domenica 20 maggio 2007

Storia di bianchi di dieci e più anni

Angelo Peretti
C’è chi è nato postumo. Lo diceva Friedrich Nietzche, filosofo. Ora, fatte le debite proporzioni, un sentimento del genere mi capita di sentirmelo talvolta appiccicato addosso. Quando dicevo che certi bianchi sono buoni almeno dopo cinque anni di bottiglia, mi si guardava con compassione. Quando scrivevo di mineralità, l’ironia fioccava. Quando sostenevo che la beva è un fattore importante per un rosso, si dubitava della sanità mentale. E se affermavo che mi piacevano i rosati, be’, peggio per me. Oggi le «nuove» parole d’ordine del vino sembrano quelle lì: longevità, mineralità, beva. E i rosè «tirano» come non mai sul mercato. Avviso: da qualche tempo mi stanno intrigando le accese freschezze dei Riesling della Mosella di due-tre anni d’età e le ossidazioni - volute e ben compensate dalla spinta acida - dei bianchi del Jura...
Detto questo, non posso che esser lieto che - finalmente - si propongano iniziative volte a valorizzare sul serio i bianchi capaci d’invecchiare, mentr’attendo ancora che - finalmente - qualcosa si faccia per i rossi da bere. E nel primo ambito, una manifestazione di valore è quella che Bruno Donati, grazie al sostegno, che mi par convinto, del Consorzio del Soave, realizza da un paio d’annetti a Monteforte d’Alpone, est della provincia veronese, mettendo insieme cento e passa bianchi più o meno longevi dell’italica terra tutta.
Quest’anno, alla seconda puntata, devo dire che il livello di «Tutti i colori del bianco» (è il titolo della kermesse archeobianchista) è stato alto. Sia per i vini in degustazione, sia, soprattutto, per il qualificato parterre di produttori (mica facile sentire insieme i Felluga, gli Jermann, i Benanti, i Massa, i Soldati, i Folonari, giusto per dirne qualcheduno) che hanno preso a interrogarsi insieme (molti di loro certamente lo facevano di già, ma in solitudine quasi sempre) di come il vino sia più figlio del terroir che non della cantina. E già questo avrebbe giustificato lo sforzo organizzativo.
Eppoi, com’ha giustamente mess’in luce Mario Pojer, vigneron tridentino, è bene riflettere sui vitigni autoctoni, che han retto e reggono meglio degl’internazionali. Ma mica ci si deve pensare per feticismo o moda. Il fatto è che le vigne internazionali qui da noi maturano tropp’in fretta, mentre quelle di storica presenza hanno tempi più lunghi, e dunque più perfetta completezza e anche potenziale maggior finezza e longevità dei vini che se ne traggono. E mi par si possa esser d’accordo. Purché s’abbia rispetto non tanto e non solo del vitigno in sé, quanto della sua interazione con la terra, col clima, con la storia, con l’uomo, col terroir insomma. E si pensi che la cantina e la tecnologia son buone se permettono di meglio preservare quant’è nato in vigna, e solo questo.
Ora, mi vien voglia di dire qualcosa dei bianchi «vecchi» che ho assaggiato. E siccome erano tanti e tanti nel chiostro montefortiano, mi limito a quella quindicina che ho tastato alla degustazione destinata ai giornalisti e affini. E dunque, andiamo, in ordine d’età, dal più giovane al più vecchio. Senza voti o faccini o quant’altro, come già l’anno passato.
Avverto poi che il nome del vino l’ho ricavato da testi e guide e siti, perché purtroppo il foglietto distribuito in sala era troppo sintetico e assai impreciso (e questa direi è l’unica cosa davvero da migliorare dell’evento di Monteforte). Ergo: ce l’ho messa tutta, ma non assicuro che la denominazione sia esattamente quella ch’era in uso nell’annata.
Comincio.
Colli Orientali del Friuli Rosazzo Bianco Terre Alte 1997 Livio Felluga Che vino! Fu tre bicchieri di Vini d’Italia. Glieli ridarei di nuovo. Ché è ancora terribilmente giovane. Color giallo-verde. Fascinoso naso di fiori e clorofilla e pompelmo. E in bocca ancora vegetalità e agrumi e salvia e anice e pesca bianca e florealità. E freschezza. E lunghezza. E capacità di reggere nel calice. Buono, buono, buono.
Caluso Bianco Vignot S. Antonio 1997 Orsolani Scrivo Caluso Bianco Vignot S. Antonio, ché credo questo fosse allora il nome giusto: il foglio di sala dice solo Vignot Erbaluce. Comunque, un Erbaluce, Piemonte. Al naso, un po’ ossidativo. Ha cedro ed ananasso quasi canditi e vaghe note d’erba limoncella. Il bocca ancora vene agrumate e discreta freschezza e frutto morbido. Si fa ancora bere. Niente di più.
Soave Classico 1997 Suavia Bottiglia ossidata. Peccato.
Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Podium 1997 Garofoli Giuro che m’impegnerò a cercar di capire il Podium. Un Verdicchio che sa di legno senz’essere mai stato nel legno: pazzesco. Fin qui, confesso d’averlo sempre trovato ostico. Eppure senti che ha materia e personalità, che si disvelano con lentezza nel bicchiere. Fa meditare, ma fatico. Il ’97 fu tribicchierato da Vini d’Italia.
