venerdì 15 settembre 2006

Quando nacque il nome dell'Amarone

Angelo Peretti
A proposito delle origini dell’Amarone, m’ha scritto Francesco Quintarelli, uomo di bell’acume, esperto in materie valpolicellesi. Portando un contributo, che molto volentieri di seguito rendo pubblico.
L’intervento nasce a commento del pezzo che comparve in marzo su InternetGourmet. Riprendeva una vecchia intervista a Nino Franceschetti dopo che Alessandro Masnaghetti l’aveva riattualizzata sulla sua bella rivista Enogea. Il pezzo s’intitolava «Quando il Nino raccontò la vera storia dell’Amarone».
Quintarelli dice la sua sulla storia vera dell’Amarone. E per quanto attiene al nome (lui dice, con bella e arcaica parola, epiteto), ne riconduce l’origine ad Adelino Lucchese (era il 1936), cantiniere e mezzadro. Ed alla valorizzazione che di quel nome fece poi il direttore della Cantina sociale della Valpolicella, Gaetano Dall’Ora.
La testimonianza è piuttosto interessante, non c’è dubbio. Anche perché è diretta, e va a colmare le lacune – molte – delle fonti scritte. Ringrazio dunque di cuore Quintarelli per avermela - ed avercela - voluta condividere. Così come mi fa piacere - molto, e m’inorgoglisce - che legga InternetGourmet.
Così come trovo di grand’interesse il passaggio in cui narra dell’esperienza fatta di persona al mercato veronese, e alle tipologie vinicole che allora si commercializzavano. Quell’allora è mezzo secolo fa, subito dopo la guerra. E mezzo secolo nella storia enologica italiana è un tempo infinito, ché allora eravamo ancora alle origini, lontani perfino dal pensare per davvero ai disciplinari e alle doc, che sarebbero venute di lì a vent’anni. Anche questa è testimonianza personale che diventa fonte, dunque.
C’è poi poesia quando racconta, Quintarelli, degli antenati che imbottigliavano in «luna vècia de agosto». Quel guardare agli astri che oggi viene enfaticamente riappropriato anche da produttori di grido. E che appartiene alla storia vinicola. E quel vino imbottigliato con la luna giusta, se poi non era molto dolce, era quello «da la mandola amara» o «da ‘na veneta sconta», o «tondo», il «vin da òmeni». Bellissimo.
Non mi sento invece di concordare appieno sull’interpretazione delle citazioni antiche, a partire da quella catulliana. Francamente, ho sempre nutrito serie perplessità – e mi perdoni Quintarelli così come chi altri la pensi come lui – sull’effettiva riconducibilità dell’attuale Amarone o del Recioto valpolicellese all’Acinatico delle testimonianze letterarie d’età latina. Pressoché nulla sappiamo di quel vin retico. Non ve n’è, ovviamente, descrizione analitica, se non con vago cenno alla sua potenza e dolcezza. Non v’è notizia, se non precaria pur’essa – la Rezia, regione amplissima – dell’origine, del luogo. Né tantomeno – chiaramente – alla tecnica produttiva. So solo che difficilmente, molto difficilmente, un vino d’elevato residuo zuccherino avrebbe potuto in quell’epoca essere trasportato fino a Roma (o ben più a sud) senz’incontrare seri, serissimi problemi di rifermentazione, di deterioramento. D’esplosione, direi, dell’anfora o dell’eventuale botte. Che è poi, almeno in parte, problema attuale, per il Recioto, nonostante le moderne microfiltrazioni, che sono innovazione tecnologica recentissima. Figurarsi millanta anni addietro.
Si possono dunque semplicemente far congetture, e ognuno è libero di tracciare le sue. Tutte sono degne – ritengo – della medesima attenzione. Personalmente, ci vado coi piedi di piombo. Tendo a far prevalere i dubbi sulle certezze, come sempre m’accade in materia storica. La storia si fa sulle fonti. E quando queste latitano, si può fare anche sui monumenti della cultura materiale, con metodo multidisciplinare: è una scienza che si chiama gastronomia, questa qui. E comunque si fa – secondo me – sempre con lo scetticismo che superi l’entusiasmo. Ma questa è solo la mia personalissima opinione, e reputo altrettanto valide le idee altrui.
Ma ora, basta con le mie parole. Vi lascio alla lettura di Quintarelli. Ed è una bella lettura, l’assicuro.

