Angelo Peretti
L’interrogativo era rimasto in sospeso mesi fa. Ed era questo: perché si decida di chiamar Sacripante un vino bianco. Ché Sacripante mi ricorda le esclamazioni dei fumetti di Tew Willer. Se poi vogliamo far la figura dei colti, allora posso anche dire ch’è il nome del re dei Circassi nell’Orlando Furioso dell’Ariosto. È, in più, termine desueto, che, come leggo sul mio Devoto-Oli, indicava un uomo grand’e grosso, «dal cipiglio fiero e temibile». Oppure, scherzosamente, una «persona vivace e astuta»: quel sacripante di mio figlio, avrebb’esclamato un genitore dei tempi andati, riecheggiando studi classici.
Dicevo: quest’etichettatura resterà un mistero. Invece non me n’è più oscura la motivazione, ché sono andato a metterci il naso.
Intanto: il Sacripante è un Soave, e lo fa un’aziendina piccola piccola e appena nata, che si chiama Le Battistelle. A Brognoligo, contrada collinare in terra di Monteforte d’Alpone, area soavista classica.
Dicevo: piccola, ed è definizione corretta.
Sei ettari in tutto, suddivisi in pezzettini minuscoli e a volte attaccati via sui fianchi dei colli che non so neanche se ce la fanno ad arrivarci con un trattore, e certe volte proprio non credo. Di quelle pezze di vigna, 24mila metri sono il crû delle Battistelle, in piedi sulla collina, che sembrano un lembo d’Alsazia portato nell’est del Veronese, e andare a vendemmiarci è una maledizione. Poi, piccola cosa al Tremenalto, 9mila metri sul Monte Castellaro, meno alle Carbonare e Rugate, 10mila sul Monte Grande, il resto attorno a casa. Le vigne più giovani piantate nel ’90, le più vecchie anche di cent’anni, alle Battistelle.
La cantina è meglio chiamarla cantinetta: una stanza e tutto acciaio (più giusto due barrique prese per provare, ma con rimpianto per i quattrini vanamente spesi).
A condurre vigna & cantina son moglie e marito: lui, Gelmino Dal Bosco, classe ’62, lei, Maria Cristina, quattro di meno. Prima conferivano tutto. Ma cinque anni fa, nel 2002, hanno preso coraggio, e si son messi a vinificare in proprio. Con la vendemmia del 2004 hanno pure deciso d’imbottigliare. Ma di quell’annata e poi di quella del 2005 sono usciti con sole 3mila bottiglie per anno del Sacripante. E basta. A prezzi così a buon mercato che val la pena comprarlo anche solo per lo sfizio di provare.
Fin qui il contorno. E il nome, dunque?
Il nome, Sacripante, è quello d’un avo. Già, Sacripante Dal Bosco quondam Andrea, si legge in una vecchia carta di famiglia. Fu lui, forse, a prender le terre di famiglia. È scritto che il 25 di maggio del 1721 sborsò 5 troni e 4 marchetti «sopra una pezza di terra montiva con poche vigne, e fruttari, arativa in parte ed in parte vegra». Ecco perché han pensato d’usar quel nome: per ricordare l’antenato ch’acquistò la vigna. Et voilà: mistero spiegato.
Quanto all’intitolazione aziendale, la scelta di chiamarla Le Battistelle viene dalla vigna più difficile e più amata, ma anche da un'altra carta dell’archivio notarile, che ricorda d’una transazione fatt’appunto a Brognoligo «in contrà della Battistella». E anche questo è arcabo svelato.
Ora, il vino. E qui mi tocca ammettere d’essermi sbagliato. In parte soltanto, per fortuna. Sì, insomma, ero stato un po’ striminzito nel giudizio, bevendolo la prima volta, ed era stato nei primissimi giorni di luglio dell’anno passato. «Il vino - scrivevo a proposito del 2005 - lo segnalo sulla fiducia, anche se non ha perfetta definizione: potrebb’essere una lieta sorpresa futura». E gli assegnavo un faccino - uno solo - ridente. Be’, l’errore è l’esser stato stretto di manica. Ma il vaticinio era giusto: lasciandolo affinare in bottiglia è proprio diventato lieta sorpresa. Ma adesso racconto del nuovo test.
Soave Classico Sacripante 2005 Ribevuto a metà settembre e poi a metà ottobre e a metà novembre, e insomma, riprovato e rimeditato a lungo, e sempre con soddisfazione crescente. Ora dico: è sì vin bianco ruvido e quasi rustico, ma è Soave di razza. Ha frutto tanto, giall’e bianco, e ben delineato già al naso, e petalo fiorito e vena appena appena erbacea. Ed ha in bocca bell’ingresso fruttato ancora e poi freschezza gratificante e finale asciutt’e lungo. Ha nervo saldo. Si beve un gòto dietro l’altro e si finisce la bottiglia in fretta.
Rivedo il giudizio innalzandolo. Convinto, proprio convinto.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Soave Classico Sacripante 2004 Oilà, che curioso questo bianco più vecchio d’un anno dell’altro! Pensate: non pare ancora del tutto pronto. O meglio, non lo sembrava nella prova di metà settembre, ché poi non m’è purtroppo più tpccata sorte di berlo. Mi si mostrava, allora, verde e floreale anche, ché aveva tanto fiore bianco. E in bocca bella tensione e poi giusti contorni di vena minerale com’è e dev’essere dei Soave della zona classica sulle terre vulcaniche della collina. Bianco insieme complesso e da beva. Mancava solo un po’ nella lunghezza, nella persistenza, ecco. Ma, garantisco, buonissimo e freschissimo e vegetale e nervoso e tannico quasi nel finale.
Anche qui, due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Ora, poiché m’è stato chiesto d’aggiungere alle descrizioni dei vini anche il loro prezzo, d’ora in avanti cercherò d’accontentare i lettori anche con quest’informazione, e dico che il Sacripante costa in cantina 7 euro quando se ne compra una bottiglia sola o due, con sconto se si compra invece il cartone intiero, senza sbregare la scatola.
Che dire, di più: che aspetto il 2006. Ed ho davvero aspettativa, ché col terz’anno d’imbottigliamento e un’annata di quelle che prometton bene, spero tanta promessa sia mantenuta. Intanto, il nuovo nato è lì ancora sulle fecce fini, in vasca, che succhia e succhia l’essenza di mamma uva.
Chiudo: v’invito a fare un salto a Brognoligo e a trovare Gelmino e Maria Cristina, ché son bella gente, appassionata e schietta, e prendono perfino la macchinetta fotografica per farsi la foto insieme a chi li va a incontrare. E mi dispiace averne scritto solo adesso.
giovedì 25 gennaio 2007
giovedì 18 gennaio 2007
Valpolicella da appassimento breve parte due: il Pojega
Angelo Peretti
Dicesi archètipo il «primo esemplare assoluto ed autonomo» (così spiega il mio vecchio Devoto-Oli). La definizione prendetela per ora così com’è, perché qualche riga più sotto verrà buona.
Ho visto (internet ha di bello che puoi vedere cosa leggono i visitatori del sito, cosa che invece non puoi fare con un giornale cartaceo), ho visto, dicevo, che ha ricevuto parecchia attenzione su InternetGourmet la notizia dell’uscita del «nuovo» Verjago della Cantina sociale della Valpolicella. Progetto ambizioso: si recuperano vecchi vigneti d’alta collina per dedicarli alla produzione non già d’Amarone, ma di Valpolicella, destinando per questo le uve ad un appassimento breve, che non supera i quaranta giorni; il tutto in sintonia coll’Università veronese. Una scelta che può cambiare le cose, in terra valpolicellese, visto il peso della Cantina di Negrar.
Ora, tra le osservazioni de’ lettori, c’è stata questa: il Verjago non è mica l’unico Valpolicella da uve appassite. Vero. E quest’altra: non è il solo Valpolicella da vigneti «dedicati». Vero anche questo. Il problema però è che trovare insieme un Valpolicella da uve appassite e da vigneti destinati in primis al Valpolicella (e dunque non all’Amarone) è impresa difficoltosa assai.
Comunque sia, stimolato dal pungolo di chi mi legge, eccomi alla ricerca dell’archétipo, che come tale so bene non si troverà peraltro mai. L’archètipo, intendo, del crû di Valpolicella fatto coll’appassimento breve. Ma una risposta d’interesse la trovo proprio a Negrar. Anzi, nel borgo di San Peretto.
C’è, a San Peretto di Negrar, una piccola corte, che ha in fondo un vecchio mulino ch’è stato attivo fino agli anni Sessanta, e pare abbia origine settecentesca o forse anche più antica. Accanto, c’è la cantinetta dei Mazzi. In etichetta, sulle bottiglie, è scritto Roberto Mazzi, ma sono ora i figli, Stefano e Antonio, a condur vigna e far vinificazione e commercio. In tutto sulle quarantacinquemila bottiglie, e solo rossi. Niente Valpolicella base, e niente, soprattutto, Ripasso. Si parte direttamente dal Superiore, e poi un crû di Superiore, il Pojega, un crû d’Amarone, il Punta di Villa, e un terzo crû per il Recoto, Le Calcarole. Son stato là a cercar di capire il secondo dell’elenco, il Pojega. Ch’è fatto in vigna «dedicata» e viene dall’appassimento breve.
È, il Pojega, discendente diretto del Valpolicella Vecchio da Arrosto che papà Roberto imbottigliava già una quarantina d’anni fa sotto il nome d’azienda agricola Sanperetto e che Gino Veronelli trovò di gusto suo e inserì - se non ricordo male - in uno dei cataloghi che redigeva per Bolaffi. Già allora, l’uva era quella della vigna di Pojega, tre ettari, e la si metteva in cassa e la si faceva appassire (asciugare, forse, più che appassire) per qualche settimana: Roberto Mazzi aveva fatto scuola d’agraria a Perugia e aveva portato a casa tecnica e coraggio.
Anni Ottanta: in azienda entrano i figli. L’etichetta cambia intestazione: adesso si chiama Roberto Mazzi. E il Vecchio d’Arrosto comincia a nomarsi Valpolicella Superiore Pojega, con la vigna scritta in alto, in evidenza, a carattere ben più grande del nome di famiglia, ch’è a sua volta prevalente sulla doc. Ordine che è poi cambiato, ché oggi Mazzi è in alto, grande, e sotto c’è la denominazione e al terzo posto la vigna, a font che resta peraltro evidente. Ma il vino resta sostanzialmente fedele a sé stesso, e l’uva rimane quella sola dei tre ettari a Pojega. Con due varianti: l’appassimento si fa in plateau, a un solo strato d’uve, e la botte s’è fatta più piccola. Il tempo d’asciugatura resta però brevissimo: tre settimane, in genere, e due appena nella torrida stagione del 2003, ché non c’era bisogno di forzar la mano, avendo già fatto gran parte del lavoro il sole.
L’uva, appassita, dà il vino, e questo va in legno per diciotto mesi. E non si fa - l’ho detto sopra - il ripasso, anche se la richiesta del mercato è forte ché c’è la moda, ormai, dei vini rifermentati sulle vinacce dell’Amarone. Testardi, i Mazzi seguitano sulla strada loro: appassimento breve. Tant’è che per spiegarsi han dovuto mettere la controetichetta sulle bottiglie: «Il vino così ottenuto ci porta a considerarlo come un ‘fratello giovane’ dell’Amarone perché fonde la sua struttura con la piacevolezza tipica del Valpolicella».
Direte: sì, vabbé, lo scrivono. Ma delusi come siete - lo so - dai tanti depliant che avete visto in giro (quelli che per gli alberghi Raspelli chiama bugiardini), volete sapere se quel che scrivono è vero. Per cui avete due chance: provar di persona (ch’è meglio) o seguitare a leggere, per vedere quel che ne penso io. E aggiungo il pensiero sugli altri tre vini dell’azienda: quattro in tutto e, anticipo, quattro bei rossi.
Valpolicella Classico Superiore Pojega 2003. Già, bel vino, il Pojega. Moderno e antico assieme. Moderno per quel frutto denso e amabile. Antico per la lentezza nell’aprirsi, la riottosità nell’elargire la fascinazione aromatica. Ci vuol pazienza, coi vini dei Mazzi. Vanno attesi nel bicchiere: lasciategli modo e tempo. Poi, ecco il frutto rosso, la ciliegia croccante, il fiore macerato, la foglia di geranio, la spezia fine. E in bocca ancora frutto carnoso. Ed è vibrante e teso ed integro. Ed ha persistenza considerevole.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Valpolicella Superiore 2004. L’unico dei quattro a non portare il nome d’una vigna, ché qui si raccolgono in effetti l’uve che, ne’ quattro vigneti (i tre crû e l’ettaro accanto a casa), non sono state giudicate da appassimento. Il «base» di famiglia, insomma. Comunque un Superiore: anno di legno. Graduale e progressiva l’apertura olfattiva e bocca piuttosto convincente, tra la spezia e il fiore appassito e la ciliegia cotta, di quelle che facevano un tempo le nonne in campagna. Vino austero.
