venerdì 20 aprile 2007

Giudicare il vino con vista, gusto e olfatto? C’è la propriocezione

Angelo Peretti
Sembra una parolaccia. Ed è difficile da pronunciare: propriocezione. Però sta andando di moda: dovremo farci l’abitudine. E si parla anche di propriocettività, di capacità propriocettiva. Provate a fare una ricerca su Google: vedrete quante citazioni. L’usano soprattutto nel mondo della medicina, questa terminologia. Ma anche dello sport. «La capacità propriocettiva – si legge per esempio sul sito www.sportmedicina.com - è una particolare sensibilità, grazie alla quale l'organismo ha la percezione di sé in rapporto al mondo esterno. Infatti, non sono solo la vista, l'udito o il tatto a informare come si posiziona il corpo nella realtà, ma la sensibilità propriocettiva che permette di sentire il movimento di un braccio o di una gamba anche quando gli occhi sono chiusi e consente al corpo di muoversi al meglio».
Si comincia a dissertare di propriocezione perfino sulle riviste di moda e di costume: ho letto un servizio qualche settimana fa su D, il settimanale della Repubblica.
Orbene, potreste obiettare, questo che c’entra col wine & food? Che ci azzecca la propriocezione con InternetGourmet?
C’entra, perché più se ne discute, e più vien fuori che non abbiamo solo cinque sensi. E non è questione d’ammettere che ci sia quel «sesto senso» di cui ogni tanto si vocifera. Non è questione di doti paranormali. No, semplicemente i nostri sensi potrebbero essere di più di quelli del canonico quintetto vista-olfatto-gusto-tatto-udito. Parecchi di più. Forse una quarantina addirittura. Ohibò.
Se questo fosse vero, e non son certo preparato dal lato scientifico per dire se sia vero o no, allora potrei cercare di spiegarmi quello che sin qui non sono mai riuscito a spiegarmi. E mi riferisco al vino (e al cibo) e al piacere che se ne ricava. Non mi son mai capacitato, cioè, di come sia possibile misurarne la piacevolezza sulla base di riscontri oggettivi. Con i consueti parametri oggettivi, intendo, del gusto, della vista, dell’olfatto. È qualcosa che mi sfugge. E che ogni volta mi mette in imbarazzo.
Quando s’assaggia un vino per darne un giudizio, s’utilizzano in genere parametri predeterminati. Possono esser l’intensità del colore, l’integrità del profumo, la finezza, l’armonia, la franchezza eccetera eccetera. Sta di fatto che, sulla base dei canoni prescelti, vien fuori una valutazione, un punteggio di ciascun vino assaggiato. In genere, la tendenza in vigore è quella americana, parkeriana, coi punteggi centesimali. E dunque se un certo vino ha ottenuto, che so, 94/100, vuol dire che è un gran vino e che comunque val di più d’un altro vino che di centesimi ne ha avuti 80. Altri usano scale in ventesimi. Ma è irrilevante che s’usi un’altra parametrazione, un’altra numerazione: il risultato finale è sempre lo stesso, e il vino che ha più potenza e ricchezza è quello che prevale.
Ebbene, faccio così anch’io. E - dicevo - m’imbarazzo. Perché troppo spesso m’accade di dar punteggioni a vini che poi non riesco a bere, che non mi regalano piacere. Alloro riprovo a fare i conteggi, e non c’è verso: il risultato è quello, il vino merita il voto d’eccellenza, epperrò quello stesso vino poi mi resta nel bicchiere, imbevuto.
Invece, mi succede a volte il contrario. E cioè che qualche vino che resta più basso nella scala di valutazione, mi piaccia da impazzire a tavola. E che ne beva volentieri uno, due bicchieri di fila, trovando piacere nella succosità del frutto, nella sapidità salina, nella lunghezza aromatica non invasiva, nel tannino composto. Tutte doti che amo, ma che non essendo ipertrofiche non possono avere grande punteggio.
