sabato 26 novembre 2005

Cinque euro di provocazione sul vino

Angelo Peretti
D’accordo, è un’operazione di marketing. Ma potrebb’essere il classico sasso lanciato nello stagno. L’acqua stagnante è quella della ristorazione, in crisi profonda, e del suo rapporto col vino. Il sasso potrebbe mostrarsi un macigno. Ché se la sperimentazione andasse a buon fine, se i bevitori mostrassero di gradire la formula, be’, ci si potrebbero aspettare reazioni a catena.

Ora, i miei dodici lettori si chiederanno di cosa stia parlando. Presto detto: dell’iniziativa d’un ristorante di Montichiari, nel Bresciano. Si chiama Corte Francesco. È della famiglia Piccinelli. Propone i vini al costo d’acquisto, maggiorati di cinque euro come «diritto di stappatura». Cinque euro fissi, che si tratti d’un vinello o d’una bottiglia blasonata. L’amico Gigi Del Pozzo, che di Corte Francesco fa il pr, parla nel suo comunicato stampa di «un’iniziativa che sicuramente incontrerà il favore del pubblico». Non so se sarà così: mica ho la sfera di cristallo. Glielo posso augurare. So solo che la cosa m’intriga, e mi piacerà seguirla, magari profittandone per andare a bere qualcuna delle bottiglie che ho visto in lista.

M’accorgo che devo dare qualche dettaglio in più. Bene: cominciamo col ristorante.
Corte Francesco è una struttura strana. È sul rettilineo che congiunge Montichiari a Lonato. Ha un parco immenso (dieci ettari: digli niente). A pian terreno, saloni da banchetti eleganti per centinaia di persone. Di sopra, un intimo ristorantino da poche decine di posti e una cucina che merita d’essere provata. Tra le pignatte del ristorante al piano superiore si muove un giovane e talentuoso chef, Stefano Accorsini. Ha fatto gavetta nel Bresciano, ma anche all’estero. Ha due linee di piatti: il territorio - come s’usa dire - rivisitato, e il mare. Provai la sua cucina un paio d’anni fa trovandola piuttosto interessante, ma ancora non del tutto sicura. Ora s’è fatto adulto. Sapori netti, precisi, lineari. Mano salda, personalità. Ci ho mangiato bene a Corte Francesco. Tornerò. I prezzi? Neppure proibitivi: dalla quarantina di euro del menù degustazione bresciano alla sessantina di quello ittico. Alla carta sui cinquanta. Tutto compreso: niente coperto. E servizio professionale.

I vini. In lista ci sono più di quattrocent’etichette. Mica male. Dentro, ci trovate di tutto un po’, e questo forse è un limite, ma m’hanno detto che rimetteranno mano all’impostazione di cantina (a proposito: le bottiglie stanno in una stanza seminterrata, col volto in mattoni, molto bella). I prezzi, si diceva, son quelli d’acquisto, cui vanno aggiunti cinque euro a bottiglia. Occhio, però: il ristorante compra quasi sempre da enoteche, non direttamente dai produttori. Quindi, il prezzo a cui s’approvigiona è quello già ricaricato dall’enoteca. La cosa riduce d’un bel po’ il vantaggio per noi che siamo i clienti finali, ma comunque la somma che ci si trova a sborsare è in genere - non sempre - al di sotto di quanto chiesto di solito nei ristoranti. In questo senso, trovare in lista il Barbaresco ’90 di Gaja a 81 euro (più 5 di stappatura, ovviamente) è del tutto corretto, come ha osservato qualche collega. Io dico però che bisogna andarci un po’ prudenti, perché non è sempre facile valutare i prezzi dei vini d’annate vecchie. Per esempio, i Sassicaia ‘94 e ‘96 a Corte Francesco son venduti a 105 euro più 5, che fanno 110, cifra che qualcuno ha reputato buona, ma che a me pare invece del tutto normale, visto che si tratta di annate piccoline e che gli stessi vini li ho trovati a listino in altri locali attorno ai 120 euro, con punte minime però di 100 e massime di 170 e più.