Due lieti faccini :-) :-)
Amarone Classico della Valpolicella Punta di Villa 2003. Chissà quando troveremo questo vino all’apogeo. Il 2003 è stata annata anomala, con quella calura, ma non è solo la potenza a impressionare in questo rosso: è anche lo slancio, la freschezza quasi inusitata per il millesimo suo. E dunque sarà bello aspettarlo ancora. Per intanto, è comunque Amarone che convince. Ed ha fragranza fascinosa già appena versato e poi s’apre piano - lento, lento - e si fa imponente. E gioca dapprima a nascondino, il frutto, fra le vene terrose e le sfumature vegetali, e poi esplode invece l’amarena.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Recioto della Valpolicella Classico Le Calcarole 2003. Vabbé, sarò anche un fan del Recioto, ma questo, lasciatemelo dire, è di quelli che non passano inosservati, nossignori. O meglio: ogni anno il Recioto della Calcarole ha qualcosa di suo da dire. Sarà che i Mazzi hanno uno stile loro, che mette il tannino davanti allo zucchero, tant’è che ti sembra quasi di bere un Grenache fortificato del sud della Francia, ma questo loro passito valpolicellista ha classe e personalità e aristocrazia e austerità (nonostante una dolcezza ch’è nascosta, ma vivida). Il naso, ah, il naso è amplissimo. I miei appunti scritti di getto: tabacco da pipa, rabarbaro, ciliegia surmatura, mora di rovo, prugna secca, fiore macerato, dattero, tamarindo, pepe macinato.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Dicesi archètipo il «primo esemplare assoluto ed autonomo» (così spiega il mio vecchio Devoto-Oli). La definizione prendetela per ora così com’è, perché qualche riga più sotto verrà buona.
Ho visto (internet ha di bello che puoi vedere cosa leggono i visitatori del sito, cosa che invece non puoi fare con un giornale cartaceo), ho visto, dicevo, che ha ricevuto parecchia attenzione su InternetGourmet la notizia dell’uscita del «nuovo» Verjago della Cantina sociale della Valpolicella. Progetto ambizioso: si recuperano vecchi vigneti d’alta collina per dedicarli alla produzione non già d’Amarone, ma di Valpolicella, destinando per questo le uve ad un appassimento breve, che non supera i quaranta giorni; il tutto in sintonia coll’Università veronese. Una scelta che può cambiare le cose, in terra valpolicellese, visto il peso della Cantina di Negrar.
Ora, tra le osservazioni de’ lettori, c’è stata questa: il Verjago non è mica l’unico Valpolicella da uve appassite. Vero. E quest’altra: non è il solo Valpolicella da vigneti «dedicati». Vero anche questo. Il problema però è che trovare insieme un Valpolicella da uve appassite e da vigneti destinati in primis al Valpolicella (e dunque non all’Amarone) è impresa difficoltosa assai.
Comunque sia, stimolato dal pungolo di chi mi legge, eccomi alla ricerca dell’archétipo, che come tale so bene non si troverà peraltro mai. L’archètipo, intendo, del crû di Valpolicella fatto coll’appassimento breve. Ma una risposta d’interesse la trovo proprio a Negrar. Anzi, nel borgo di San Peretto.
C’è, a San Peretto di Negrar, una piccola corte, che ha in fondo un vecchio mulino ch’è stato attivo fino agli anni Sessanta, e pare abbia origine settecentesca o forse anche più antica. Accanto, c’è la cantinetta dei Mazzi. In etichetta, sulle bottiglie, è scritto Roberto Mazzi, ma sono ora i figli, Stefano e Antonio, a condur vigna e far vinificazione e commercio. In tutto sulle quarantacinquemila bottiglie, e solo rossi. Niente Valpolicella base, e niente, soprattutto, Ripasso. Si parte direttamente dal Superiore, e poi un crû di Superiore, il Pojega, un crû d’Amarone, il Punta di Villa, e un terzo crû per il Recoto, Le Calcarole. Son stato là a cercar di capire il secondo dell’elenco, il Pojega. Ch’è fatto in vigna «dedicata» e viene dall’appassimento breve.
È, il Pojega, discendente diretto del Valpolicella Vecchio da Arrosto che papà Roberto imbottigliava già una quarantina d’anni fa sotto il nome d’azienda agricola Sanperetto e che Gino Veronelli trovò di gusto suo e inserì - se non ricordo male - in uno dei cataloghi che redigeva per Bolaffi. Già allora, l’uva era quella della vigna di Pojega, tre ettari, e la si metteva in cassa e la si faceva appassire (asciugare, forse, più che appassire) per qualche settimana: Roberto Mazzi aveva fatto scuola d’agraria a Perugia e aveva portato a casa tecnica e coraggio.
Anni Ottanta: in azienda entrano i figli. L’etichetta cambia intestazione: adesso si chiama Roberto Mazzi. E il Vecchio d’Arrosto comincia a nomarsi Valpolicella Superiore Pojega, con la vigna scritta in alto, in evidenza, a carattere ben più grande del nome di famiglia, ch’è a sua volta prevalente sulla doc. Ordine che è poi cambiato, ché oggi Mazzi è in alto, grande, e sotto c’è la denominazione e al terzo posto la vigna, a font che resta peraltro evidente. Ma il vino resta sostanzialmente fedele a sé stesso, e l’uva rimane quella sola dei tre ettari a Pojega. Con due varianti: l’appassimento si fa in plateau, a un solo strato d’uve, e la botte s’è fatta più piccola. Il tempo d’asciugatura resta però brevissimo: tre settimane, in genere, e due appena nella torrida stagione del 2003, ché non c’era bisogno di forzar la mano, avendo già fatto gran parte del lavoro il sole.
L’uva, appassita, dà il vino, e questo va in legno per diciotto mesi. E non si fa - l’ho detto sopra - il ripasso, anche se la richiesta del mercato è forte ché c’è la moda, ormai, dei vini rifermentati sulle vinacce dell’Amarone. Testardi, i Mazzi seguitano sulla strada loro: appassimento breve. Tant’è che per spiegarsi han dovuto mettere la controetichetta sulle bottiglie: «Il vino così ottenuto ci porta a considerarlo come un ‘fratello giovane’ dell’Amarone perché fonde la sua struttura con la piacevolezza tipica del Valpolicella».
Direte: sì, vabbé, lo scrivono. Ma delusi come siete - lo so - dai tanti depliant che avete visto in giro (quelli che per gli alberghi Raspelli chiama bugiardini), volete sapere se quel che scrivono è vero. Per cui avete due chance: provar di persona (ch’è meglio) o seguitare a leggere, per vedere quel che ne penso io. E aggiungo il pensiero sugli altri tre vini dell’azienda: quattro in tutto e, anticipo, quattro bei rossi.
Valpolicella Classico Superiore Pojega 2003. Già, bel vino, il Pojega. Moderno e antico assieme. Moderno per quel frutto denso e amabile. Antico per la lentezza nell’aprirsi, la riottosità nell’elargire la fascinazione aromatica. Ci vuol pazienza, coi vini dei Mazzi. Vanno attesi nel bicchiere: lasciategli modo e tempo. Poi, ecco il frutto rosso, la ciliegia croccante, il fiore macerato, la foglia di geranio, la spezia fine. E in bocca ancora frutto carnoso. Ed è vibrante e teso ed integro. Ed ha persistenza considerevole.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Valpolicella Superiore 2004. L’unico dei quattro a non portare il nome d’una vigna, ché qui si raccolgono in effetti l’uve che, ne’ quattro vigneti (i tre crû e l’ettaro accanto a casa), non sono state giudicate da appassimento. Il «base» di famiglia, insomma. Comunque un Superiore: anno di legno. Graduale e progressiva l’apertura olfattiva e bocca piuttosto convincente, tra la spezia e il fiore appassito e la ciliegia cotta, di quelle che facevano un tempo le nonne in campagna. Vino austero.
Due lieti faccini :-) :-)
Amarone Classico della Valpolicella Punta di Villa 2003. Chissà quando troveremo questo vino all’apogeo. Il 2003 è stata annata anomala, con quella calura, ma non è solo la potenza a impressionare in questo rosso: è anche lo slancio, la freschezza quasi inusitata per il millesimo suo. E dunque sarà bello aspettarlo ancora. Per intanto, è comunque Amarone che convince. Ed ha fragranza fascinosa già appena versato e poi s’apre piano - lento, lento - e si fa imponente. E gioca dapprima a nascondino, il frutto, fra le vene terrose e le sfumature vegetali, e poi esplode invece l’amarena.
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Recioto della Valpolicella Classico Le Calcarole 2003. Vabbé, sarò anche un fan del Recioto, ma questo, lasciatemelo dire, è di quelli che non passano inosservati, nossignori. O meglio: ogni anno il Recioto della Calcarole ha qualcosa di suo da dire. Sarà che i Mazzi hanno uno stile loro, che mette il tannino davanti allo zucchero, tant’è che ti sembra quasi di bere un Grenache fortificato del sud della Francia, ma questo loro passito valpolicellista ha classe e personalità e aristocrazia e austerità (nonostante una dolcezza ch’è nascosta, ma vivida). Il naso, ah, il naso è amplissimo. I miei appunti scritti di getto: tabacco da pipa, rabarbaro, ciliegia surmatura, mora di rovo, prugna secca, fiore macerato, dattero, tamarindo, pepe macinato.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
giovedì 11 gennaio 2007
Crudo di lago
Angelo Peretti
Ho sfogliato la guida dei Ristoranti d’Italia del Gambero Rosso. E sul mio lago (di Garda) ci ho trovato, per un piatto della trattoria Vecchia Malcesine, una valutazione di questo tenore: «Il crudo di lago, discutibile anche nella fantasiosa rivisitazione, convince poco per qualità e quantità nel piatto». Ora, che volete, essendo fra coloro che le guide le han fatte, le fanno e pensano di farle ancora, non mi permetto d’andare a mettere in discussione il giudizio altrui, ché ciascuno è libero di dire la sua. Otretutto, un eventuale incidente di percorso ci può stare in qualunque ristorante, ivi compresa la Vecchia Malcesine. Ma ripensando ai tanti pranzi&cene&assaggi che hanno contraddistinto il mio 2006, be’, devo dire che proprio quel piatto, il crudo di lago appunto, è invece la cosa migliore che mi sia capitato d’incontrare. Il che conferma, magari, quanto possano essere soggettivi i pareri.
Dunque, il crudo di lago del Vecchia Malcesine mi tocca raccontarlo.
Intanto, il locale, per chi non lo conoscesse ancora, è proprio a Malcesine, in paese. Poco lontano dalla parrocchiale. Un ristorantino da pochi coperti. Una saletta, una terrazza estiva. Il patron, Leandro Luppi, si muove fra sala e cucina. D’estate più sala che cucina, d’inverno il contrario. A vederlo, secco com’è, non lo direste un gourmet. Però ha un palato notevole (e non so come faccia, viste le sigarette che si fuma). In più, ci sa veder dentro nei vini: ha in cantina cose notevoli.
Quand’è arrivato sul lago, ormai una quindicina d’anni fa, Leandro ha portato una cucina «anomala» per stile e ingredienti. Poi ha cominciato a investigare le materie prime del territorio e le ha fatte proprie, mantenendo però fedeltà ad un approccio di stampo creativo, innovativo, personale. Unico sulla riva d’oriente del Garda, ha ottenuto nel 2004 la stella dalla guida Michelin: prima di lui non c’era mai riuscito nessuno, e resta tuttora il solo.
Ogni tanto al Vecchia Malcesine mi ci affaccio, e indubbiamente è luogo apprezzabile. Ci avevo già mangiato bene altre volte, ma il vertice l’ho toccato a fine settembre: sequenza memorabile, assicuro, nel menù di lago, stagionale. E in quella sequenza, il piatto migliore è stato questo crudo di lago, che resta per me - l’ho detto - la punta dei tanti assaggi dell’anno ch’è andato a finire.
Si trattava d’un trittico: tinca affumicata, luccio marinato, filetto di sarda di lago (leggi sardéna). Detto così, non rende. Ho dunque telefonato a Leandro Luppi per farmelo raccontar meglio da lui. Ecco la descrizione: «La tinca viene affumicata in casa con il legno di olivo e la serviamo tagliata a fettine sopra una concassè di pomodoro fresco, condito con un trito di cipollotti olio e sale marino. Il luccio è leggermente marinato con sale marino e timo. Dopo, viene tagliato a piccoli cubetti e servito con una gelatina di frutto della passione per dare dolcezza e acidità. La sarda di lago viene sfilettata e marinata nella passata di pomodoro per almeno due giorni: l’acidita del pomodoro consente la conservazione e nello stesso tempo mantiene la corposità della polpa della sarda. Poi viene servita con un blinis di farina di grano saraceno e la panna acida: il sapore della sarda ricorda un po’ il gusto del caviale e per questo è stato fatto un simile abbinamento. Si mangiano in sequenza prima il luccio, poi la tinca e per ultima la sarda, che ha il sapore più deciso».
Ecco, così, con questa descrizione, potete farvi un’idea migliore. Aggiungo che la serie dei tre crudi è considerevole come crescendo di sapori, che al Vecchia Malcesine sono peraltro sempre ben definiti, e spesso addirittura marcati. Leandro non gioca con le sfumature. Ci va giù dritto: niente mediazioni.
Dico, di più, che un piatto del genere m’è sembrato il modo giusto per valorizzare il pesce lacustre. Certo, solo vagamente rifacendosi alla tradizione (l’affumicato, l’agrodolce, la salagione), ma di sicuro mettendo il lago al centro.
Ma - lo si rammenti -, il crudo lacuale è altra cosa, diametralmente altra, rispetto a quello marinaro. Di là, sul mare, s’esaltano la dolcezza naturale, il tono vagamente iodato, la freschezza assoluta, talché lo chef deve intervenire più sulla ricerca al mercato che sul lavoro di cucina. Di qui, sul lago, c’è meno eleganza, meno saporosità delle carni, e dunque occorre l’intervento della mano del cuoco, che deve esaltare quel che c’è, senza però coprire, senza alterare, senza perdere quella rusticità ch’è insita nel pescato.
Ora, se v’è venuta voglia di provarlo, questo crudo, mettete conto che in carta non lo trovate: è roba estiva. Però qualche cosa di simile lo individuate anche nel menù invernale: una tartara di tinca affumicata in casa con legno di olivo, servita con il pomodoro e cipollotto, e la tartara di trota marinata con sale e zucchero e erbe aromatiche, servita con un purè di finocchi agli agrumi.