Terre di Franciacorta Marengo 1996 Villa Burroso. Frutto tropicale. Vene ossidative. È un bianco datato, indicatore di mode che al suo tempo - un decennio fa - ancora imperavano (imperversavano) sull’onda delle sirene mercantili americane e dunque si piantava ovunque chardonnay e si affinava comunque in barrique tostata e vanigliata. Non è (e non è mai stato) il mio tipo di vino.
Etna Superiore Pietramarina 1996 Benanti Mai stati sull’Etna? Se volete ritrovarne gli odori e i caratteri in un vino, bevete il Pietramarina di Benanti. Che abbia qualche anno. Signori, giù il cappello: quest’è un fuoriclasse. Naso vulcanico, minerale di pietra focaia, elegantissimamente speziato. E vene di pasta di mandorla. In bocca si replica. In più, freschezza e morbidezza e polpa. E lunghezza. Capolavoro.
Lugana Sergio Zenato 1996 Zenato Fu, il ’96, ottima annata in terra luganista. E Sergio Zenato è uno dei padri del Lugana. Conosco il vino, e dunque posso dire che la mia bottiglia non era perfetta: dunque, da riprovare. Posso anche dire che, alla lunga, mi si conferma che il legno (la barrique) non è la miglior soluzione per affinare il bianco del mio lago di Garda: a mio parere è meglio, di gran lunga, l’acciaio.
Gavi di Gavi d’Antan 1995 La Scolca Giorgio Soldati s’è detto orgoglioso di questo suo Gavi ultradecenne, e ne ha buon diritto. L’avevo già bevuto due volte e sempre m’era piaciuto. Confermo. E mi piace soprattutto al naso, con quel suo bel frutto giallo perfettamente integro: è pesca, direi, matura e gialla. E anche in bocca torna succosa la pesca, di giovanile pulizia. E c’è buona freschezza.
Il Tornese Chardonnay 1995 Drei Donà Chardonnay in terra di Sangiovese: all’epoca, fece scalpore questo Tornese. Ed è proprio come ascoltare certe musiche di qualche anno fa: le senti datate. Ecco: quest’è un vino che tuttora si fa stimare per il livello dell’interpretazione tecnica, che conferma il valore dell’azienda, ma quelle morbidezze di frutto filoamericaneggianti non fanno per me.
Soave Classico Superiore Contrada Salvarenza Vecchie Vigne 1995 Gini Fu, il Salvarenza ’95, il primo tre bicchieri di Sandro Gini. Ed era un Soave di taglio innovativo: mostrava che si poteva far garganega in barrique senza che il legno sovrastasse il frutto, A distanza d’anni, eccolo qui, ad esprimer tuttora, grassa e opulente eppure fresca ancora, la garganega di Monteforte. E quelle vene minerali delle terre basaltiche.
San Lorenzo 1995 Dominio di Bagnoli Lorenzo Borletti racconta che è vino frutto d’errore, d’un vigneto non raccolto, e l’uva è surmaturata e s’è ammantata di muffe. Dice pure: in riva all’Adige, dov’è la vigna, ci son condizioni simili a quelle di Sauternes. Dico: esagerato! Ma, pur con le carenze di pulizia aromatica, ha curiose vene di iodio e di cloro e bocca abbastanza sul frutto e secca. Chissà…
Vintage Tunina 1995 Jermann Dite quel che volete sullo stile, ma quest’è un bianco fatto bene e bene assai. Fu tre bicchieri di Vini d’Italia, e personalmente glieli ridarei. All’olfatto si concede con gradualità. In bocca c’è esemplare nitore di memorie fruttate e floreali. C’è polpa, certo, ma quel che ti sorprende di più a ogni assaggio è proprio questa definizione dei contorni, questa pulizia.
Vignamare 1994 Lupi Un pigato, e dovremo davvero mettercelo in testa che questo è un grandissimo vitigno. E son bianchi marini, quelli che se ne traggono sulle coste di Liguria. Bianchi che sanno di iodio e di macchia mediterranea. E già: è splendido il bouquet di questo Vignamare del ’94. E in bocca è vino rustico, ruvido, personalissimo. Gratta la vena minerale dell’ardesia. Averne, di bottiglie così.
Colli Tortonesi Timorasso Costa del Vento 1992 Vigneti Massa Questo Timorasso del ’92 è una sorta di prototipo, figlio di vigne di soli tre anni d’età. E propone intense mineralità all’olfatto e racconta in bocca ancora di terra e di pietra. Solo alla distanza fa capolino il frutto bianco. Ed è salino. I primi vagiti di quello che sarebbe diventato, in vendemmie più recenti, un bianco di valore. In Piemonte.
Cabreo La Pietra 1987 Tenute Folonari Un vino che ha fatto epoca: chardonnay in barrique, introduzione di vitigni e metodi e stili internazionali in terra di Toscana. Una sorta di reperto, questo ’87. E la bottiglia non ha retto benissimo, e le ossidazioni sono avanzate, ma c’è ancora frutto tropicaleggiante e una nota di cioccolato al latte. Che dire: non faceva per me quand’era giovane, non fa per me oggidì.
Trentino Müller Thurgau Palai 1981 Pojer e Sandri Orca miseria, che vino strano che ci vien da Faedo. Vino dell’81, ma giovane nei lampi verdi che n’attraversano il giallo tenue. Naso di mandorla e nocciolo di pesca. Ammoniaca. Pesca gialla macerata in macedonia. Eppoi albicocca stramatura. In bocca è teso, ed ha pietra focaia. Frutto anche qui stramaturo-surmaturo. E tuttora freschezza. Sorprendente.

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