Secondo me, la carta enoica è da sondare con spirito d’esplorazione, ché ci sono vecchie bottiglie da non lasciarsi sfuggire. Quelle che in altri ristoranti non trovi. Rimaste lì magari anche casualmente. Ma ci sono, e van bevute prima che se n’accorgano altri. Un motivo più che valido, insieme - lo ripeto - alla piacevole cucina, per prender su la macchina e andare a Montichiari.

Quali sono le bottiglie che farei stappare se ci andassi stasera?
Per esempio sarei curioso di provare il Capitel Foscarino ’97 di Anselmi (all’epoca era ancora nella doc del Soave, prima del «gran rifiuto»), che ho visto a 10,50 più 5, ed è somma da pagare senza tentennamenti. Così pure il Batàr ’92 di Querciabella, uno degli archetipi dello chardonnay italiano affinato in barrique: a 20 più 5 lo giudico un affarone. Ma altrettanto fascinosa è la versione ’98 dello stesso vino: a suo tempo, ottenne i tre bicchieri dalla guida dei Vini d’Italia del Gambero Rosso e di Slow Food: a Corte Francesco lo si stappa a 28 più 5. Vale il viaggio il Pinot Bianco Pergole 2000 di Longariva (fu finalista per i tre bicchieri, sfiorandoli) offerto a 8 più 5. Ma è un piacere trovare anche il celebre Sauvignon St. Valentin 2004 della Cantina Produttori San Michele di Appiano a 16,50 più 5.

Fra i rossi comincerei chiedendo Le Zalte ’97 o ’98 della Cascina La Pertica (a 21 euro più 5) per vedere come ha tenuto il più premiato fra i cabernet del Garda. Non mi farei sfuggire il semisconosciuto Brunetto ’95 di Montecorno (a 12 più 5), un rebo gardesano del tutto sperimentale (oggi l’azienda è degli Avanzi). Tracannerei contento il Faye 2000 di Pojer e Sandri a 20 più 5 e così pure il Rosso dell’Abbazia ’96 di Serafini e Vidotto a 17 più 5 o il Faro ’98 di Palari a 25,50 più 5 (una terna di vini che furono insigniti dei tre bicchieri gamberisti). Ma è a buon prezzo anche il Pauillac ’93 di Lynch-Bages a 50,50 più 5, visto che oggi lo si trova in enoteca in Francia fra i 60 e i 70 euro, solo comprandolo però in cassa da sei bottiglie.

Per chi volesse provare, ecco il telefono di Corte Francesco: 030 9981585. Fatemi sapere, dopo.

venerdì 18 novembre 2005

E sul Garda la Tav si mangerà le vigne

Angelo Peretti
Trentamila secondo le fonti ufficiali, cinquantamila secondo gli organizzatori. Quanti fossero non è poi così importante. Quel che conta è che una valle intera, quella di Susa, s’è mossa, unita, compatta, per difendere il proprio territorio. Contro un mostro vorace. La Tav. Il treno ad alta velocità. Che i politici ritengono essenziale, ma la gente no. Così, eccoli qua, oltre due chilometri e mezzo di corteo. Pacifico. Contro i soprusi che divorano la nostra vita quotidiana.

Toccherà farle fra un po’ anche sul Garda le barricate. Temo che finirà così. Perché la Tav vuol mangiar tutto anche qui. Vuol distruggere la Lugana, annientarla. Non servono appelli al buon senso, delibere comunali, prese di posizione delle categorie economiche. Niente di niente. Il progetto va avanti. Toccherà far le barricate per difendere dalla distruzione uno dei più interessanti terroir bianchisti italiani. Per salvare uno dei più longevi vini bianchi nazionali.

Cosa stia per succedere in Lugana l’ho spiegato qualche mese fa sul mensile di Slow Food. Siccome non tutti e dodici i miei lettori sono iscritti all’associazione della chiocciolina, ripropongo l’articolo qui di seguito. S’intitolava «Alta insensibilità».



Alta insensibilità.


Il progresso, sempre la solita storia. Fermarlo non si può. Neppure discuterne. Avanti tutta, in velocità. Anzi, ad alta velocità, come il supertreno che dovrà unire la vecchia Europa a quella nuova, sul Corridoio 5, da Lione a Kiev. Costi quel che costi. E tra i costi della linea ad alta velocità che si va finendo di progettare nella tratta fra Milano e Verona rischiano d’esserci anche una terra, un vitigno e un vino che portano tutt’e tre lo stesso nome: Lugana.