Non le ho ancora provate, queste novità. Rimedierò presto, spero. E sono curioso di vedere che vini Leandro proverà a metterci assieme, ché l’abbinamento è di quelli che sembrano quasi impossibili. Lì per lì, mi viene in mente solo un Muscadet della Loira.
Ho sfogliato la guida dei Ristoranti d’Italia del Gambero Rosso. E sul mio lago (di Garda) ci ho trovato, per un piatto della trattoria Vecchia Malcesine, una valutazione di questo tenore: «Il crudo di lago, discutibile anche nella fantasiosa rivisitazione, convince poco per qualità e quantità nel piatto». Ora, che volete, essendo fra coloro che le guide le han fatte, le fanno e pensano di farle ancora, non mi permetto d’andare a mettere in discussione il giudizio altrui, ché ciascuno è libero di dire la sua. Otretutto, un eventuale incidente di percorso ci può stare in qualunque ristorante, ivi compresa la Vecchia Malcesine. Ma ripensando ai tanti pranzi&cene&assaggi che hanno contraddistinto il mio 2006, be’, devo dire che proprio quel piatto, il crudo di lago appunto, è invece la cosa migliore che mi sia capitato d’incontrare. Il che conferma, magari, quanto possano essere soggettivi i pareri.
Dunque, il crudo di lago del Vecchia Malcesine mi tocca raccontarlo.
Intanto, il locale, per chi non lo conoscesse ancora, è proprio a Malcesine, in paese. Poco lontano dalla parrocchiale. Un ristorantino da pochi coperti. Una saletta, una terrazza estiva. Il patron, Leandro Luppi, si muove fra sala e cucina. D’estate più sala che cucina, d’inverno il contrario. A vederlo, secco com’è, non lo direste un gourmet. Però ha un palato notevole (e non so come faccia, viste le sigarette che si fuma). In più, ci sa veder dentro nei vini: ha in cantina cose notevoli.
Quand’è arrivato sul lago, ormai una quindicina d’anni fa, Leandro ha portato una cucina «anomala» per stile e ingredienti. Poi ha cominciato a investigare le materie prime del territorio e le ha fatte proprie, mantenendo però fedeltà ad un approccio di stampo creativo, innovativo, personale. Unico sulla riva d’oriente del Garda, ha ottenuto nel 2004 la stella dalla guida Michelin: prima di lui non c’era mai riuscito nessuno, e resta tuttora il solo.
Ogni tanto al Vecchia Malcesine mi ci affaccio, e indubbiamente è luogo apprezzabile. Ci avevo già mangiato bene altre volte, ma il vertice l’ho toccato a fine settembre: sequenza memorabile, assicuro, nel menù di lago, stagionale. E in quella sequenza, il piatto migliore è stato questo crudo di lago, che resta per me - l’ho detto - la punta dei tanti assaggi dell’anno ch’è andato a finire.
Si trattava d’un trittico: tinca affumicata, luccio marinato, filetto di sarda di lago (leggi sardéna). Detto così, non rende. Ho dunque telefonato a Leandro Luppi per farmelo raccontar meglio da lui. Ecco la descrizione: «La tinca viene affumicata in casa con il legno di olivo e la serviamo tagliata a fettine sopra una concassè di pomodoro fresco, condito con un trito di cipollotti olio e sale marino. Il luccio è leggermente marinato con sale marino e timo. Dopo, viene tagliato a piccoli cubetti e servito con una gelatina di frutto della passione per dare dolcezza e acidità. La sarda di lago viene sfilettata e marinata nella passata di pomodoro per almeno due giorni: l’acidita del pomodoro consente la conservazione e nello stesso tempo mantiene la corposità della polpa della sarda. Poi viene servita con un blinis di farina di grano saraceno e la panna acida: il sapore della sarda ricorda un po’ il gusto del caviale e per questo è stato fatto un simile abbinamento. Si mangiano in sequenza prima il luccio, poi la tinca e per ultima la sarda, che ha il sapore più deciso».
Ecco, così, con questa descrizione, potete farvi un’idea migliore. Aggiungo che la serie dei tre crudi è considerevole come crescendo di sapori, che al Vecchia Malcesine sono peraltro sempre ben definiti, e spesso addirittura marcati. Leandro non gioca con le sfumature. Ci va giù dritto: niente mediazioni.
Dico, di più, che un piatto del genere m’è sembrato il modo giusto per valorizzare il pesce lacustre. Certo, solo vagamente rifacendosi alla tradizione (l’affumicato, l’agrodolce, la salagione), ma di sicuro mettendo il lago al centro.
Ma - lo si rammenti -, il crudo lacuale è altra cosa, diametralmente altra, rispetto a quello marinaro. Di là, sul mare, s’esaltano la dolcezza naturale, il tono vagamente iodato, la freschezza assoluta, talché lo chef deve intervenire più sulla ricerca al mercato che sul lavoro di cucina. Di qui, sul lago, c’è meno eleganza, meno saporosità delle carni, e dunque occorre l’intervento della mano del cuoco, che deve esaltare quel che c’è, senza però coprire, senza alterare, senza perdere quella rusticità ch’è insita nel pescato.
Ora, se v’è venuta voglia di provarlo, questo crudo, mettete conto che in carta non lo trovate: è roba estiva. Però qualche cosa di simile lo individuate anche nel menù invernale: una tartara di tinca affumicata in casa con legno di olivo, servita con il pomodoro e cipollotto, e la tartara di trota marinata con sale e zucchero e erbe aromatiche, servita con un purè di finocchi agli agrumi.
Non le ho ancora provate, queste novità. Rimedierò presto, spero. E sono curioso di vedere che vini Leandro proverà a metterci assieme, ché l’abbinamento è di quelli che sembrano quasi impossibili. Lì per lì, mi viene in mente solo un Muscadet della Loira.
sabato 6 gennaio 2007
Fads and fashions: le mode e le manie del mondo del vino
Angelo Peretti
Fads and fashions: è il titolo dell’editoriale di Hugh Johnson sul numero di gennaio di Decanter. Johnson è forse il più importante wine-writer che ci sia al mondo, Decanter la rivista enoica che fa tendenza nel Regno Unito. Fads sono le manie, fashions le mode. E il vino non ne è esente. Anzi.
Sono, in genere, tendenze effimere, che nascono e muoiono in velocità. Facendo le fortune dei produttori più market-oriented, quelli che capiscono al volo quel che va bene domani, e lo assemblano senza tanti pensieri: vendere, vendere, vendere.
Altre son tentazioni modaiole che rischiano di far danni permanenti, svilendo il significato vero di certi caratteri del vino.
Ne cita alcune Johnson, di queste tendenze passeggere.
Dice per esempio che negli ultimi tempi - più all’estero, invero, che qui da noi in Italia – s’è sentito discorrere un sacco di cool-climate viticolture, di viticoltura dei climi freddi, individuandovi la ragione - una delle ragioni - della grandeur francese. Che altrove si cerca d’imitare. Be’, ora non se ne parla già quasi più (all’estero intendo, ché invece in Italia si comincia solo adesso: da noi, si sa, importiamo con lentezza).
Poi, l’ossessione della filtrazione. Anche qui roba più estera che nostrana (per ora). E insomma, c’è stata gente che ha cominciato a mettere in bell’evidenza in etichetta l’aggettivo unfiltered, non filtrato. Quasi che filtrare il vino fosse diventato un errore, una bestemmia, un reato. Il che fai il paio - aggiungo - con la definizione di vino naturale, quasi che quell’altro fosse innaturale, e col cavalcare a tutti i costi il biologico, il biodinamico e il bio-chissà-che-cosa: a me interessa solo che il vino sia buono e che, in più, mostri personalità e abbia qualcosa da raccontare. E se poi c’è stato poco intervento tecnico è meglio, per carità, ma che sia piacevole, almeno.
E il carattere varietale? Quante volte avete letto della varietalità come prerogativa d’un vino? «Varietal character is the grand-daddy of the genre» scrive Johnson: il carattere varietale è il nonno del genere. E poi ci si è aggiunto un altro luogo comune: «Il vino si fa nel vigneto». Come dire che in cantina nasce da solo.
Altra moda? Il fruttato. Anzi, il fruttatone. Valanghe, vagonate di frutto iperconcentrato, voluto dai filosofi americani dei nuovi vini, con imitatori devoti in ogni angolo. La potenza dei dollaroni.
Le tendenze attuali?
La mineralità in primis. Guai se un vino, bianc’o rosso che sia, non è minerale. Provate a leggere le descrizioni sui depliant (o nelle controetichette): la mineralità imperversa. Certo, trovarci carattere minerale in un bianco è una bellezza: penso ai Riesling del Reno, oppure anche, nella mia terra, a certe espressioni del Lugana e del Soave, quando son fatti bene, il primo sulle argille, l’altro su suoli basaltici. Ma che la mineralità sia un dogma, questo no.
Ma c’è un’altra parola d’ordine che s’impone ormai in entrambi gli emisferi del pianeta. Si chiama, all’inglese, low-alcohol. Bassa gradazione, diremmo noi. Spiega Johnson che ormai è una routine nei paesi più caldi fare una sorta di salasso alcolico a una parte del vino. Gli si toglie l’alcol, mantenendo gli aromi. E poi questa bibita de-alcolata (che sia lecito usare quest’espressione?) la si riassembla col resto del vino. Risultato: meno alcol del vino di partenza.
Che volete che vi dica: aver vini meno alcolici piacerebbe anche a me. Ed è indubbiamente una richiesta sempre più pressante dei consumatori. Quante volte lo sento dire al ristorante, ai tavoli vicini: «Ma non c’è qualcosa di meno alcolico?» Sapete: i problemi salutistici, la patente a punti… Che poi, lo so, è del tutto irrisoria, da questo punto di vista, la faccenda che un vino faccia 13 o 14 gradi. L’effetto è, grosso modo, sempre quello. Ed anzi un po’ meno alcol rende il vino più beverino, e dunque si beve di più, ottenendo dunque l’effetto contrario, salutisticamente o viabilisticamente parlando. Ma s’esagera a tal punto, col «low alcohol», che c’è chi comincia a parlare di «bicchieri equivalenti» e vorrebbe che in etichetta fosse scritto a quanti bicchieri di vino equivale quella boccia in relazione all’alcol, così, chessò, una bottiglia di Lambrusco può valere otto bicchieri equivalenti e una d’Amarone dodici: più alcol, più porzioni. Ma lasciamo perdere...
Però il problema - uno dei problemi - è forse proprio qui: bisogna tornare a far vini bevibili, ché in degustazione van bene quelli concentratoni, ma in tavola si vuol accompagnare il cibo. Ed è per questo che se proprio devo scegliere vado sui Bordeaux: 12 gradi e mezzo e bel frutto e buon’acidità.
Ma c’è un problema. Ed è che con le concentrazioni estreme che s’ottengono oggi in viticoltura, si ha parecchio zucchero nelle uve. E dove c’è tanto zucchero naturale le soluzioni son due: o il vino lo si lascia dolce, oppure lo si ottiene alcolico, ché l’alcol altro non è che l’effetto della trasformazione degli zuccheri con la fermentazione. Forse, più che far salassi, sarebbe da ripensar la viticoltura, ma è storia che non mi compete, o meglio, di cui non ho competenza.
Piuttosto, vorrei tornare alla questione salutistica. Ché mi preoccupa questo clima di caccia alle streghe che si va instaurando. Me lo vedo che fra poco ci sarà chi vuol mettere sulle bottiglie di vino - oltre alla storia dei bicchieri che v’ho già detto sopra - le stesse, minacciose e perfettamente inutili sentenze che si leggono sui pacchetti di sigarette (e, badate, io non ho mai fumato - se non fumo passivo - e mi dà molto fastidio sentirne anche solo il vago odore, della sigaretta). Senza invece pensare a fare informazione, educazione, cultura. L’alcolismo è figlio della malattia o dell’ignoranza, mica del vino.
Serve altro. Enjoy Responsibly, ho visto in un riquadro d’una pagina di pubblicità di Penfolds, colosso australiano del vino, su Wine Spectator, ed è un avvertimento che condivido: gotitelo responsabilmente. Stesso tenore della pubblicità dello Champagne Perrier-Jouët: «Enjoy our quality responsibly», goditi responsabilmente la nostra qualità. Ma starà mica diventando una moda anche questa, vero?
Eppoi, questa mania di voler sapere tutto, ma proprio tutto del vino. Che facciamo, sull’etichetta ci mettiamo gl’ingredienti e il «da consumare preferibilmente entro il»? Già non mi piace quell’assurdo «contiene solfiti» che è stato imposto sull’etichettatura: ecché, quanti saranno mai i vini che non li contengono, i solfiti?
Ecco, c’è un clima neo-illuminista che non mi va. Sento troppa gente che davanti a un bicchiere si mette a far disquisizioni tecniche, invece di goderselo così com’è. Perfino, c’è chi comincia a parlar - con competenza, talvolta, ammetto - di composti aromatici volatili, d’elementi chimici (naturali) responsabili di questo o quell’aroma, di monoterpeni o di sesquiterpeni, e, chessò, di linaiolo (che mi dicono sappia di rosa), di geraniolo (che indurrebbe memorie floreali). E poco m’interessa - a me che bevo, intendo - sapere che quell’odore ch’è tipico di certi Sauvignon può provenire dal composto 2-metossi-3-isobutil-pirazina.
Spero che anche queste perversioni farmaceutiche sian solo fads and fahions. E che si torni al piacere. Sennò, il rischio è quello mess’in evidenza da Sarah Kemp, altra editorialista di Decanter, ancora sul numero di gennaio. Cita, la Kemp, un libro che le è piaciuto, scritto da un’altra donna, la bionda (così la vedo in foto, ma con le donne non si sa mai) Jennifer Rosen, trasgressiva scrittrice di vino. Dice (traduco): «Bere vino con un sommelier è come far l’amore con un ginecologo: è meglio che non vi dicano tutto quello che sanno». Appunto.