Dicevo: la cosa mi mette spesso in crisi. E nelle degustazioni m’impegno a esser rigoroso, a seguire il metodo, ad astrarmi il più possibile dalla soggettività. Credo anche d’esserne abbastanza capace. Ma è appunto questo che - forse - non va: il metodo.
E se il metodo non andasse semplicemente perché l’errore sta alla base? Se tutto dipendesse dal fatto che giudichiamo tenendo conto esclusivamente dei cinque sensi (o meglio, in genere appena di tre) che ci hanno insegnato a scuola? Se dovessimo superare lo strapotere della vista, dell’olfatto, del gusto? Se davvero ci fossero altri sensi? Se si dovessero mettere in gioco le valenze della propriocettività? Se dentro di noi ci fossero altre vie con cui ci relazioniamo con l’esterno? Altre corde che vibrano quando assaggiamo un vino?
Come spiegare altrimenti il fatto che io possa trovare ugualmente piacevoli - ripeto: ugualmente piacevoli, non uguali come struttura, intensità, corpo eccetera - un elegante Barolo, uno Champagne dalle bollicine cremose, un vecchio Riesling tedesco ricco di mineralità, un austero rosso del Médoc con mezzo secolo alle spalle, ma anche un Bardolino fragrante di piccolo frutto, un Prosecco floreale, un Moscato che sprizza aromaticità? Qual è il parametro che me li rende tutti appaganti (vietate le esclamazioni indignate), nonostante la loro estrema, assoluta diversità?
Oh, quanti interrogativi! E certamente non sono io quello in grado d’offrire risposte. So solo che se giudicassi i vini che ho sopra elencato coi valori «oggettivi» delle scale in uso, ne darei valutazioni diversissime. E invece, nel mio livello di soddisfazione personale, possono essere pressoché identici.
Bene. Chi mi legge sa che ho rinunciato, nella valutazione dei vini che presento su InternetGourmet, alle scale classiche di degustazione. E dò pareri in faccini, in ordine di piacevolezza. Coi tre lieti faccini a far da valutazione massima, di massimo piacere, intendo. E il piacere credo provenga da fattori quali l’armonia, l’eleganza, la finezza, la bevibilità.
Ecco, i faccini li ho scelti proprio per quanto ho detto sopra: non necessariamente un vino cui darei 90 e più centesimi poi finisce per piacermi, non necessariamente un vino da 82 centesimi non mi dà, nel genere suo, piacevolezza molta.
Lo so, il sistema è gracile, fragile, non ha fondamento scientifico. Lo so bene. Ma non m’importa. E da quando mi sono imbattuto nelle teorie della propriocezione comincio a pensare che forse lì c’è la riposta, in certi nostri sensi ancora incogniti che però superano (integrano?) vista, olfatto, gusto, tatto, udito. E che coinvolgono pieghe segrete del nostro essere.
Ecco, se davvero ci fossero, gli altri sensi, quelli oltre i cinque, si dovrebbe per forza ripensare ai parametri coi quali giudichiamo il vino (e il cibo). Perché non provarci?
Da tre anni organizzo wine tasting pressoché settimanali. E ai presenti chiedo alla fine di dare un voto ai vini tenendo solo conto della piacevolezza personale. Del piacere, cioè, che quel vino ti ha dato e della voglia che hai di riberlo. E dunque 10 va al vino di cui, se fosse possibile, apriresti immediatamente un’altra bottiglia, 9 a una bottiglia che riassaggeresti volentieri fra una settimana, 6 ad una che stapperesti solo se non ci fosse di meglio per vincere l’arsura. I vini vengono serviti a tavola, contemporaneamente. Prima si assaggiano senza cibo. Poi si serve un primo piatto e si continua l’assaggio. Poi arriva un secondo piatto, e si seguita con gli stessi vini. Il vino più appagante è quello che meglio regge l’arco temporale d’una cena. Be’, il sistema mi pare funzioni, e a volte capita di dar punteggioni a vini che con altri metodi si fermerebbero più sotto. Certo, è solo empirismo. O forse no.

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