La zona è bella e turistica. Sud del lago di Garda. Un fazzoletto un po’ lombardo e un po’ veneto, tra Desenzano, Lonato, Pozzolengo e Peschiera. In mezzo c’è Sirmione, «perla delle isole e delle penisole», per dirla con Catullo, che ci abitava un paio di migliaia d’anni fa. Una piana fra la riva del Benaco, il Mincio, le colline moreniche mantovane e la Valtenesi. In macchina, la si attraversa in dieci minuti, lungo l’autostrada che la sfregia nel mezzo come una cicatrice. Qui c’era una palude boscosa, la silva Lucana. Gli alberi vennero abbattuti per ragioni militari: servivano ai Visconti per deviare il Mincio e allagare Mantova, che resisteva.

La bonifica cominciò in età veneziana. Restano le argille: durissime, piene di crepe quando c’è il sole, simili a sabbie mobili quando piove. Sopra ci sono le vigne di trebbiano di Lugana, varietà autoctona, che ne trae tipica mineralità quasi d’idrocarburi. Il vino è in continua crescita qualitativa.

I tecnici sono categorici: per far passare le rotaie del supertreno serve cavar via 70 ettari di vigneto, il 10% di tutto quel che esiste in Lugana. Un’altra manciata d’ettari di vigna dovrà lasciar posto al deposito di macchinari e combustibili. Ottanta ettari eliminati su 700 totali. Un’enormità. In più, scartabellando, si è scoperto che, oltre alla linea ferroviaria, s’insedieranno alcuni enormi cantieri. Uno – 85 000 metri quadri – è a ridosso dell’acquedotto di Peschiera. Nel progetto originale queste ferite non sono segnate. Le vedi sulle planimetrie che possono avere, su richiesta specifica, solo i comuni. Con questi, si arriva a far fuori il 22% dei vigneti totali del Lugana. Un disastro.

I fautori dell’opera non si scompongono. Lo studio d’impatto ambientale ha avanzato una curiosa teoria salvifica per le grandi aree a cantiere: quella che, asportando l’attuale terreno coltivato, conservandolo a margine e riposizionandolo a lavori finiti per ripiantarci di nuovo le vigne, tutto tornerà come prima. In fondo, che c’entrano col vino milioni di anni di lavorio dei mari che depositarono limi, dei ghiacciai che costruirono morene, delle piene lacustri che modellarono la piana? Che importa di secoli d’interazione fra suolo, clima, vigna, uomo, ambiente? Il terroir lo puoi smontare e rimontare a piacimento: così pensa la nuova scienza. Piuttosto, si potrebbe immaginare di piantar vigne su altri terreni della Lugana, fin qui scampati alle lottizzazioni, ma pure lì il treno fa scempio, pretendendo il tributo di ben 100 ettari anche di quest’area potenzialmente coltivabile.

Con le vigne, se ne andrà per sempre un’altra parte della memoria dei luoghi. La linea di alta capacità – è questa la definizione canonica – chiederà il sacrificio di alcune cascine, che verranno demolite. Dieci solo nel comune di Desenzano. A Pozzolengo sarà abbattuto un cascinale di valore storico e architettonico. Risale al Seicento. Le travi che reggono il solaio sono enormi: forse alberi strappati all’antica selva. Restano perfettamente integre le pietre intagliate che servivano a delimitare gli spazi delle vacche nelle stalle: sono in marmo rosso di Verona, ultime testimonianze di una civiltà contadina travolta dal boom del turismo, dall’avanzata dell’urbanizzazione residenziale, dal proliferare dei capannoni e dei centri commerciali.

Possibile non ci sia una soluzione alternativa? Ci hanno provato in molti a spiegare che sì, un’altra possibilità c’è: spostare la linea di qualche centinaio di metri e farla passare sotto le colline moreniche, in galleria. Ma fino a oggi la risposta è stata la stessa: no. Inutile persino votarsi ai santi. Il treno passerà accanto al Santuario del Frassino. La tradizione vuole che lì la Vergine sia apparsa a un vignaiolo, nel 1510. Nemmeno la Madonna ha potuto deviare il tracciato.