Godete responsabilmente. Ma prima il piacere, per favore.
Fads and fashions: è il titolo dell’editoriale di Hugh Johnson sul numero di gennaio di Decanter. Johnson è forse il più importante wine-writer che ci sia al mondo, Decanter la rivista enoica che fa tendenza nel Regno Unito. Fads sono le manie, fashions le mode. E il vino non ne è esente. Anzi.
Sono, in genere, tendenze effimere, che nascono e muoiono in velocità. Facendo le fortune dei produttori più market-oriented, quelli che capiscono al volo quel che va bene domani, e lo assemblano senza tanti pensieri: vendere, vendere, vendere.
Altre son tentazioni modaiole che rischiano di far danni permanenti, svilendo il significato vero di certi caratteri del vino.
Ne cita alcune Johnson, di queste tendenze passeggere.
Dice per esempio che negli ultimi tempi - più all’estero, invero, che qui da noi in Italia – s’è sentito discorrere un sacco di cool-climate viticolture, di viticoltura dei climi freddi, individuandovi la ragione - una delle ragioni - della grandeur francese. Che altrove si cerca d’imitare. Be’, ora non se ne parla già quasi più (all’estero intendo, ché invece in Italia si comincia solo adesso: da noi, si sa, importiamo con lentezza).
Poi, l’ossessione della filtrazione. Anche qui roba più estera che nostrana (per ora). E insomma, c’è stata gente che ha cominciato a mettere in bell’evidenza in etichetta l’aggettivo unfiltered, non filtrato. Quasi che filtrare il vino fosse diventato un errore, una bestemmia, un reato. Il che fai il paio - aggiungo - con la definizione di vino naturale, quasi che quell’altro fosse innaturale, e col cavalcare a tutti i costi il biologico, il biodinamico e il bio-chissà-che-cosa: a me interessa solo che il vino sia buono e che, in più, mostri personalità e abbia qualcosa da raccontare. E se poi c’è stato poco intervento tecnico è meglio, per carità, ma che sia piacevole, almeno.
E il carattere varietale? Quante volte avete letto della varietalità come prerogativa d’un vino? «Varietal character is the grand-daddy of the genre» scrive Johnson: il carattere varietale è il nonno del genere. E poi ci si è aggiunto un altro luogo comune: «Il vino si fa nel vigneto». Come dire che in cantina nasce da solo.
Altra moda? Il fruttato. Anzi, il fruttatone. Valanghe, vagonate di frutto iperconcentrato, voluto dai filosofi americani dei nuovi vini, con imitatori devoti in ogni angolo. La potenza dei dollaroni.
Le tendenze attuali?
La mineralità in primis. Guai se un vino, bianc’o rosso che sia, non è minerale. Provate a leggere le descrizioni sui depliant (o nelle controetichette): la mineralità imperversa. Certo, trovarci carattere minerale in un bianco è una bellezza: penso ai Riesling del Reno, oppure anche, nella mia terra, a certe espressioni del Lugana e del Soave, quando son fatti bene, il primo sulle argille, l’altro su suoli basaltici. Ma che la mineralità sia un dogma, questo no.
Ma c’è un’altra parola d’ordine che s’impone ormai in entrambi gli emisferi del pianeta. Si chiama, all’inglese, low-alcohol. Bassa gradazione, diremmo noi. Spiega Johnson che ormai è una routine nei paesi più caldi fare una sorta di salasso alcolico a una parte del vino. Gli si toglie l’alcol, mantenendo gli aromi. E poi questa bibita de-alcolata (che sia lecito usare quest’espressione?) la si riassembla col resto del vino. Risultato: meno alcol del vino di partenza.
Che volete che vi dica: aver vini meno alcolici piacerebbe anche a me. Ed è indubbiamente una richiesta sempre più pressante dei consumatori. Quante volte lo sento dire al ristorante, ai tavoli vicini: «Ma non c’è qualcosa di meno alcolico?» Sapete: i problemi salutistici, la patente a punti… Che poi, lo so, è del tutto irrisoria, da questo punto di vista, la faccenda che un vino faccia 13 o 14 gradi. L’effetto è, grosso modo, sempre quello. Ed anzi un po’ meno alcol rende il vino più beverino, e dunque si beve di più, ottenendo dunque l’effetto contrario, salutisticamente o viabilisticamente parlando. Ma s’esagera a tal punto, col «low alcohol», che c’è chi comincia a parlare di «bicchieri equivalenti» e vorrebbe che in etichetta fosse scritto a quanti bicchieri di vino equivale quella boccia in relazione all’alcol, così, chessò, una bottiglia di Lambrusco può valere otto bicchieri equivalenti e una d’Amarone dodici: più alcol, più porzioni. Ma lasciamo perdere...
Però il problema - uno dei problemi - è forse proprio qui: bisogna tornare a far vini bevibili, ché in degustazione van bene quelli concentratoni, ma in tavola si vuol accompagnare il cibo. Ed è per questo che se proprio devo scegliere vado sui Bordeaux: 12 gradi e mezzo e bel frutto e buon’acidità.
Ma c’è un problema. Ed è che con le concentrazioni estreme che s’ottengono oggi in viticoltura, si ha parecchio zucchero nelle uve. E dove c’è tanto zucchero naturale le soluzioni son due: o il vino lo si lascia dolce, oppure lo si ottiene alcolico, ché l’alcol altro non è che l’effetto della trasformazione degli zuccheri con la fermentazione. Forse, più che far salassi, sarebbe da ripensar la viticoltura, ma è storia che non mi compete, o meglio, di cui non ho competenza.
Piuttosto, vorrei tornare alla questione salutistica. Ché mi preoccupa questo clima di caccia alle streghe che si va instaurando. Me lo vedo che fra poco ci sarà chi vuol mettere sulle bottiglie di vino - oltre alla storia dei bicchieri che v’ho già detto sopra - le stesse, minacciose e perfettamente inutili sentenze che si leggono sui pacchetti di sigarette (e, badate, io non ho mai fumato - se non fumo passivo - e mi dà molto fastidio sentirne anche solo il vago odore, della sigaretta). Senza invece pensare a fare informazione, educazione, cultura. L’alcolismo è figlio della malattia o dell’ignoranza, mica del vino.
Serve altro. Enjoy Responsibly, ho visto in un riquadro d’una pagina di pubblicità di Penfolds, colosso australiano del vino, su Wine Spectator, ed è un avvertimento che condivido: gotitelo responsabilmente. Stesso tenore della pubblicità dello Champagne Perrier-Jouët: «Enjoy our quality responsibly», goditi responsabilmente la nostra qualità. Ma starà mica diventando una moda anche questa, vero?
Eppoi, questa mania di voler sapere tutto, ma proprio tutto del vino. Che facciamo, sull’etichetta ci mettiamo gl’ingredienti e il «da consumare preferibilmente entro il»? Già non mi piace quell’assurdo «contiene solfiti» che è stato imposto sull’etichettatura: ecché, quanti saranno mai i vini che non li contengono, i solfiti?
Ecco, c’è un clima neo-illuminista che non mi va. Sento troppa gente che davanti a un bicchiere si mette a far disquisizioni tecniche, invece di goderselo così com’è. Perfino, c’è chi comincia a parlar - con competenza, talvolta, ammetto - di composti aromatici volatili, d’elementi chimici (naturali) responsabili di questo o quell’aroma, di monoterpeni o di sesquiterpeni, e, chessò, di linaiolo (che mi dicono sappia di rosa), di geraniolo (che indurrebbe memorie floreali). E poco m’interessa - a me che bevo, intendo - sapere che quell’odore ch’è tipico di certi Sauvignon può provenire dal composto 2-metossi-3-isobutil-pirazina.
Spero che anche queste perversioni farmaceutiche sian solo fads and fahions. E che si torni al piacere. Sennò, il rischio è quello mess’in evidenza da Sarah Kemp, altra editorialista di Decanter, ancora sul numero di gennaio. Cita, la Kemp, un libro che le è piaciuto, scritto da un’altra donna, la bionda (così la vedo in foto, ma con le donne non si sa mai) Jennifer Rosen, trasgressiva scrittrice di vino. Dice (traduco): «Bere vino con un sommelier è come far l’amore con un ginecologo: è meglio che non vi dicano tutto quello che sanno». Appunto.
Godete responsabilmente. Ma prima il piacere, per favore.
domenica 24 dicembre 2006
Top 2006 secondo me: venti bottiglie indimenticabili stappate nell’anno
Angelo Peretti
Eccoci qui con la classifica. La fanno tutti, perché non dovrei io? Del resto, c’è cambio d’anno, e dunque occorre far sintesi e metter ordine alla memoria. Eppoi, l’ammetto, è piacevole andare a rivedere gli appunti di tante bottiglie stappate, assaggiate, a volte proprio bevute, godute. E raccontarle.
Certo, far graduatorie è sempre arbitrario. E difficile, ché a volte quel certo tal vino porta con sé anche ricordi, emozioni, sensazioni che vanno oltre il fatto edonistico in sé. Ed è pure ingiusto, finendo inevitabilmente per accantonare qualcosa, qualcuno, che comunque vorresti - dovresti - valorizzare. Ma tant’è: il rito va rispettato.
Dunque: venti e non di più.
Dieci di quella che amo chiamare la Regione del Garda, ossia le province di Verona, di Brescia, di Mantova e Trento. Più Verona che le altre, e mi perdonino lombardi e tridentini (m’accorgo che soprattutto a Trento e dintorni ho avuto poche occasioni d’assaggio nell’ultimo anno, e dunque mi riprometto di rimediare nel nuovo).
Dieci fuori dai paraggi, altre latitudine, altre longitudini, altra Italia, altra Europa, e per stavolta niente fuori Europa.
In ogni caso, venti vini che mi piacerebbe ribere. Che mi hanno convinto. Emozionato, anche. E sono, insieme, bianchi, rossi e rosati. Già, anche i rosati: perché, son forse minori nell’Olimpo del vino? Ce n’è un terzetto addirittura, di rosé: due gardesani, uno francese. Piacevolissimi, secondo me.
Fuori Italia, c’è tanta Francia - e non sarebbe possibile altrimenti - un pelo di Germania (ah, i Riesling del Reno!), un vino dolce - straordinario e «antico» - di Crimea. E in terra italica anche un Moscato, ch’è un vino adorabile e troppo trascurato da’ bevitori, e n’ho trovato un’espressione altissima.
M’accorgo che non ho scelto bollicine. E comunque di buone - buonissime, talvolta - n’ho bevute, ma nella classifica non hanno trovato spazio: pazienza.
Eccoli, dunque, i venti top secondo me. In ordine rigorosamente alfabetico all'interno delle due categorie.
Prosit!
Top 10 della Regione del Garda
Amarone Classico della Valpolicella 2000 Manara
Lo scorso anno nella mia top c’era il 2001. Ebbene, di meglio c’è l’annata precedente: l’Amarone 2000. Ribevuto a distanza di tempo, m’ha nuovamente impressionato, e dimostra di tener salda quella sua eleganza delicatissima eppure lung’assai, quel frutto così calibrato. Niente palestra, per questo rosso: evviva. Bevuto a novembre.
Amarone Classico della Valpolicella Sergio Zenato 2001 Zenato
Inserendo fra i preferiti del primo semestre l’Amarone basic 2001 di Zenato, avevo detto che il fratello maggiore, la Riserva assaggiata allora solo en primeur, sarebbe finita probabilmente fra i miei must di fine anno. Così è. Grande Amarone. Tanto frutto, tanta spezia, corpo potente eppur anche agile e beva lussuriosa. Bevuto a luglio.
Bardolino Chiaretto 2005 Giovanna Tantini
Ah, Giovanna, che Chiaretto! Frutto, frutto e frutto. Da riempirseme l’olfatto e il gusto. Da masticare. Da assaporare. Da far rotolare in bocca. E poi la vena speziatina ch’è tipica delle corvine gardesane. E un colore deciso, marcato, eppure anche brillante e cristallino. Bell’espressione bardolinista. New Bardolino. Bevuto in settembre.
Garda Classico Chiaretto 2005 Vedrine
D’accordo: non è un colosso, ma vivaddìo m’è piaciuta l’opera prima di Vedrine, microazienda del Garda lumbàrd, che ha fatto, nel 2005, solo e soltanto questo vino rosè (ci vuol coraggio). Atipico, atipicissimo Chiaretto rivierasco. Più vegetale che fruttato, anche se la fragolina s’avanza impertinente. Avanti così. Bevuto in agosto.
Quaiare 2003 Le Fraghe
L’avevo detto a maggio che questo rosso era (è) un gioiello in termini d’espressione del terroir. «E pazienza se gli altri non saranno d’accordo», scrissi. Le guide non sono state d’accordo, ma per me resta uno dei vertici assoluti nell’area gardesana, un benchmark, un vino che ha un’anima e uno stile inconfondibili. Ribevuto a luglio.
Recioto Classico della Valpolicella Capitel Monte Fontana 2000 Tedeschi
L’annata 2000 fu d’equilibrio in Valpolicella. E gli Amaroni son buoni. Però straordinarie son certe bottiglie di Recioto, soprattutto oggi che cominciano ad aver maturità. Questo dei Tedeschi è un grand’esempio: avvincente per complessità e ampiezza olfattiva, ha in bocca finezza ed eleganza e misurata dolcezza. Goduto a dicembre.
