. Il tutto su licenza della Rich Corporation di New York, United States. Sembra, è, una multinazionale per il Prosecco in lattina. Se poi ci aggiungete che a far da testimonial dello sparkling wine in bussolotto è Paris Hilton, la discussa diva del momento, be’, avete il quadro di una straordinaria operazione di marketing. E pensate che si tratta d’un Prosecco italiano, veneto, coneglianese: il sito ufficiale del produttore e optate (in alto a sinistra) dice infatti che viene dalla Cantina sociale di Pieve di Soligo. Altroché.
Fin qui gli antefatti. Adesso è scoppiato il finimondo. «In tutta la vicenda Richprosecco – tuona un comunicato stampa ufficiale del Consorzio per la tutela del vino Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene - lo sfruttamento del nome del vino Prosecco è chiara e lampante: ciò che conta è il nome, divenuto di successo grazie al serio lavoro di decenni di oltre 3.000 viticoltori e di 130 aziende spumantistiche. Per i produttori di Conegliano Valdobbiadene Prosecco è un vino che, grazie al lavoro di tre generazioni, è divenuto un simbolo del territorio. Ora vediamo sfruttato il nostro patrimonio da chi vuole guadagni facili in poco tempo e queste speculazioni danneggiano il nostro lavoro». Rincara la dose Giampietro Comolli, direttore del Forum degli Spumanti d'Italia, che ha sede a Valdobbiadene: «Tutto questo rischia di rubare l'immagine storica del vero Prosecco doc, che è uno dei vini spumanti italiani più apprezzati e conosciuti nel mondo», dice in un’intervista pubblicata da WineNews.it, cliccatissimo eno-portale: E aggiunge: «È necessario avviare una politica di lungo periodo per fare in modo che il consumo di Prosecco doc superi quello non doc e arrivare a mettere definitivamente al riparo il Prosecco da questi attacchi pirateschi». «L’operazione commerciale – afferma la Coldiretti, sempre su WineNews.it - sfrutta un vino famoso nel mondo per le sue eccezionali caratteristiche organolettiche, consolidate in secoli di lavoro dei vignaioli, a favore di una bevanda che rischia di snaturare la qualità e la tipicità proprie del prosecco».
Insomma, una levata di scudi in difesa dell’autentico & autoctono Prosecco. E il presidente del Consorzio del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene, Franco Adami, passa al contrattacco: «Abbiamo ancora la possibilità di azzerare questo fenomeno speculativo - dice - rinnovando la richiesta di riservare ai soli vini doc il nome di Prosecco, strada già percorsa dal Consorzio diversi anni fa ma non capita dai produttori della provincia di Treviso. Contiamo che, alla luce di questi fatti, la Regione riconsideri la nostra richiesta di riserva del nome. Solo in questo modo ci si protegge da speculazioni commerciali di questo tipo. Le garanzie che oggi tutelano il Prosecco doc di Conegliano Valdobbiadene devono essere estese a tutto il Prosecco».
Già, ma la Regione non sembra pensarla esattamente così. Ed è ancora a mezzo d’un comunicato stampa ufficiale che interviene il vicepresidente della Giunta regionale, Luca Zaia. Il quale dice: «Nessuno si scandalizza perché il caviale viene venduto in scatola; e nessuno confonde la carne in scatola con la fiorentina: non vedo perché dovremmo stracciarci le vesti per la vendita in lattina del Prosecco. Semmai si tratterà di vigilare sulla qualità del contenuto, perché si tratta del Prosecco del Veneto». Dichiarazione controcorrente. Ma motivata: «Dal punto di vista del marketing - spiega Zaia - è un’opportunità che risponde ad una richiesta che proviene dalla distribuzione e dal mercato mondiale e che ci fornisce una straordinaria occasione per far conoscere ad un numero sempre più vasto di consumatori uno dei nostri vini più famosi. Ricordo che ci sono prodotti che, proprio grazie ad iniziative similari, hanno ampliato a dismisura il numero di conoscitori ed estimatori, senza che questo abbia significato un appiattimento della qualità o una confusione tra produzioni di vertice e quelle di massa, come nel caso dell’aceto balsamico. Stiamo anche parlando di un target nuovo che altrimenti finirebbe comunque per bere in lattina altri vini di chissà dove; gli esperti ci dicono che, ad esempio, entro due o tre anni in Germania la vendita di vino in lattina sarà molto diffusa e se, non sarà veneto, potrebbe essere cileno o australiano. E poi chi berrà il Prosecco in lattina ne diventerà un nuovo consumatore e non ho dubbi che, in altre occasioni, acquisterà le bottiglie di pregio, ricorrendo magari al meglio della nostra doc Conegliano Valdobbiadene».
Che volete che vi dica: Zaia non lo conosco di persona. Sta di fatto che ha avuto coraggio nel fare queste affermazioni. E che non ha torto.