Inutili gli appelli del comitato che in Lugana e sulle vicine colline moreniche vorrebbe creare un parco. La richiesta di tutela dell’area ha ricevuto il sostegno dell’astronoma Margherita Hack, del poeta Andrea Zanzotto, dello scrittore Mario Rigoni Stern. Anche di Roberto Vecchioni, professione cantautore ed ex insegnante di liceo a Desenzano, lo stesso dov’era stato commissario d’esami Carducci. I posti, e il vino di Lugana, Vecchioni li conosce. Li ha descritti così: «Casali sparsi, vie di ciottoli, filari ininterrotti di alberi, macchie di ulivi, di rosmarino, roseti, querce storte e imponenti, locande che ti appaiono improvvisamente e ti siedi, bevi del Lugana freschissimo, chiacchieri, giochi, ti rialzi e ti si sperde lo sguardo fino a incontrare laggiù in mezzo al lago due vele innamorate che danzano in cerchio».

Inascoltato resta il monito delle associazioni di categoria. C’è un protocollo d’intesa firmato a Brescia e a Verona dall’Unione e dalla Confederazione Agricoltori e dalla Coldiretti. Vi si denuncia che «saranno gravissimi i danni all’economia delle aziende vitivinicole locali, al turismo in generale, ma soprattutto all’enoturismo e inevitabilmente all’immagine del Lugana». Si domanda di utilizzare la galleria. Lettera morta. Il Consorzio di Tutela del Lugana insiste nel documentare al ministero come la peculiarità di questo vino sia data dal suolo e dalle sue rare, uniche formazioni argillose d’epoca wurmiana, che insieme al clima e al vitigno «conferiscono al prodotto finale peculiarità organolettiche con caratteri assolutamente esclusivi e non ripetibili su terreni limitrofi o comunque diversi». Il problema è lì.

Non c’è dubbio: chi ama il vino e la biodiversità, fa il tifo per la galleria. Alzare un calice di Lugana può essere il segno della resistenza.

mercoledì 9 novembre 2005

Il sogno incarnato nel merlot: Nepomuceno

Angelo Peretti
Per gente acquatica come il sottoscritto, il nome di san Giovanni Nepomuceno è discretamente noto. Il nome solo, si badi, ché del santo è difficile si conosca la biografia (era un prete - ho letto - e ha fatto brutta fine, legato, imbavagliato e gettato nel fiume per aver appoggiato l’arcivescovo di Praga nella lotta contro il re). Fatto sta che è il protettore dei naviganti, di chi lavora sull’acqua, dei pescatori. Ecco perché l’affinità con la gens aquatica. A Garda, poco fuori della porta occidentale del centro storico, c’è una nicchia con la sua statuetta.
Si chiama Nepomuceno anche un vino d’entroterra lombardo. Ora, non è che i concorsi enologici mi eccitino più di tanto, ma devo ammettere che m’ha fatto piacere vederlo premiato alla rassegna dei merlot italiani ad Aldeno. Per due motivi. Primo, perché il Nepomucemo 2001, merlot in purezza, è davvero un gran bel vino. Secondo, perché dietro c’è un progetto. C’è una passione, anzi, più d’una. C’è una storia.
Il vino lo produce Cantrina, piccola azienda di Bedizzole. O meglio, Cantrina di Cantrina, ché l’aziendina ha mutuato il nome dal minuscolo borgo della campagna bedizzolese, ultimi lembi delle colline modellate dai ghiacci che formarono il bacino del Garda, millanta e millanta anni fa. A Cantrina c’è una donna, Cristina Inganni. Che continua a coltivare il sogno che fu di Dario Dattoli. Lui su quella collinetta appena accennata, nel declivio a lato d’un vecchio cascinale in stile lombardo, aveva avuto l’illuminazione: ricavarci una sorta di chateau bresciano, piantando vigne francesi là dov’è tutto groppello e marzemino. Eccolo qui il progetto. Improntato e subito infranto dal destino. Ma Cristina ha voluto, cocciutamente, andare avanti. Dar concretezza all’utopia. Trovando lungo la via il sostegno di Diego Lavo, suo compagno d’oggi. E la consulenza d’altri visionari: il team Zymè, Celestino Gaspari in primis, uno che i vini li fa solo se sono estremi, ché sennò non lo intrigano abbastanza.
Ora che le vigne han cominciato a farsi adulte, il terroir s’è confermato quello intravisto. Ed è il Nepomuceno a far da apripista della crescita qualitativa, rapida e per certi versi entusiasmante in una zona che le novità le offre col contagocce. Se il merlot di Cantrina edizione 2000 dava soddisfazione tanta, la versione 2001 è balzata ancora più avanti. Varietale che di più non si può: il peperone verde che ti salta al naso, deciso, il frutto rosso che gli fa da sfondo, il tannino fitto fitto, la speziatura sottile e aristocratica. Rosso d’avvolgenza. Di robusto corpo. Di succosa e masticabile quasi possenza. Di lunghissima persistenza. Di beva appagante.
Come ci si è arrivati? Piantando vigna fitta. Poco terreno: un ettaro e 35 appena, in prevalenza d’argilla rossa. Resa minima. Raccolta fatta rigorosamente a mano in cassettine. Peccato solo che le bottiglie siano un nulla: tremila e basta. Da bere in parte, e in parte, se vi riesce, da metter via per vedere fin dove saprà arrivare. Questo Nepomuceno ha la stoffa del campione, credetemi.