Soave Classico Cà Visco 2005 Coffele
Oh, se mi piace il Cà Visco. Già en primeur, ancora scomposto dall’imbottigliamento di pochi giorni, m’aveva intrigato. Facendosi adulto, ecco l’inconfondibile suo charme. Il frutto pulitissimo entra deciso e lascia poi spazio alla freschezza e quindi riemerge, asciutto, nel finale. Bevuto in luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre...
Soave Classico La Rocca 1993 Pieropan
È tuttora buonissimo questo Soave del ’93. In forma smagliante dopo tant’anni, e freschissimo, e giovine direi, e vibrante e nervoso e teso. Ha frutto denso e vene minerali e lunghezza sorprendente e avvincente. Un bianco italico che può reggere il confronto coi grandi di Francia e di Germania. Bevuto a fine maggio.
Soave Classico Monte Fiorentine 2005 Cà Rugate
Che gran bianco che è il Monte Fiorentine. A mio avviso, uno dei bianchi più buoni e appaganti che sia dato di trovare sull’italico suolo. Gioiosamente bevibile, giocosamente succoso di frutto, festosamente vestito di fiori. Un vino che riesce a mettere insieme nobiltà e spensieratezza. Bevuto in luglio e in ottobre e in dicembre.
Valpolicella Classico Superiore Il Taso 2003 Villabellini
L’annata della svolta. Cecilia Trucchi col 2003 ha deciso di trarre uno e un solo vino dalle uve del suo brolo di Castelrotto, rinunciando (incredibile) perfino all’Amarone. Che vino che ne è venuto! Personalissimo, succoso di frutto, pregno di spezia, bevibilissimo e possente insieme. Gran bel rosso valpolicellese. Ribevuto a luglio.
Top 10 d’altre terre
Ai-Danil Tokay 1938 Massandra
Sul Mar Nero, in Crimea, esiste la più imponente collezione mondiale di vini invecchiati. In genere dolci o fortificati. È la Massandra Collection. Ho avuto la fortuna di poter bere il Tokay del ‘38 fatto ad Ai-Danil, vicino a Yalta. Poesia. Dattero, fico secco, arancia candita, melata, cognac, nocino, mandorla... Grandissimo. A dicembre.
Alsace Riesling Grand Crû Hengst 1997 Domaine Josmeyer
Quando lo comprai, in Alsazia, in cantina a Wintzenheim, ero convinto d’aver fatto un bell’acquisto. A distanza di mesi e mesi, questo Riesling s’è mostrato anche sopra le attese. La vena minerale e quella fruttata s’intersecano, si fondono in quello che ho già definito un amplesso lunghissimo e passionale. Bevuto a febbraio.
Côte Rôtie 2003 Benjamin et David Duclaux
Se non sbaglio, Parker, a questo syrah della Cote Rotie ha dato 93 centesimi di valutazione. Be’, li vale tutti. Il prezzo è sui 30 euro, pochi per un rosso di questa denominazione. Ancora giovane, ma già sul frutto s’innestano sentori d’erbe officinali, di timo. Elegantissimo oggi, chissà cosa potrà diventare. Bevuto in dicembre.
Côtes de Provence Château Sainte-Marguerite 2005 J. P. Fayard
Che la Provenza sia terra di bei rosati è noto. Quest’era bellissimo già dal colore, abbastanza tenue invero. Fragranze fruttate d’avvincente finezza: il piccolo frutto rosso di sottobosco, soprattutto. E poi una nota quasi balsamica, officinale, sottile, elegante. Una freschezza nervosamente sensuale. Buonissimo. Bevuto in agosto.
Côtes du Rhône Parallèle 45 2001 Paul Jaboulet Ainè
D’accordo, d’accordo: questo è «solo» il rosso di base di Jaboulet, ma porca miseria che base! Succoso di piccolo frutto, di mirtillo e d’amarena. Di lunga persistenza. Giovane dopo un quinquennio. Eppoi accettabile nel prezzo. Ve lo dico io: sarà anche un vino di base, ma rimpiango fosse l’ultima boccia. Bevuto a Pasqua, coll’agnello.
Erbacher Hohenrain Riesling Spätlese 1990 Schloss Reinhartshausen
Per me, non c’è bianco che tenga, di fronte a un gran Riesling. Tedesco magari, e invecchiato. Fra i Riesling - parecchi - bevuti nel 2006, questo l’ho trovato elegantissimo e splendido per equilibrio, dopo quindici anni. Il frutto e la vena citrina perfettamente integrati. La nota minerale equilibratissima. Fascinoso. Stappato a giugno.
Fiano di Avellino Clelia Romano 2004 Colli di Lapio
Uno dei bianchi più buoni che mi ricordi d’aver bevuto in Italia. Forse il più buono. Vino di terroir, classico e modernissimo assieme. Descrive i caratteri del vitigno e della terra. Un tripudio d’erbe aromatiche e di cedro e di litchie e di pesca bianca croccante e integra. Freschezza, armonia, lunghezza infinita. Bevuto a maggio.
Menetou-Salon Morogues 2004 Domaine Henry Pellé
Adoro i Sauvignon della Loira. Ma devo ammettere che questa bottiglia - d’una denominazione che m’era sconosciuta - l’ho comprata giusto per curiosità, perché era coup de coeur della guida Hachette 2006. E meno male che ho letto l’Hachette, ché questo è bel bianco, freschissimo, floreale, denso di frutto bianco. Bevuto a marzo.
Piemonte Moscato d’Autunno 2005 Paolo Saracco
Che complessità d’agrumi e albicocce surmature e pesche gialle in piena estate e fiori primaverili e miele e perfino la speziatura fine di certi dolcetti tedeschi. E che equilibrio, con quella freschezza che dà grande slancio e rende onore alla dolcezza. Ed ha lunga persistenza e gratificante beva. Gran Moscato, gran vino. Bevuto a settembre.
St.-Émilion Gran Crû Classé 1970 Chateau Fombrauge
Miseria che slancio giovanile che ci ho trovato in questo rosso bordolese ormai più che trentacinquenne. Il naso non era magari di quelli indimenticabili, ma la bocca, ragazzi… Che succosa freschezza. Quasi vinosa. Piena di vita. Ricca di frutto. Trovarne, di vecchietti così. Bottiglia bevuta, con soddisfazione, ai primi d’aprile.
Eccoci qui con la classifica. La fanno tutti, perché non dovrei io? Del resto, c’è cambio d’anno, e dunque occorre far sintesi e metter ordine alla memoria. Eppoi, l’ammetto, è piacevole andare a rivedere gli appunti di tante bottiglie stappate, assaggiate, a volte proprio bevute, godute. E raccontarle.
Certo, far graduatorie è sempre arbitrario. E difficile, ché a volte quel certo tal vino porta con sé anche ricordi, emozioni, sensazioni che vanno oltre il fatto edonistico in sé. Ed è pure ingiusto, finendo inevitabilmente per accantonare qualcosa, qualcuno, che comunque vorresti - dovresti - valorizzare. Ma tant’è: il rito va rispettato.
Dunque: venti e non di più.
Dieci di quella che amo chiamare la Regione del Garda, ossia le province di Verona, di Brescia, di Mantova e Trento. Più Verona che le altre, e mi perdonino lombardi e tridentini (m’accorgo che soprattutto a Trento e dintorni ho avuto poche occasioni d’assaggio nell’ultimo anno, e dunque mi riprometto di rimediare nel nuovo).
Dieci fuori dai paraggi, altre latitudine, altre longitudini, altra Italia, altra Europa, e per stavolta niente fuori Europa.
In ogni caso, venti vini che mi piacerebbe ribere. Che mi hanno convinto. Emozionato, anche. E sono, insieme, bianchi, rossi e rosati. Già, anche i rosati: perché, son forse minori nell’Olimpo del vino? Ce n’è un terzetto addirittura, di rosé: due gardesani, uno francese. Piacevolissimi, secondo me.
Fuori Italia, c’è tanta Francia - e non sarebbe possibile altrimenti - un pelo di Germania (ah, i Riesling del Reno!), un vino dolce - straordinario e «antico» - di Crimea. E in terra italica anche un Moscato, ch’è un vino adorabile e troppo trascurato da’ bevitori, e n’ho trovato un’espressione altissima.
M’accorgo che non ho scelto bollicine. E comunque di buone - buonissime, talvolta - n’ho bevute, ma nella classifica non hanno trovato spazio: pazienza.
Eccoli, dunque, i venti top secondo me. In ordine rigorosamente alfabetico all'interno delle due categorie.
Prosit!
Top 10 della Regione del Garda
Amarone Classico della Valpolicella 2000 Manara
Lo scorso anno nella mia top c’era il 2001. Ebbene, di meglio c’è l’annata precedente: l’Amarone 2000. Ribevuto a distanza di tempo, m’ha nuovamente impressionato, e dimostra di tener salda quella sua eleganza delicatissima eppure lung’assai, quel frutto così calibrato. Niente palestra, per questo rosso: evviva. Bevuto a novembre.
Amarone Classico della Valpolicella Sergio Zenato 2001 Zenato
Inserendo fra i preferiti del primo semestre l’Amarone basic 2001 di Zenato, avevo detto che il fratello maggiore, la Riserva assaggiata allora solo en primeur, sarebbe finita probabilmente fra i miei must di fine anno. Così è. Grande Amarone. Tanto frutto, tanta spezia, corpo potente eppur anche agile e beva lussuriosa. Bevuto a luglio.
Bardolino Chiaretto 2005 Giovanna Tantini
Ah, Giovanna, che Chiaretto! Frutto, frutto e frutto. Da riempirseme l’olfatto e il gusto. Da masticare. Da assaporare. Da far rotolare in bocca. E poi la vena speziatina ch’è tipica delle corvine gardesane. E un colore deciso, marcato, eppure anche brillante e cristallino. Bell’espressione bardolinista. New Bardolino. Bevuto in settembre.
Garda Classico Chiaretto 2005 Vedrine
D’accordo: non è un colosso, ma vivaddìo m’è piaciuta l’opera prima di Vedrine, microazienda del Garda lumbàrd, che ha fatto, nel 2005, solo e soltanto questo vino rosè (ci vuol coraggio). Atipico, atipicissimo Chiaretto rivierasco. Più vegetale che fruttato, anche se la fragolina s’avanza impertinente. Avanti così. Bevuto in agosto.
Quaiare 2003 Le Fraghe
L’avevo detto a maggio che questo rosso era (è) un gioiello in termini d’espressione del terroir. «E pazienza se gli altri non saranno d’accordo», scrissi. Le guide non sono state d’accordo, ma per me resta uno dei vertici assoluti nell’area gardesana, un benchmark, un vino che ha un’anima e uno stile inconfondibili. Ribevuto a luglio.
Recioto Classico della Valpolicella Capitel Monte Fontana 2000 Tedeschi
L’annata 2000 fu d’equilibrio in Valpolicella. E gli Amaroni son buoni. Però straordinarie son certe bottiglie di Recioto, soprattutto oggi che cominciano ad aver maturità. Questo dei Tedeschi è un grand’esempio: avvincente per complessità e ampiezza olfattiva, ha in bocca finezza ed eleganza e misurata dolcezza. Goduto a dicembre.
Soave Classico Cà Visco 2005 Coffele
Oh, se mi piace il Cà Visco. Già en primeur, ancora scomposto dall’imbottigliamento di pochi giorni, m’aveva intrigato. Facendosi adulto, ecco l’inconfondibile suo charme. Il frutto pulitissimo entra deciso e lascia poi spazio alla freschezza e quindi riemerge, asciutto, nel finale. Bevuto in luglio, agosto, settembre, ottobre, novembre...
Soave Classico La Rocca 1993 Pieropan
È tuttora buonissimo questo Soave del ’93. In forma smagliante dopo tant’anni, e freschissimo, e giovine direi, e vibrante e nervoso e teso. Ha frutto denso e vene minerali e lunghezza sorprendente e avvincente. Un bianco italico che può reggere il confronto coi grandi di Francia e di Germania. Bevuto a fine maggio.
Soave Classico Monte Fiorentine 2005 Cà Rugate
Che gran bianco che è il Monte Fiorentine. A mio avviso, uno dei bianchi più buoni e appaganti che sia dato di trovare sull’italico suolo. Gioiosamente bevibile, giocosamente succoso di frutto, festosamente vestito di fiori. Un vino che riesce a mettere insieme nobiltà e spensieratezza. Bevuto in luglio e in ottobre e in dicembre.
Valpolicella Classico Superiore Il Taso 2003 Villabellini
L’annata della svolta. Cecilia Trucchi col 2003 ha deciso di trarre uno e un solo vino dalle uve del suo brolo di Castelrotto, rinunciando (incredibile) perfino all’Amarone. Che vino che ne è venuto! Personalissimo, succoso di frutto, pregno di spezia, bevibilissimo e possente insieme. Gran bel rosso valpolicellese. Ribevuto a luglio.
Top 10 d’altre terre
Ai-Danil Tokay 1938 Massandra
Sul Mar Nero, in Crimea, esiste la più imponente collezione mondiale di vini invecchiati. In genere dolci o fortificati. È la Massandra Collection. Ho avuto la fortuna di poter bere il Tokay del ‘38 fatto ad Ai-Danil, vicino a Yalta. Poesia. Dattero, fico secco, arancia candita, melata, cognac, nocino, mandorla... Grandissimo. A dicembre.
Alsace Riesling Grand Crû Hengst 1997 Domaine Josmeyer
Quando lo comprai, in Alsazia, in cantina a Wintzenheim, ero convinto d’aver fatto un bell’acquisto. A distanza di mesi e mesi, questo Riesling s’è mostrato anche sopra le attese. La vena minerale e quella fruttata s’intersecano, si fondono in quello che ho già definito un amplesso lunghissimo e passionale. Bevuto a febbraio.
