lunedì 1 ottobre 2007

Quaranta, e (forse) si riparte: il Bardolino alla svolta

Angelo Peretti
Stavolta cedo il passo. L’ho già fatto un paio di volte in passato, e lo rifò volentieri anche stavolta: lascio il mio spazio all’intervento d’altri. E l’altro in questione è Giorgio Tommasi, presidente della Cantina di Castelnuovo, una delle tre realtà consortili del territorio gardesano di riva orientale.
Tommasi doveva partecipare con me e con Franco Cristoforetti (Villabella) e con l’amico Nereo Pederzolli, giornalista di quelli che ammiro, al convegno che il Consorzio del Bardolino ha organizzato per la festa dell’uva: la quarantesima vendemmia della doc bardolinista, era il tema. Eravamo a Bardolino, intendo. E in effetti ha partecipato, ma io che ero il cosiddetto moderatore dell’incontro, ho preferito metterlo sulla chiacchierata, e gli ho quindi domandato di sintetizzare. Solo che, rileggendolo, quell’intervento che s’era scritto m’è piaciuto, e gli ho chiesto se me ne dava copia, e adesso trovo giusto condividerne i contenuti. Ché non è mica così cionsueto che nella mia benacense terra si faccian riflessioni così a tutto tondo.
Dico subito, e mica per fare il bastian contrario, che non tutto condivido appieno, ma è naturale che possa esser così. E il punto di non totale condivisione è quando - lo leggerete - si parla dei vitigni, ché Tommasi vorrebbe tornare a valorizzarne la complessità, com’era nelle origini del Bardolino, ed apprezzo l’intento, ché questo porterebbe a rifare il vino salino e piacevolmente beverino che era. Ed è pur vero, però, che dice: prima la zonazione. In modo da verificare quali siano davvero i vitigni vocati terra per terra. E dunque già si fa distinzione. Personalmente, però, e l’ho scritto più volte, son terroirista: ossia, credo nel terroir. Più che nel vitigno, che considero uno soltanto dei cento caratterii del terroir, appunto. E dunque il vitigno m’intriga solo in parte, perché soprattutto vorrei che nel vino trasparisse l’anima del luogo e la genialità dell’uomo che in quel luogo vive, il genius loci, come dice chi se n’intende di cose di sociologia ed affini.
Detto questo, evviva! Mi piace quel che ha scritto Tommasi. E ve ne propongo la lettura. Ché finalmente nella mia terra si torna a pensare. E la rinascenza bardolinista potrebbe essere lì per arrivare.