sabato 5 novembre 2005

Del novello e dei dubbi del bevitore

Angelo Peretti
Così è arrivato di nuovo anche il novello. Portandosi dietro le discussioni di sempre. Con gli ostracismi di chi non ne vuol neanche sentir parlare. Non ne avrei parlato qui neanch’io, ma siccome in tanti me ne chiedono notizia, ho pensato di riproporre quasi integralmente su InternetGourmet.it un pezzo che ho scritto per la pagina del gusto del quotidiano «L’Arena» dello scorso 4 novembre. La pagina la cura Morello Pecchioli, giornalista di bella penna e gran gourmet: è stato lui a chiedermi di parlare di novello. Dato l’interesse che l’articolo ha destato, ci ha visto giusto anche stavolta: sotto sotto, il novello intriga. Ecco qui di seguito il testo.

Se avete il buon tempo d’aggirarvi fra le pagine di Internet tra forum e blog a soggetto vinicolo, vedrete un gran discorrere di novello. Perché, come dice la legge, «alle ore 0,01 del 6 novembre dell’annata di produzione delle uve dalle quali i vini di cui trattasi derivano» ha inizio la commercializzazione del novello del 2005. Solo che le discussioni dei naviganti del web non sono generose col novello. L’accusano di non essere vino. Arrivando a definirlo una «bevanda alcolica». A scriverne sono più i detrattori che i sostenitori. Ma se ogni anno di novello italiano se ne vendono qualcosa come quindici-sedici milioni di bottiglie, a qualcuno deve pur piacere.

Intanto, cerchiamo di capirci. Il novello non è un vino «nuovo», non è una sorta di «torbolino». Perché non lo si produce – o meglio, non lo si dovrebbe produrre - con la solita fermentazione alcolica. Di mezzo c’è la cosiddetta «macerazione carbonica». Una tecnica inventata in Francia negli anni Trenta. Già: la primogenitura dei novelli spetta ai francesi. Noi, in Italia, li abbiamo copiati, per emularne il successo commerciale, con sessant’anni di ritardo. Solo che abbiamo voluto essere più «furbi» di loro, e allora non solo abbiamo previsto di uscire sul mercato il 6 novembre anziché il terzo giovedì del mese come accade per il celebrato Beaujolais Noveau, ma addirittura abbiamo previsto che la macerazione carbonica sia obbligatoria appena per il trenta per cento del vino, contro il cento per cento dell’obbligo transalpino. Il resto, a casa nostra, può essere vino tradizionale. Il che lascia spazio all’infinita fantasia italica. E nel consumatore può insorgere il sospetto che la dicitura di novello celi una «rinfrescatina» del vino rimasto invenduto dall’anno prima.