Côte Rôtie 2003 Benjamin et David Duclaux
Se non sbaglio, Parker, a questo syrah della Cote Rotie ha dato 93 centesimi di valutazione. Be’, li vale tutti. Il prezzo è sui 30 euro, pochi per un rosso di questa denominazione. Ancora giovane, ma già sul frutto s’innestano sentori d’erbe officinali, di timo. Elegantissimo oggi, chissà cosa potrà diventare. Bevuto in dicembre.
Côtes de Provence Château Sainte-Marguerite 2005 J. P. Fayard
Che la Provenza sia terra di bei rosati è noto. Quest’era bellissimo già dal colore, abbastanza tenue invero. Fragranze fruttate d’avvincente finezza: il piccolo frutto rosso di sottobosco, soprattutto. E poi una nota quasi balsamica, officinale, sottile, elegante. Una freschezza nervosamente sensuale. Buonissimo. Bevuto in agosto.
Côtes du Rhône Parallèle 45 2001 Paul Jaboulet Ainè
D’accordo, d’accordo: questo è «solo» il rosso di base di Jaboulet, ma porca miseria che base! Succoso di piccolo frutto, di mirtillo e d’amarena. Di lunga persistenza. Giovane dopo un quinquennio. Eppoi accettabile nel prezzo. Ve lo dico io: sarà anche un vino di base, ma rimpiango fosse l’ultima boccia. Bevuto a Pasqua, coll’agnello.
Erbacher Hohenrain Riesling Spätlese 1990 Schloss Reinhartshausen
Per me, non c’è bianco che tenga, di fronte a un gran Riesling. Tedesco magari, e invecchiato. Fra i Riesling - parecchi - bevuti nel 2006, questo l’ho trovato elegantissimo e splendido per equilibrio, dopo quindici anni. Il frutto e la vena citrina perfettamente integrati. La nota minerale equilibratissima. Fascinoso. Stappato a giugno.
Fiano di Avellino Clelia Romano 2004 Colli di Lapio
Uno dei bianchi più buoni che mi ricordi d’aver bevuto in Italia. Forse il più buono. Vino di terroir, classico e modernissimo assieme. Descrive i caratteri del vitigno e della terra. Un tripudio d’erbe aromatiche e di cedro e di litchie e di pesca bianca croccante e integra. Freschezza, armonia, lunghezza infinita. Bevuto a maggio.
Menetou-Salon Morogues 2004 Domaine Henry Pellé
Adoro i Sauvignon della Loira. Ma devo ammettere che questa bottiglia - d’una denominazione che m’era sconosciuta - l’ho comprata giusto per curiosità, perché era coup de coeur della guida Hachette 2006. E meno male che ho letto l’Hachette, ché questo è bel bianco, freschissimo, floreale, denso di frutto bianco. Bevuto a marzo.
Piemonte Moscato d’Autunno 2005 Paolo Saracco
Che complessità d’agrumi e albicocce surmature e pesche gialle in piena estate e fiori primaverili e miele e perfino la speziatura fine di certi dolcetti tedeschi. E che equilibrio, con quella freschezza che dà grande slancio e rende onore alla dolcezza. Ed ha lunga persistenza e gratificante beva. Gran Moscato, gran vino. Bevuto a settembre.
St.-Émilion Gran Crû Classé 1970 Chateau Fombrauge
Miseria che slancio giovanile che ci ho trovato in questo rosso bordolese ormai più che trentacinquenne. Il naso non era magari di quelli indimenticabili, ma la bocca, ragazzi… Che succosa freschezza. Quasi vinosa. Piena di vita. Ricca di frutto. Trovarne, di vecchietti così. Bottiglia bevuta, con soddisfazione, ai primi d’aprile.
mercoledì 20 dicembre 2006
Il cioccolato, il vino, il fiume
Angelo Peretti
Mi piace il cioccolato. Ne ho quasi dipendenza. Ma adoro gustarlo in solitudine. Ergo: niente bagno di folla alle fiere cioccolataie, che si moltiplicano da qualche tempo. Una di queste kermesse, fra le più importanti, è il Cioccoshow, che s’è tenuto a Bologna. E del Cioccoshow ho tenuto da parte un comunicato stampa, ripromettendomi di tornarci su. Spiegava che in occasione della rassegna bolognese nasceva il premio «Perfetto per il Cioccolato» riservato ai vini italiani passiti, liquorosi, da meditazione e da dessert. Diceva, testuale, così: «Il premio intende individuare non solo il vino più adatto ad essere abbinato al cioccolato, ma anche il perfetto connubio tra il vino stesso e una particolare tipologia di cioccolato artigianale».
Ebbene, ci torno sopra a questo comunicato per dire che no, non sono d’accordo. Perché ritengo che non cia sia e non ci possa essere alcun vino «perfetto» per il cioccolato.
Ora, capisco: gli organizzatori han fatto bene - in quanto a strategie di comunicazione - a mettere in pista ‘sto concorso, ché d’abbinata wine & chocolate si fa un gran parlare. È un argomento di tendenza, che attrae l’attenzione del pubblico. Per esempio, sui forum on line ogni tanto la questione torna d’attualità, e i post di commento s’infittiscono. E si finisce sempre lì: il Barolo Chinato, il Banyuls, il Porto Vintage, l’Ala Amarascato. Di più: cresce il numero de’ produttori che nel descrivere i loro vini dolci spiegano d’averli trovati adatti allo sposalizio cioccolatoso. Mosse di marketing: se la gente cerca vini da cioccolata, facciamogli credere ch’esistano, e piazziamoli. Poco importa, poi, se il vino vincitore del premio al Cioccoshow è gardesano, un passito della Civielle, leggasi Cantine della Valtenesi e della Lugana, ch’è un’affidabile realtà della riva lombarda del Benaco. Poco importa perché nossignori: vino e cioccolato insieme non ci stanno. Per dirla col Manzoni, «questo matrimonio non s’ha da fare».
Ma il Barolo Chinato… E ridagli con questa storia che ti ficcano in testa nei corsi di degustazione e sui rotocalchi da parrucchiera. Sì, ammetto, il Barolo Chinato ci può anche stare, come altri vini aromatizzati. Così come i fortificati francesi. Così come il Porto. Perfino qualche Recioto della Valpolicella riesce a reggere il cioccolato. Ma il problema è proprio lì: son tutte soluzioni che «reggono» il cacao, che lo sopportano, che sopravvivono. Mica che ci si esaltano. E un buon abbinamento è invece quello in cui il vino esalta il cibo e il cibo esalta il vino. È questo e solo questo, citando Veronelli, il «matrimonio d’amore».
A proposito di Luigi (Gino) Veronelli e della sua definizione. Riprendo il mano il suo libretto dell’84 «Veronelli. Matrimoni d’amore». E rileggo: «Nessun vino sulla cioccolata, torta e pasticcini al cioccolato, e sui gelati qualsiasi il loro gusto. Provocano un improvviso e immediato sovvertimento, un vero e proprio terremoto “palatale”. Il vino, bevuto sopra, avrebbe, a sua volta, sapore del tutto bistorto». Ecco, concordo e sottoscrivo.
Il fatto è che il cioccolato è il simbolo stesso della complessità. È grasso. È tannico. Talvolta è acido. Dicono che contenga qualcosa come trecento sostanze. Un gran bazar organolettico. Che liquido vinoso volete trovare ch’abbia una simile ampiezza? Per sgrassare la bocca da una grassezza del genere servono forti dosi d’alcol e d’acidità. E come li contrasti invece quei tannini?
Certo, sì, qualche gran vino riesce - dicevo - a sopravvivere. A malapena sopravvivere, insisto. Ma in genere è, appunto, gran vino, dal costo altrettanto grandicello. Che senso ha sprecarlo in un accostamento che sta in piedi a fatica, che non amplifica il piacere della beva, dell’assaggio, della gastro-libidine? Meglio gustare il vino e poi, di lì a un po’, il cioccolato. Solitario l’uno, solitario l’altro. Ma che gioia queste solitudini.
Piuttosto, cercate altri orizzonti.
Dicevo: serve alcol. E dunque alcol sia. Distillati. Rum, soprattutto, di bell’età. E poi forse Cognac, Armagnac, Calvados, whisky. Qualche grappa. Peccato che io non beva distillati…
Oppure, acidità. Acido come certe birre artigiane - magari d’abbazia - non trovate nulla. Le grandi birre ambrate e scure del Belgio, con quel loro fondo amarognolo e quella lunghezza speziata e quel tono di liquirizia e quei vaghi ricordi di frutta rossa macerata e fors’anche candita, e di buccia d’arancia essiccata. Ho testato, col cioccolato, l’Abt 12 della St. Bernardus, da Watou, Belgio: che bell’abinamento! E buono ho trovato il biscotto di cioccolato con la McChouffe, che viene dalle Ardenne, birrifico La Chouffe (e che dire dello sposalizio con N’Ice, la birra di Natale della stessa ditta?).
Ecco: questa è la frontiera: distillato o birra belga o acqua o nulla. Ma niente vino, please, col cioccolato.
Ora, almeno un’altra dritta ve la devo dare. Se siete a Verona, andate a cercare in via Fama. Un vicoletto che si distacca da corso Portoni Borsari, a due passi da piazza Erbe. Ci potete trovare buona musica e cioccolato lussurioso. La musica è quella dei cd che vende Carlo, ai Dischi Volanti. Il cioccolato è quello del negozietto della Magioca.
Dovete sapere che, in realtà, La Magioca è un bed & breakfast in Valpolicella, a Negrar. Un posto - credetemi - di quelli che pensate esistano solo sulle riviste d’arredamento. Una casuccia antica. Un salotto in stile provenzale che neanche in Provenza lo trovate così bello. Delle stanzette che uno non gli viene proprio voglia d’uscire. E una chiesuola dove fanno i matrimoni. Un giardinetto curato fin nel dettaglio. Una quiete assoluta.
Ecco, nel cucinino della Magioca si fanno poi cose miracolose. Si fanno cioccolatini. O meglio, li fa - iperartigianalmente - la signora Marisa. E sono delizie. A volte li infiocchetta uno per uno, a mano, con un fil di raso. Provate il marrone ricoperto di cioccolato: da svenire. E il cioccolato al caffè? E l’albicocca al cioccolato? E i quadrotti di cioccolato? Insomma: ne tastate uno e vi vien voglia di mangiarli tutti, alla faccia delle calorie.
Bene, dalle colline negraresi di Moron, i cioccolatini della signora Marisa sono scesi al capoluogo, a Verona, dove La Magioca ha aperto un piccolo shop. In via Fama, appunto. Li trovate lì, se volete. Garantisco: vale la pena.
Visto che siete nella viuzza, passate anche da Carlo, ai Dischi Volanti, e compratevi l’ultimo cd di Madeleine Peyroux. S’intitola «Half the perfect world». C’è sopra un brano di Joni Mitchell, e la Peyroux lo ricanta ch’è una meraviglia. Si chiama «River», che è il fiume. Ecco, a casa mettetevi in poltrona, abbassate le luci, accendete il lettore, fate partire «River», sbocconcellate il cioccolatino e beveteci insieme un po’ di birra ambrata, mica fredda. Tornerete a credere nelle favole, come quando eravate bimbi e aspettavate che arrivasse Santa Lucia o pensavate che Babbo Natale ci fosse davvero o insomma confondevate il sogno e la realtà.
Oh, se poi avete voglia, qui sotto chiudo col testo di «River». Portate pazienza: la traduzione è mia, l’inglese originale suona meglio. Spero solo d’averne resa, un po’, la malinconia.
Buon Natale.
River
di Joni Mitchell
Ecco, arriva Natale
Tagliano gli alberi
Appendono decorazioni
E cantano canzoni di gioia e pace
Oh, vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Ma qui non nevica
Qui resta tutto d’un verde così bello
Sento che farò un sacco di soldi
E poi la pianterò con questa pazzia
Oh, vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Vorrei avere un fiume così lungo
Da insegnare ai miei piedi a volare
Oh, vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Ho fatto piangere il mio uomo
Lui ci ha provato ad aiutarmi
Sai, m’ha fatta sentir bene
E l’ha amata così tanto questa birbante
Da farmi cedere le ginocchia
Come vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Sono così difficile da trattare
Sono egoista e triste
Ora me ne sono andata e ho perso l’uomo migliore
Che avessi mai avuto
Come vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Vorrei avere un fiume così lungo
Da insegnare ai miei piedi a volare
Oh, come vorrei avere un fiume
Al mio uomo gli ho fatto dire addio
Ecco che arriva Natale
Tagliano gli alberi
Appendono decorazioni
E cantano canzoni di gioia e pace
Oh, vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare.
Mi piace il cioccolato. Ne ho quasi dipendenza. Ma adoro gustarlo in solitudine. Ergo: niente bagno di folla alle fiere cioccolataie, che si moltiplicano da qualche tempo. Una di queste kermesse, fra le più importanti, è il Cioccoshow, che s’è tenuto a Bologna. E del Cioccoshow ho tenuto da parte un comunicato stampa, ripromettendomi di tornarci su. Spiegava che in occasione della rassegna bolognese nasceva il premio «Perfetto per il Cioccolato» riservato ai vini italiani passiti, liquorosi, da meditazione e da dessert. Diceva, testuale, così: «Il premio intende individuare non solo il vino più adatto ad essere abbinato al cioccolato, ma anche il perfetto connubio tra il vino stesso e una particolare tipologia di cioccolato artigianale».
Ebbene, ci torno sopra a questo comunicato per dire che no, non sono d’accordo. Perché ritengo che non cia sia e non ci possa essere alcun vino «perfetto» per il cioccolato.