Produrre un Bardolino di qualità
di Giorgio Tommasi
Voglio credere che quando mi è stato proposto di esprimere la mia opinione sul come produrre un Bardolino di qualità, lo si sia fatto perché la Cantina di Castelnuovo, che presiedo, coi suoi quasi trecento soci, è il maggior produttore di Bardolino, ma anche perché per me, come per Angelo Peretti, il primo vino bevuto è stato appunto il Bardolino (anzi, qualche goccia di Recioto di Lazise, nei primi anni di vita). E perché godo della fama di essere rigoroso, forse troppo, nel pretendere il rispetto di regole che siano finalizzate ad ottenere vini di qualità.
Accingendomi tuttavia a riordinare le idee per svolgere il tema, mi sono reso conto di quanto fosse vasto rispetto alle necessità di sintesi e complesso per me che non sono propriamente un esperto.
Subito si è presentato il problema di definire cosa si intenda per un Bardolino di qualità: per me, è il vino prodotto con buone uve dei vitigni tradizionali, nella giusta miscela, coltivati nei migliori vigneti, all’interno della zona delimitata dal disciplinare.
Può sembrare una definizione lapalissiana, ma non tutti sono stati e sono d’accordo.
Vedo di seguire passo per passo la definizione proposta.
Il vino. Per me la vinificazione deve semplicemente assecondare e seguire i naturali processi di fermentazione, macerazione e maturazione, senza introdurre strani artifici (ad esempio la barrique), utilizzando al meglio quello che la tecnologia ci offre per riprodurre su larga scala e con risultati prevedibili quello che millenni di esperienza ci hanno insegnato.
Vitigni tradizionali. Qui comincia a nascere un problema che è di pochissimi vini, cioè la presenza di molte varietà di uva. Penso che sia improponibile e probabilmente inutile ritornare alle decine di varietà utilizzate cinquanta, cento o duecento anni fa. Però alcuni punti fermi sono necessari. La corvina e la rondinella vanno benissimo, ma come fare un Bardolino vero senza molinara (quasi sempre citata nelle retroetichette, ma quasi mai presente), senza sangiovese e negrara, senza un pizzico di garganega e fernanda? E poi i vitigni di più recente introduzione: sì a piccole dosi di merlot (che nelle nostre colline è di grande qualità) e di barbera, che hanno tradizione centenaria, no al cabernet che c’entra come i cavoli a merenda.
Giusta miscela. È impossibile fissare percentuali precise: ad ogni produttore la sua ricetta. Mi limiterò a registrare la tendenza ad esagerare con la corvina, probabilmente per scarsità di uve di qualità degli altri vitigni.
Nei migliori vigneti. Ci troviamo di fronte ad un altro problema particolarmente accentuato nella zona del Bardolino: la variabilità esasperata dei suoli, che provengono da substrati pedogenetici trasportati dal ghiacciaio in quattro glaciazioni (anche se solo le ultime due sono importanti). È quindi fondamentale enfatizzare l’importanza della macro e micro zonazione, che permette di individuare gli appezzamenti con diverse caratteristiche, ma comunque ottimali per la coltivazione della vite, e quelli da bandire: è questa, a mio parere, la priorità assoluta per il Bardolino! Ci avevano già pensato i nostri antenati facendo leva sull’esperienza di millenni, ed ora per molti motivi dobbiamo utilizzare strumenti moderni e scientifici come le analisi del terreno, le microvinificazioni, eccetera.
Continuando a definire i migliori vigneti, accenno alla forma di allevamento e alla densità di impianto. Per fortuna è abbastanza semplice: va benissimo il guyot, che peraltro si avvicina al filare ad archetto già utilizzato da tempo (io coltivo vigneti impostati così che hanno sessant’anni d’età) e vanno bene le densità tra quattromila e cinquemila viti per ettaro.
Per quanto riguarda portainnesti e cloni, ritorniamo alla complessità e ai problemi. Ci troviamo con vigneti degli ultimi anni del secolo con portainnesti vigorosi (come il famigerato kober), cloni troppo produttivi e forme espanse, che convivono con i nuovi impianti sicuramente indirizzati alla qualità, ma ancora giovani per darci i grappoli migliori. E sui cloni è auspicabile intensificare gli sforzi per selezionarne di nuovi dai pochi vigneti antichi rimasti, anche per non cadere nella standardizzazione delle uve.
Tralascio di parlare delle pratiche agronomiche, perché sarebbe troppo lungo. Solo un pensiero: la vite ha bisogno di soffrire un po’, e quindi solo eventuali irrigazioni di soccorso.
Seguendo lo schema proposto, ritengo che avremo ottenuto non uno, ma molti Bardolino di qualità, che potranno di volta in volta essere pronti, leggeri e da bere giovani, oppure più corposi e adatti all’invecchiamento di qualche anno, con più o meno colore, più o meno salati e così via, ma tutti inconfondibilmente Bardolino.
Per finire, un cenno al ruolo delle cantine sociali: in ogni denominazione, sono fondamentali per l’equilibrio della filiera e devono essere orientate a premiare la qualità delle uve. Già nel 1903, quando nascevano le prime cantine cooperative, il Marescalchi individuava come il principale problema la valutazione delle uve dei soci, elencando sei diversi metodi per definirne la qualità. È trascorso più di un secolo, ma il problema è sempre attuale. Con la differenza che oggi sono in fase di sperimentazione avanzata strumenti tecnologici che permettono la misurazione di fondamentali parametri qualitativi.
La scelta di come remunerare le diverse uve incide in maniera significativa sui comportamenti e sulle decisioni del socio, non solo nel breve, ma anche nel medio e lungo periodo, influenzando la viticoltura di un intero territorio.
Concludo con gli auguri di buon compleanno al Bardolino e… come si dice: la vita inizia a quarant’anni!
Giorgio Tommasi

E adesso chiudo io, da padrone di casa, e m’associo: avanti coi prossimi quaranta.

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