Credo anch’io che ci sia una fetta di mercato enorme di potenziali bevitori di vino da andare ad intercettare, e il Rich Prosecco è uno dei tentativi che vanno in questa direzione. Usando tutte le armi che oggi la comunicazione mette a disposizione. E con un particolare non da poco: il vino che c’è dentro la lattina non è male. Perché io il Rich Prosecco l’ho bevuto davvero, e anche se non m’ha dato i brividi di piacere, devo ammettere che va giù bene. Trascrivo quanto ho già annotato a luglio: «Francamente non è da buttare. Il naso gioca su toni di frutto maturo (la pera, tipicissima dei Prosecchi veneti) e sulle note vegetali. Somiglia proprio a un Prosecco. Non ad un grande Prosecco, d’accordo, ma ci siamo. In bocca, poi, non è che ci sia da esaltarsi. La carbonica è un po’ grossolana. Però freddo fa la sua figura. È beverino. Neppure troppo dolce (poco più di un grammo di zucchero per litro: lo leggo sempre sul sito). Ed ha poco alcol: 10 gradi e mezzo, si legge sulla lattina (ma il sito del produttore dice che può arrivare a 10,8). Ha perfino la data di scadenza: va bevuto entro un anno. E poi in giro, credetemi, c’è di peggio, anche in certe trattorie della tradizione veneta che servono Prosecchi in caraffa». Così dicevo. E confermo.
Per di più, la lattina dorata & griffata non è sicuramente in svendita: costa cara, di più, proporzionalmente, d’una bottiglia media di Prosecco doc. Perché la moda si paga. E dunque potrebb’essere un’opportunità da sfruttare per posizionare al meglio il Prosecco in bottiglia. Quanto costa? Lo dicevo a luglio, trascrivendo dal sito della casa: «This refreshing pleasure is available for eur 1.99 to eur 2.19 in stores, restaurants and gas stations». Da 1,99 a 2,19 euro in negozi, ristoranti e stazioni di servizio: non te lo tirano mica dietro. Questo sì che è marketing.
«Lo ritengo anche un segno dei tempi - dice Zaia nel comunicato regionale - e ricordo che il Prosecco viene venduto sfuso e nei contenitori più disparati e che, anche nella zona doc, non tutto viene commercializzato in bottiglia, mentre le lattine di Prosecco ci sono già, sono di formato gigante e si chiamano fusti: non mi risulta che questo abbia prodotto danni. Cerchiamo dunque di essere obiettivi e pensiamo piuttosto che in Italia c’è un problema di natura giuridica: il vino a doc non si può mettere in lattina, mentre altrove la vendita in questo modalità è destinata a diffondersi». Oh, già, aggiungo io. E ci vogliamo così male che in tanti disciplinari non ammettiamo neppure le chiusure col tappo a vite, quello moderno, che è invece a parer mio la nuova frontiera del vino in bottiglia: vedi alla voce Nuova Zelanda, tanto per fare un esempio.
Sta di fatto che il Consorzio sembra proprio essere sul piede di guerra. «Nello specifico di questa azienda austriaca – comunica Adami -, i nostri avvocati stanno studiando da tempo la situazione e faremo molta attenzione a verificare che nelle eventuali pubblicità di Richprosecco non appaia alcun riferimento al territorio di Conegliano Valdobbiadene. Siamo pronti ad agire legalmente qualora ce ne sia bisogno». E non c’è dubbio che anche Adami e i suoi non hanno torto, anche se non mi pare d’aver letto da nessuna parte che Aloys e il suo staff parlino in maniera specifica di zona doc (del Veneto sì che ne parlano, invece).
Ma non è finita qui. Ché l’assessore si permette anche di tirar le orecchie ai produttori. «L’opposizione pregiudiziale al Prosecco in lattina è perdente - conclude Zaia -, perché delle due l’una: o questo sarà un “flop”, e i detrattori dovranno ammettere di essersi sbagliati a preoccuparsi; oppure sarà un successo e allora dovranno recitare un mea culpa e inseguire il mercato». Ma se pensiamo che nei primi quattro mesi di commercializzazione le lattine vendute di Rich Prosecco sono state un milione...
Eppure è qui, su quest’ultima affermazione dell’assessore che non sono del tutto d’accordo. Perché è qui la carenza, ed è una carenza della politica. Perché fino ad ora non s’è agito – o non lo si è fatto abbastanza - per creare da un lato le tutele e dall’altro gli stimoli giusti. C’è la terza via: inventare innovazione vera, che consenta al Veneto vinicolo iperproduttivo di tenere il mercato giocando d’anticipo, e questo non sarebbe forse un ruolo delle istituzioni.
La conclusione? Be’, ce ne possono esser tante di conclusioni. Una mi permetto di rubarla alla collega Elisabetta Tosi e dal suo wine blog Vino Pigro. Visto che mi cita lei, la cito anch’io. Scrive: «Ma soprattutto, cari produttori del Veneto Orientale, un po' di coerenza. Non stracciatevi le vesti se vi accorgete che qualcuno tra voi è disposto a vendere Prosecco disinteressandosi - o fingendo d'ignorare - che fine farà. E non venitemi a dire che qualcuno che fa di queste scelte commerciali lo si trova sempre perchè business is business, come ricorda Angelo Peretti. L'orgoglio territoriale, o è di tutti, o non serve a nessuno. Tutelare il marchio va bene, è giusto, doveroso: coltivare una mentalità di rispetto per il proprio e l'altrui lavoro, dimostrando con i fatti che si crede in ciò che si fa, è vitale. Altrimenti, tutte quelle chiacchiere sul territorio, la storia, la tradizione, che regolarmente ammannite a noi giornalisti, e con noi, indirettamente, ai consumatori, sono solo poesia». Ecco, non credo che, per ora, serva aggiungere altro.

Nessun commento:

Posta un commento