Ora, capisco: gli organizzatori han fatto bene - in quanto a strategie di comunicazione - a mettere in pista ‘sto concorso, ché d’abbinata wine & chocolate si fa un gran parlare. È un argomento di tendenza, che attrae l’attenzione del pubblico. Per esempio, sui forum on line ogni tanto la questione torna d’attualità, e i post di commento s’infittiscono. E si finisce sempre lì: il Barolo Chinato, il Banyuls, il Porto Vintage, l’Ala Amarascato. Di più: cresce il numero de’ produttori che nel descrivere i loro vini dolci spiegano d’averli trovati adatti allo sposalizio cioccolatoso. Mosse di marketing: se la gente cerca vini da cioccolata, facciamogli credere ch’esistano, e piazziamoli. Poco importa, poi, se il vino vincitore del premio al Cioccoshow è gardesano, un passito della Civielle, leggasi Cantine della Valtenesi e della Lugana, ch’è un’affidabile realtà della riva lombarda del Benaco. Poco importa perché nossignori: vino e cioccolato insieme non ci stanno. Per dirla col Manzoni, «questo matrimonio non s’ha da fare».
Ma il Barolo Chinato… E ridagli con questa storia che ti ficcano in testa nei corsi di degustazione e sui rotocalchi da parrucchiera. Sì, ammetto, il Barolo Chinato ci può anche stare, come altri vini aromatizzati. Così come i fortificati francesi. Così come il Porto. Perfino qualche Recioto della Valpolicella riesce a reggere il cioccolato. Ma il problema è proprio lì: son tutte soluzioni che «reggono» il cacao, che lo sopportano, che sopravvivono. Mica che ci si esaltano. E un buon abbinamento è invece quello in cui il vino esalta il cibo e il cibo esalta il vino. È questo e solo questo, citando Veronelli, il «matrimonio d’amore».
A proposito di Luigi (Gino) Veronelli e della sua definizione. Riprendo il mano il suo libretto dell’84 «Veronelli. Matrimoni d’amore». E rileggo: «Nessun vino sulla cioccolata, torta e pasticcini al cioccolato, e sui gelati qualsiasi il loro gusto. Provocano un improvviso e immediato sovvertimento, un vero e proprio terremoto “palatale”. Il vino, bevuto sopra, avrebbe, a sua volta, sapore del tutto bistorto». Ecco, concordo e sottoscrivo.
Il fatto è che il cioccolato è il simbolo stesso della complessità. È grasso. È tannico. Talvolta è acido. Dicono che contenga qualcosa come trecento sostanze. Un gran bazar organolettico. Che liquido vinoso volete trovare ch’abbia una simile ampiezza? Per sgrassare la bocca da una grassezza del genere servono forti dosi d’alcol e d’acidità. E come li contrasti invece quei tannini?
Certo, sì, qualche gran vino riesce - dicevo - a sopravvivere. A malapena sopravvivere, insisto. Ma in genere è, appunto, gran vino, dal costo altrettanto grandicello. Che senso ha sprecarlo in un accostamento che sta in piedi a fatica, che non amplifica il piacere della beva, dell’assaggio, della gastro-libidine? Meglio gustare il vino e poi, di lì a un po’, il cioccolato. Solitario l’uno, solitario l’altro. Ma che gioia queste solitudini.
Piuttosto, cercate altri orizzonti.
Dicevo: serve alcol. E dunque alcol sia. Distillati. Rum, soprattutto, di bell’età. E poi forse Cognac, Armagnac, Calvados, whisky. Qualche grappa. Peccato che io non beva distillati…
Oppure, acidità. Acido come certe birre artigiane - magari d’abbazia - non trovate nulla. Le grandi birre ambrate e scure del Belgio, con quel loro fondo amarognolo e quella lunghezza speziata e quel tono di liquirizia e quei vaghi ricordi di frutta rossa macerata e fors’anche candita, e di buccia d’arancia essiccata. Ho testato, col cioccolato, l’Abt 12 della St. Bernardus, da Watou, Belgio: che bell’abinamento! E buono ho trovato il biscotto di cioccolato con la McChouffe, che viene dalle Ardenne, birrifico La Chouffe (e che dire dello sposalizio con N’Ice, la birra di Natale della stessa ditta?).
Ecco: questa è la frontiera: distillato o birra belga o acqua o nulla. Ma niente vino, please, col cioccolato.
Ora, almeno un’altra dritta ve la devo dare. Se siete a Verona, andate a cercare in via Fama. Un vicoletto che si distacca da corso Portoni Borsari, a due passi da piazza Erbe. Ci potete trovare buona musica e cioccolato lussurioso. La musica è quella dei cd che vende Carlo, ai Dischi Volanti. Il cioccolato è quello del negozietto della Magioca.
Dovete sapere che, in realtà, La Magioca è un bed & breakfast in Valpolicella, a Negrar. Un posto - credetemi - di quelli che pensate esistano solo sulle riviste d’arredamento. Una casuccia antica. Un salotto in stile provenzale che neanche in Provenza lo trovate così bello. Delle stanzette che uno non gli viene proprio voglia d’uscire. E una chiesuola dove fanno i matrimoni. Un giardinetto curato fin nel dettaglio. Una quiete assoluta.
Ecco, nel cucinino della Magioca si fanno poi cose miracolose. Si fanno cioccolatini. O meglio, li fa - iperartigianalmente - la signora Marisa. E sono delizie. A volte li infiocchetta uno per uno, a mano, con un fil di raso. Provate il marrone ricoperto di cioccolato: da svenire. E il cioccolato al caffè? E l’albicocca al cioccolato? E i quadrotti di cioccolato? Insomma: ne tastate uno e vi vien voglia di mangiarli tutti, alla faccia delle calorie.
Bene, dalle colline negraresi di Moron, i cioccolatini della signora Marisa sono scesi al capoluogo, a Verona, dove La Magioca ha aperto un piccolo shop. In via Fama, appunto. Li trovate lì, se volete. Garantisco: vale la pena.
Visto che siete nella viuzza, passate anche da Carlo, ai Dischi Volanti, e compratevi l’ultimo cd di Madeleine Peyroux. S’intitola «Half the perfect world». C’è sopra un brano di Joni Mitchell, e la Peyroux lo ricanta ch’è una meraviglia. Si chiama «River», che è il fiume. Ecco, a casa mettetevi in poltrona, abbassate le luci, accendete il lettore, fate partire «River», sbocconcellate il cioccolatino e beveteci insieme un po’ di birra ambrata, mica fredda. Tornerete a credere nelle favole, come quando eravate bimbi e aspettavate che arrivasse Santa Lucia o pensavate che Babbo Natale ci fosse davvero o insomma confondevate il sogno e la realtà.
Oh, se poi avete voglia, qui sotto chiudo col testo di «River». Portate pazienza: la traduzione è mia, l’inglese originale suona meglio. Spero solo d’averne resa, un po’, la malinconia.
Buon Natale.
River
di Joni Mitchell
Ecco, arriva Natale
Tagliano gli alberi
Appendono decorazioni
E cantano canzoni di gioia e pace
Oh, vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Ma qui non nevica
Qui resta tutto d’un verde così bello
Sento che farò un sacco di soldi
E poi la pianterò con questa pazzia
Oh, vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Vorrei avere un fiume così lungo
Da insegnare ai miei piedi a volare
Oh, vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Ho fatto piangere il mio uomo
Lui ci ha provato ad aiutarmi
Sai, m’ha fatta sentir bene
E l’ha amata così tanto questa birbante
Da farmi cedere le ginocchia
Come vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Sono così difficile da trattare
Sono egoista e triste
Ora me ne sono andata e ho perso l’uomo migliore
Che avessi mai avuto
Come vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare
Vorrei avere un fiume così lungo
Da insegnare ai miei piedi a volare
Oh, come vorrei avere un fiume
Al mio uomo gli ho fatto dire addio
Ecco che arriva Natale
Tagliano gli alberi
Appendono decorazioni
E cantano canzoni di gioia e pace
Oh, vorrei avere un fiume
Dove poter pattinare.
sabato 16 dicembre 2006
Dell’appassimento breve: sarà New Valpolicella?
Angelo Peretti
L’Italia del vino di qualità si muove da sempre - che vuol dire da quindici-vent’anni, da dopo l’affaire metanolo - essenzialmente lungo due direttrici: il vitigno e la tecnica. Entrambi son al contempo, a mio pensare, punti di forza e di debolezza. Di forza, certo, ché da qui è scoccata la ripresa ed è scaturito il successo. Di debolezza, anche, ché non sono elementi unici e irripetibili. Il vitigno lo puoi ri-piantare altrove (il sangiovese - è un esempio - si coltiva anche in California o in Australia, adesso) quando non viene addirittura d’altri luoghi (leggi cabernet, chardonnay e dintorni). La tecnica è di per sé ri-producibile ovunque: uso del legno, riduzioni, appassimenti, ripassi, metteteci quel che volete.
La Francia del vino di qualità ruota da sempre - che vuol dire almeno da un secolo e mezzo, dalle prime classificazioni bordolesi - attorno a due perni: il marchio e il terroir. Il marchio è quello dei grandi (in dimensione e valore) negociant, oppure degli stessi château storici del Médoc (Latour, Margaux & Co.). Il terroir è affermato da chiunque voglia esprimere, appunto, l’idea di qualità, e alla regola non sfuggono gli stessi negociant. Giusto a titolo d’esempio, La Turque è sì un grande (grandissimo) rosso targato Guigal, ma è prima di tutto un crû e un’espressione del terroir straordinario della Côte Brune, nella vallata del Rodano, e in più porta bene in evidenza, in etichetta, la denominazione d’origine Côte Rôtie. Ecco, è vino di terroir, e l’espressione ingloba vitigno e tecnica e ne fa elementi d’un insieme virtuoso.
La premessa, lunga, è per dire che m’è capitato di partecipare all’ingresso in società d’un «nuovo» rosso di «scuola italiana» ch’avrebbe i crismi per diventare un vino di «pensiero francese». Per saltare l’ostacolo e guardare al domani.
Il vino è un Valpolicella Superiore dell’area classica: il Verjago della Cantina Valpolicella di Negrar. Sì, la cantina sociale negrarese, ch’è di quelle che lavorano bene, e bene tanto.
Ora, questo Verjago, alla sua prima uscita oggi coll’annata 2004, è un vino che potrei dir progettuale. Daniele Accordini, che della Cantina è direttore tecnico, ne ha illustrata l’origine, la concezione. Che provo qui di seguito a riassumere in tre fasi.
Fase uno: l’espressione di volontà. «Verjago - spiega Accordini - nasce con l’intento di restituire attenzione al vino simbolo della Valpolicella, al Valpolicella appunto. In un momento in cui l’Amarone sembra offuscare ogni luce proveniente da altri vini grazie alla sua potenza, alla sua concentrazione e al suo gusto internazionale, abbiamo sentito l’esigenza di riportare al centro della scena un prodotto legato anche con il nome al suo territorio di appartenenza, per secoli riferimento economico dell’intera regione». In sintesi: oggi che l’Amarone «tira», è ora di ridare smalto al Valpolicella. Applaudo.
Fase due: per mirar l’obiettivo, l’attenzione s’è focalizzata - correttamente - sull’indagine territoriale. «In collaborazione con l’Università di Verona - mi si dice - abbiamo analizzato per diversi anni le potenzialità viticole ed enologiche di numerosi vigneti situati nella fascia collinare della vallata di Negrar. Il lavoro ha richiesto lunghe indagini, tuttora in corso, portando alla luce l’essenza qualitativa di alcuni siti produttivi, prima conosciuti solo parzialmente, facendo emergere le espressioni più nascoste di alcuni territori e la maggiore adattabilità di determinati vitigni a particolari ambienti». Bene: è indagine sulle potenzialità del terroir negrarese e su alcuni suoi possibili crû.
Fase tre: il ritorno all’abitudine enologica italiana. «Nell’ideazione di questo vino - racconta il direttore - abbiamo quindi coniugato le varietà risultate più idonee con la tecnica tradizionale e antichissima dell’appassimento, prefiggendoci di ottenere un Valpolicella che potesse esprimere caratteristiche di eleganza e potenza unite ad autenticità e originalità». Ecco: vitigno più appassimento. Il Verjago è dunque figlio d’uve appassite, uve autoctone di Valpolicella. Come l’Amarone, pur d’appassimento più breve, molto più breve: la metà circa e fors’anche meno di quanto si usa per il potente rosso amaronista. Comunque vino «tecnico», ché mette in luce, soprattutto, la tecnica d’appassir l’uve, che trova nella Valpolicella la massima espressione. Ergo: il terroir, che pure era stato centrale nella progettazione, è in disparte. Ma mica gli faccio una colpa, alla Cantina, ché quest’è, appunto, l’impostazione italica, la scuola del pensiero nostrano.
Ma sarebbe ora di una svolta. E il progetto Verjago potrebbe essere un’occasione di quelle giuste. Così adesso cerco di spiegare perché.
Riparto dalla fase due: la ricerca sui terroir. I vigneti su cui la Cantina ha condotto l’indagine insieme coll’Università son tutti a Negrar e in collina. Anzi, in collina alta. Talvolta terre ch’erano quasi abbandonate, ritenute com’erano in passato meno interessanti in fatto di resa, quando la viticoltura era orientata a dar più quantità che qualità. Ma credo invece che quelli siano potenzialmente i pezzi di terra da seguire con più attenzione. Quelli da cui proviene la memoria storica dell’appassire. Ché ho una convinzione. Questa: l’appassimento, padre del Recioto e del figliolo suo Amarone, nasce da un’esigenza empirica, che è far fronte alla fame e alla carestia.