Perché è importante la macerazione carbonica? Perché è questa, solo questa, la tecnica che rende inconfondibili, unici i vini novelli, conferendo loro i freschissimi, fragranti, gradevoli, intriganti sentori di piccoli frutti, succosi e invitanti. Così pure è da questo metodo che si trae quel simpatico color porpora che hanno - o dovrebbero avere - i novelli. Vediamo, grosso modo, come funziona. I grappoli, che devono esser sani, vengono posti in contenitori ermetici, nei quali si immette anidride carbonica. Nella vasca manca dunque l’ossigeno. Il fatto è che normalmente la fermentazione - ossia la trasformazione degli zuccheri in alcol - avviene grazie ai lieviti, che hanno bisogno appunto dell’aria per agire. In questo caso, invece, i lieviti, mancando ossigeno, non riescono ad attivarsi, e allora a muoversi sono gli enzimi contenuti nell’uva. Sono loro che, dentro l’acino, cominciano ad attaccare lo zucchero, trasformandolo in alcol. Quando il processo è giunto a saturazione, le uve sono pronte per una lieve pigiatura. Il novello, di fatto, è bell’e pronto. Ricco di giovanili afrori. Il trucco è tutto qui. Così fanno i francesi, che sono maestri nel ramo.

Insomma: il novello non è che non sia vino. È vino fatto in maniera diversa. E quand’è fatto bene può essere piacevolissimo, beverino, sbarazzino. Semmai c’è un problema di durata. Perché la metodologia di lavorazione fa sì che manchino quasi del tutto i tannini, che sono dei conservanti naturali. Dunque il vino non è particolarmente longevo. Meglio consumarlo in tempi brevi: cinque-sei mesi. Diciamo che finisce il ciclo vitale attorno a Pasqua. A proposito: se di novelli ne trovate qualcuno che vi piace in modo particolare, conservatene una bottiglia da stappare con l’agnello, e non ve ne pentirete.

Il problema, si diceva, è che la legge italiana è elastica. Non c’è, che noi si sappia, disciplinare italiano che prevedeva la sola macerazione carbonica per il novello. Al massimo s’arriva all’ottantacinque per cento, come nel lodevole caso del Bardolino, primo novello ad aver ottenuto la doc nella storia nazionale: era il 1987. Sia chiaro: non è vitato usarla in via esclusiva la macerazione carbonica, ma altrettanto non c’è nessuno che, purtroppo, la imponga. Occorre dunque legger bene le etichette: il novello ideale è quello per il quale è scritto che s’è ottenuto «interamente» o «esclusivamente» con la macerazione carbonica. Un generico accenno a questa tecnica non basta. Nel dubbio, meglio informarsi scorrendo i disciplinari delle varie doc. Preferendo le denominazioni che prevedono i limiti più elevati.

Per il 2005 c’è forse un altro problemino. Si diceva che i grappoli devono esser sani, perché i processi di trasformazione che, attraverso l’azione degli enzimi, danno vita al novello, avvengono dentro l’acino. E l’acino deve aver buona pelle, solida e tesa. Cosa che non sempre è stata possibile col tempo bastardo che ha fatto. Per le troppe piogge tanta uva s’è ridotta ad aver buccia sottile, che si rompeva a guardarla, quando non era attaccata da muffe. Come sarà, dunque, il novello 2005? «Lo scopriremo solo vivendo» cantava Lucio Battisti. Ma le condizioni non ci sono sembrate ideali: speriamo di sbagliarci. La regola allora è questa: se potete, assaggiate prima di comprare. Magari partecipando a una delle tante fiere di presentazione dei novelli in programma in questi giorni. Ché son cresciute come i funghi.