La storia vera dell'epiteto Amarone
di Francesco Quintarelli
«Il nuovo epiteto Amarone per indicare il Recioto Amaro nasce nella primavera del 1936 nella Cantina Sociale Valpolicella, istituita nel 1933 in Villa di Novare Mosconi-Simonini, attualmente Bertani. Il direttore Dall’Ora dr. Gaetano, i cui meriti in argomento sono poco conosciuti anche in Valpolicella, trasferì nel 1948 la Cantina Sociale a San Vito, nella vecchia cantina Quintarelli Cav. Antonio. Ci lavorai dall’autunno 1948 all’ottobre 1949. G. Dall’Ora usava abitualmente l’epiteto Amarone in etichetta e mi dichiarò che nella primavera del 1936 spillando il Recioto Amaro dal fusto di fermentazione il mezzadro capocantina Adelino Lucchese, palato e fiuto eccezionali, uscì in una esclamazione entusiastica: “Questo non è un Amaro, è un Amarone”. Quel contadino aveva regalato alla Valpolicella la parola magica e il dr. Dall’Ora la usò subito in etichetta. La Cantina Sociale di Negrar nell’ingresso attuale ostenta giustamente una lettera di spedizione del 1942 con descrizione di “Fiaschetti di Amarone 1938”. Fare del nome e della sua commercializzazione una storia inesatta non contribuisce certo alla nobiltà del “campionissimo della scuderia enologica veneta”.
E non solo veneta. (…)
Perché l’Amarone esisteva anche prima, da qualche tempo se Catullo nel Carme n. 27 (49 circa a.C.) reclama “calices amariores” (bicchieri più amari). Ma ben altri documenti ne danno testimonianza.
Cassiodoro nei primi anni del 500 ricerca l’Acinatico della Valpolicella, rosso e bianco: si ritiene che fosse un “recchiotto amaro”, scrive G. B. Peres nel 1900, opinione coincidente con quella del Panvinio, che nell’Acinàtico di Cassiodoro riconosce il Rètico di Augusto e del Sarayna (1543) che parla dei vini della Valpolicella “neri, dolci, racenti e maturi”. Per giungere a Scipione Maffei che esalta il vino amaro della Valpolicella. Ma forse più di ogni altro vale il giudizio emesso da assaggiatori francesi a Parigi nel 1845 su una partita di vino “Rosso Austero Costa Calda” di S. Vito di Negrar vecchio di 11 anni: “Supremo vino d’Italia … preferibile a diversi Bordeaux ed Hermitage”. Diffuso il nome Reciòto, sulla fine del 1800 Antonio Quintarelli mescola foglie di pesco al passito in fermentazione, per “darghe l’amaro al vin” e nel 1903 alla Esposizione Enologica e gastronomica di Milano ottiene il Premio Medaglia d’Oro per il “Recciotto Amaro di Negrar”. Il premio più antico che si conosca per l’Amarone, che nel corso di 2000 anni ha solo cambiato i nomi, ma è rimasto sempre quello, perché il passito d’insufficiente titolo zuccherino sempre continuò a fermentare in damigiana, diventando più volte amarotico se non amaro.
Non per nulla gli antenati lo imbottigliavano in “luna vècia de agosto”, a fermentazione completata. E se non era molto dolce, era quello “da la mandola amara” o “da ‘na veneta sconta”, o “tondo”, il “vin da òmeni”.
E il “Recioto scapà”? Nato nel 1922, cresciuto sulla collina di Negrar e introdotto nei “misteri” dell’avita cantina fin da bambino, non ho mai sentito quella definizione prima del 1997.
Uno non può conoscere tutto, anche se ha passato 70 anni della sua vita tra uve e vini.
Il ripasso poi è pratica multisecolare. Sulle vinacce del passito (dolce o amaro) si sono sempre fatti “rebojir” i vini spillati in autunno con due o tre passate diverse, ottenendo il “mèso Recioto” e altro. L’ultimo ripasso era di acqua per avere la “graspìa”, l’acidulo e cenerognolo beveraggio di tutto l’inverno. Perché una prima pigiatura de l’ua da granar”, non “da taolon”, si faceva anche a San Martino, per “rebjoir” i “torcolè”.
Quanto alle categorie merceologiche di 50 anni fa, forse un approfondimento non guasterebbe.
Nel 1945-48 frequentavo il mercato del vino “sotto la Costa” e la Fiera di Verona.
Sentii parlare di Recioto, di “Mèso Recioto”, di vino buono o meno buono.
Non so bene cosa sia il “ripasso moderno”; so che da secoli si “rebojiva” altro vino sulle vinacce del passito.
Quanto all’epiteto “Amarone” anche personaggi di competenza vitivinicola elevata, non credono più a storie diverse da quella del contadino Adelino Lucchese.
Nel 1963 al Palio del Recioto di Negrar fu istituito il “Premio Speciale per l’Amarone”.
E i divergenti scritti di firme illustri su periodici assai diffusi ? Nessun stupore; nulla di nuovo sotto il sole: “quandoque bonus dormitat Homerus”.
PS. La mia stirpe coltiva vigne e produce vino in Valpolicella almeno dal 1510. Divisa in più rami ha sempre mantenuto e seguito tradizioni vitivinicole. Il rappresentante più famoso attualmente è Giuseppe Quintarelli, giustamente conosciuto in tutto l’orbe terracqueo. Merito di capacità e fedeltà alla tradizione. Peccato che la divisione tra i nostri due rami familiari risalga alla seconda metà del 1500! (Archivio Parrocchiale - Negrar)».

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