Era questa l’esigenza prima delle genti del passato: mettere da parte riserve d’alimenti per i giorni di vacche magre, così frequenti, ché i raccolti eran soggetti alle bizze del tempo. Nasce da qui l’industriosa creatività di tutti gl’insaccati e de’ salumi e delle conserve e delle marmellate e dei sott’aceti e dei sott’oli e dell’affumicato e dell’essiccato. Per il vino, era importante averne. Ma per chi tirava avanti vigna in collina alta c’era guaio in più: l’uva non maturava, e dava dunque vinelli aspri e subito acetici e per nulla capaci di durare. Ed ecco l’ingegno: se l’uva non matura in vigna, la si può far maturare in casa. Di qui l’appassimento, che concentra zuccheri. Se ne traeva dunque vino poco, ma alcolico e ricco di zucchero, nutritivo molto, e dunque passibile d’essere allungato coll’acqua per farne quantità maggiore. Per la romanità e per il tempo medievale e per l’età rinascimentale e insomma fin quasi ai giorni moderni, allungare il vino con l’acqua è stato normalità, per averne più quantità, più alimento.
Se quest’è vero, è forse la collina la terra madre dell’appassimento valpolicellese. Dunque, se si vuol fare Valpolicella da uve appassite, è corretto andare a cercarle lassù. Come ha fatto la Cantina di Negrar. Il problema è spostar la focalizzazione: non è per fare appassimento che si deve andare a trovar uve ne’ vigneti in quota, ma è per valorizzare il carattere - il genius loci - del terroir d’alta collina che si può utilizzare «anche» l’appassimento. E il Verjago questo passaggio culturale lo potrebb’affrontare, ché i presupposti ci sono - mi pare, e son convinto - tutti. E dunque potrebb’essere questo il New Valpolicella, il domani, il rosso valpolicellista di terroir. Che sia figlio d’appassimento, è meno importante.
Intanto, prendiamolo com’è, e ringraziamo la Cantina di Negrar che il coraggio, in questo progetto, l’ha mess’in campo per davvero.
Prima uscita, ho detto, è quella della vendemmia del 2004. Che ha fatto quaranta giorni d’appassimento e due anni di botte grande e nuova. Mi spiegano che l’uva messa ad asciugare fino a due settimane perde acqua nel graspo e solo poi concentra il frutto, che resta integro nelle fragranze sue fin verso i quaranta giorni e poi comincia la modifica aromatica che troveremo piuttosto nel bouquet dell’Amarone. Dunque, per conservar fruttato originario, occorre agire entro il mese e mezzo. Bene: questa è tecnica e va tenuta a mente: pre-requisito.
Adesso, qui di seguito, la scheda.
Valpolicella Classico Superiore Verjago Domini Veneti 2004
Alla sua prima uscita il Verjago è vino che sa il fatto suo. Ha oggettivamente all’olfatto frutto tanto e integro, fascinoso e piacevole, pur virando un po’ verso l’accento amaronista. La bocca apre ampia, ancora sul frutto. A mio dire, esce un poco il legno (ma ad altri non dà noia), e penso che forse due anni di botte son tanti. Vorrei un pelo in più di spinta acida, che dia slancio, lunghezza. In ogni caso, piacerà. Commercialmente sarà un successo, non dubito.
Per me, ora, vale un lieto faccino e quasi due, da rivedere, probabilmente, al rialzo col passar del tempo :-)
Verjago 2006 (dalla vasca)
Ho avuto occasione di provar la vasca del 2006 che sta nascendo. Prima della malolattica. Prima del legno, ovviamente. E be’, se il buon giorno si vede dal mattino… Ci ho trovato frutto bellissimo, che d’uva appassita non aveva neppure memoria. Ecco: queste fragranze van conservate.
Restasse questo slancio giovanile unito alla struttura ch’è di tutto rispetto, i faccini sarebbero di certo, domani, tre :-) :-) :-)
Ci va aggiunto, adesso, al Verjago, il carattere della terra sua, la capacità di narrarla, questa terra valpolicellese e i suoi crû e le sue vigne. E va modificato - penso - quanto dichiara l’etichetta: appassimento, legno - vabbé - ma mi dica qualcosa anche delle vigne, di dove sono e perché son quelle, proprio quelle. Sia vino terroirista della Valpolicella alta: trovi il coraggio. E gli sia lunga e lieta la vita.
L’Italia del vino di qualità si muove da sempre - che vuol dire da quindici-vent’anni, da dopo l’affaire metanolo - essenzialmente lungo due direttrici: il vitigno e la tecnica. Entrambi son al contempo, a mio pensare, punti di forza e di debolezza. Di forza, certo, ché da qui è scoccata la ripresa ed è scaturito il successo. Di debolezza, anche, ché non sono elementi unici e irripetibili. Il vitigno lo puoi ri-piantare altrove (il sangiovese - è un esempio - si coltiva anche in California o in Australia, adesso) quando non viene addirittura d’altri luoghi (leggi cabernet, chardonnay e dintorni). La tecnica è di per sé ri-producibile ovunque: uso del legno, riduzioni, appassimenti, ripassi, metteteci quel che volete.
La Francia del vino di qualità ruota da sempre - che vuol dire almeno da un secolo e mezzo, dalle prime classificazioni bordolesi - attorno a due perni: il marchio e il terroir. Il marchio è quello dei grandi (in dimensione e valore) negociant, oppure degli stessi château storici del Médoc (Latour, Margaux & Co.). Il terroir è affermato da chiunque voglia esprimere, appunto, l’idea di qualità, e alla regola non sfuggono gli stessi negociant. Giusto a titolo d’esempio, La Turque è sì un grande (grandissimo) rosso targato Guigal, ma è prima di tutto un crû e un’espressione del terroir straordinario della Côte Brune, nella vallata del Rodano, e in più porta bene in evidenza, in etichetta, la denominazione d’origine Côte Rôtie. Ecco, è vino di terroir, e l’espressione ingloba vitigno e tecnica e ne fa elementi d’un insieme virtuoso.
La premessa, lunga, è per dire che m’è capitato di partecipare all’ingresso in società d’un «nuovo» rosso di «scuola italiana» ch’avrebbe i crismi per diventare un vino di «pensiero francese». Per saltare l’ostacolo e guardare al domani.
Il vino è un Valpolicella Superiore dell’area classica: il Verjago della Cantina Valpolicella di Negrar. Sì, la cantina sociale negrarese, ch’è di quelle che lavorano bene, e bene tanto.
Ora, questo Verjago, alla sua prima uscita oggi coll’annata 2004, è un vino che potrei dir progettuale. Daniele Accordini, che della Cantina è direttore tecnico, ne ha illustrata l’origine, la concezione. Che provo qui di seguito a riassumere in tre fasi.
Fase uno: l’espressione di volontà. «Verjago - spiega Accordini - nasce con l’intento di restituire attenzione al vino simbolo della Valpolicella, al Valpolicella appunto. In un momento in cui l’Amarone sembra offuscare ogni luce proveniente da altri vini grazie alla sua potenza, alla sua concentrazione e al suo gusto internazionale, abbiamo sentito l’esigenza di riportare al centro della scena un prodotto legato anche con il nome al suo territorio di appartenenza, per secoli riferimento economico dell’intera regione». In sintesi: oggi che l’Amarone «tira», è ora di ridare smalto al Valpolicella. Applaudo.
Fase due: per mirar l’obiettivo, l’attenzione s’è focalizzata - correttamente - sull’indagine territoriale. «In collaborazione con l’Università di Verona - mi si dice - abbiamo analizzato per diversi anni le potenzialità viticole ed enologiche di numerosi vigneti situati nella fascia collinare della vallata di Negrar. Il lavoro ha richiesto lunghe indagini, tuttora in corso, portando alla luce l’essenza qualitativa di alcuni siti produttivi, prima conosciuti solo parzialmente, facendo emergere le espressioni più nascoste di alcuni territori e la maggiore adattabilità di determinati vitigni a particolari ambienti». Bene: è indagine sulle potenzialità del terroir negrarese e su alcuni suoi possibili crû.
Fase tre: il ritorno all’abitudine enologica italiana. «Nell’ideazione di questo vino - racconta il direttore - abbiamo quindi coniugato le varietà risultate più idonee con la tecnica tradizionale e antichissima dell’appassimento, prefiggendoci di ottenere un Valpolicella che potesse esprimere caratteristiche di eleganza e potenza unite ad autenticità e originalità». Ecco: vitigno più appassimento. Il Verjago è dunque figlio d’uve appassite, uve autoctone di Valpolicella. Come l’Amarone, pur d’appassimento più breve, molto più breve: la metà circa e fors’anche meno di quanto si usa per il potente rosso amaronista. Comunque vino «tecnico», ché mette in luce, soprattutto, la tecnica d’appassir l’uve, che trova nella Valpolicella la massima espressione. Ergo: il terroir, che pure era stato centrale nella progettazione, è in disparte. Ma mica gli faccio una colpa, alla Cantina, ché quest’è, appunto, l’impostazione italica, la scuola del pensiero nostrano.
Ma sarebbe ora di una svolta. E il progetto Verjago potrebbe essere un’occasione di quelle giuste. Così adesso cerco di spiegare perché.
Riparto dalla fase due: la ricerca sui terroir. I vigneti su cui la Cantina ha condotto l’indagine insieme coll’Università son tutti a Negrar e in collina. Anzi, in collina alta. Talvolta terre ch’erano quasi abbandonate, ritenute com’erano in passato meno interessanti in fatto di resa, quando la viticoltura era orientata a dar più quantità che qualità. Ma credo invece che quelli siano potenzialmente i pezzi di terra da seguire con più attenzione. Quelli da cui proviene la memoria storica dell’appassire. Ché ho una convinzione. Questa: l’appassimento, padre del Recioto e del figliolo suo Amarone, nasce da un’esigenza empirica, che è far fronte alla fame e alla carestia.
Era questa l’esigenza prima delle genti del passato: mettere da parte riserve d’alimenti per i giorni di vacche magre, così frequenti, ché i raccolti eran soggetti alle bizze del tempo. Nasce da qui l’industriosa creatività di tutti gl’insaccati e de’ salumi e delle conserve e delle marmellate e dei sott’aceti e dei sott’oli e dell’affumicato e dell’essiccato. Per il vino, era importante averne. Ma per chi tirava avanti vigna in collina alta c’era guaio in più: l’uva non maturava, e dava dunque vinelli aspri e subito acetici e per nulla capaci di durare. Ed ecco l’ingegno: se l’uva non matura in vigna, la si può far maturare in casa. Di qui l’appassimento, che concentra zuccheri. Se ne traeva dunque vino poco, ma alcolico e ricco di zucchero, nutritivo molto, e dunque passibile d’essere allungato coll’acqua per farne quantità maggiore. Per la romanità e per il tempo medievale e per l’età rinascimentale e insomma fin quasi ai giorni moderni, allungare il vino con l’acqua è stato normalità, per averne più quantità, più alimento.
Se quest’è vero, è forse la collina la terra madre dell’appassimento valpolicellese. Dunque, se si vuol fare Valpolicella da uve appassite, è corretto andare a cercarle lassù. Come ha fatto la Cantina di Negrar. Il problema è spostar la focalizzazione: non è per fare appassimento che si deve andare a trovar uve ne’ vigneti in quota, ma è per valorizzare il carattere - il genius loci - del terroir d’alta collina che si può utilizzare «anche» l’appassimento. E il Verjago questo passaggio culturale lo potrebb’affrontare, ché i presupposti ci sono - mi pare, e son convinto - tutti. E dunque potrebb’essere questo il New Valpolicella, il domani, il rosso valpolicellista di terroir. Che sia figlio d’appassimento, è meno importante.
Intanto, prendiamolo com’è, e ringraziamo la Cantina di Negrar che il coraggio, in questo progetto, l’ha mess’in campo per davvero.
Prima uscita, ho detto, è quella della vendemmia del 2004. Che ha fatto quaranta giorni d’appassimento e due anni di botte grande e nuova. Mi spiegano che l’uva messa ad asciugare fino a due settimane perde acqua nel graspo e solo poi concentra il frutto, che resta integro nelle fragranze sue fin verso i quaranta giorni e poi comincia la modifica aromatica che troveremo piuttosto nel bouquet dell’Amarone. Dunque, per conservar fruttato originario, occorre agire entro il mese e mezzo. Bene: questa è tecnica e va tenuta a mente: pre-requisito.
Adesso, qui di seguito, la scheda.
Valpolicella Classico Superiore Verjago Domini Veneti 2004
Alla sua prima uscita il Verjago è vino che sa il fatto suo. Ha oggettivamente all’olfatto frutto tanto e integro, fascinoso e piacevole, pur virando un po’ verso l’accento amaronista. La bocca apre ampia, ancora sul frutto. A mio dire, esce un poco il legno (ma ad altri non dà noia), e penso che forse due anni di botte son tanti. Vorrei un pelo in più di spinta acida, che dia slancio, lunghezza. In ogni caso, piacerà. Commercialmente sarà un successo, non dubito.
Per me, ora, vale un lieto faccino e quasi due, da rivedere, probabilmente, al rialzo col passar del tempo :-)
Verjago 2006 (dalla vasca)
Ho avuto occasione di provar la vasca del 2006 che sta nascendo. Prima della malolattica. Prima del legno, ovviamente. E be’, se il buon giorno si vede dal mattino… Ci ho trovato frutto bellissimo, che d’uva appassita non aveva neppure memoria. Ecco: queste fragranze van conservate.
Restasse questo slancio giovanile unito alla struttura ch’è di tutto rispetto, i faccini sarebbero di certo, domani, tre :-) :-) :-)
Ci va aggiunto, adesso, al Verjago, il carattere della terra sua, la capacità di narrarla, questa terra valpolicellese e i suoi crû e le sue vigne. E va modificato - penso - quanto dichiara l’etichetta: appassimento, legno - vabbé - ma mi dica qualcosa anche delle vigne, di dove sono e perché son quelle, proprio quelle. Sia vino terroirista della Valpolicella alta: trovi il coraggio. E gli sia lunga e lieta la vita.
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