domenica 30 ottobre 2005

Una scommessa sui Lugana

Angelo Peretti
I dodici lettori che mi fanno la cortesia di leggere di tanto in tanto questa rubrica sanno probabilmente della mia opinione sul Lugana. Ossia che è sì bianco buono da bere giovane, ma che soprattutto merita, nelle etichette migliori, d’esser fatto affinare per qualche anno e anche di più. Come accade per pochi altri bianchi italiani: qualche Soave, qualche Trebbiano marchigiano e qualcheduno magari dell’Abruzzo. Poi, credo, basta. Invece il Lugana, con quel suo esser vino d’argille, su cui la vigna fatica e stenta, sa esser longevo, e anzi migliora addirittura, se ben fatto e ben serbato in cantina, col fluire degli anni. Ora, è accaduto che il consorzio di tutela del Lugana abbia convocato un manipolo di giornalisti, fra cui il sottoscritto, per sottoporre al loro palato una quindicina di bottiglie e valutarne il potenziale d’affinamento. La scommessa era questa: può qualcuno di questi vini esser tale da migliorare nel prossimo triennio? Unica regola per il produttore era presentare vini almeno del 2003, esclusa dunque l’ultima annata (e, badate, il 2004 è stata ottima vendemmia bianchista). Ebbene, su circa un terzo ci siamo sentito di provare a scommettere. Li riassaggeremo l’anno venturo e quello dopo, e dovranno mostrarsi non già semplicemente conservati, ma anzi cresciuti in eleganza.
Quali siano questi Lugana dal possibile futuro in crescendo ve lo vado a descrivere qui di seguito.
Primo vini ad aver passato la selezione è il Lugana Riserva del Lupo 2003 di Cà Lojera. Per me, è un autentico fuoriclasse. Probabilmente uno dei migliori Lugana che mi sia mai stato dato d’assaggiare. L’ho già bevuto varie volte, e sempre mi si è confermato d’enorme carattere. Magari difficile, ora, da comprendere. Perché ancora chiuso, nervoso. Ma, a mio avviso, destinato a fascinoso futuro. È fatto in acciaio. Solo acciaio, niente legno. L’alcol, pur sostenuto, è quasi mascherato da una vivida freschezza, del tutto inusuale per la calda annata di cui è figlio. Emergono afrori d’agrumi (di limone, di pompelmo) e poi di citronella e d’erba di sfalcio. La vegetalità è a tutto tondo. La mineralità è lì che preme per uscir fuori. Il finale, lunghissimo, gioca sui toni della mandorla verde e della colorofilla. Lasciatelo riposare ancora, e vi darà soddisfazioni. Ci scommetto davvero.
Cà Lojera ha giocato una seconda ottima carta col suo Lugana Superiore 2001. Altro bel vino. Stavolta da botte di legno. Anche qui, i colleghi sono stati concordi: bel vino ora, ma potrà ancora migliorare (occhio: è un 2001, e dunque ha già quattr’anni sul groppone). Al naso appare addirittura restio a concedersi. Ma mineralità e nota verde poi balzano fuori. La bocca è agile, vibrante. Il legno non è ancora del tutto fuso. Si farà: probabilmente il prossimo triennio lo vedrà arrivare al massimo delle potenzialità.
Torniamo ai bianchi fatti in acciaio. Ha passato la prova il Lugana Superiore Vigna di Catullo 2003 della Tenuta Roveglia. Altro bel vino (e badate: il Lugana base del 2004 è addirittura una spanna sopra: compratelo e mettetene un po’ da parte). Frutto di tre successive vendemmie, ne propone i diversi caratteri. Vegetale e salino per rappresentare la prima e la seconda cernita in vigna, denso di frutto surmaturo e quasi di caramello per descrivere il terzo passaggio, quello della vendemmia tardiva.
Poi, il Lugana Molceo 2003 di Ottella. Siamo nella categoria dei vini affinati nel legno. E il Molceo si conferma ancora una gran bella espressione luganista. Denso, grasso, setoso, eppure anche citrino, rigoglioso di salvia. Il passaggio in botte quasi non l’avverti. Te ne accorgi solo per una vena vanigliata sottesa all’ampia struttura. Non dovrebbe aver proprio problemi a dipanarsi al meglio nel triennio che viene.
Quinto e ultimo vino su cui ci siam sentiti di scommettere, il Lugana Superiore Fabio Contato 2003 di Provenza. Fabio è il patron dell’azienda e firma di pugno in etichetta nelle annate migliori un bianco e un rosso. Questo Lugana fa legno. Ed è un vino che ha muscoli e gran corpo. Ricorda i frutti esotici, i fiori bianchi (la magnolia), l’uva surmatura. La vena verde è ben impressa. Decisa. La mineralità è lì pronta a comparire. Non avrei dubbi sulla tenuta per tre e più anni.
Detto questo, abbiamo anche provato qualche vecchia bottiglia di Lugana, giusto per avere (per me scontata) conferma della longevità del bianco di riviera. La migliore, entusiasmante, era quella d’un Lugana I Frati 1996 di Cà dei Frati. Vino superbo, che rasenta la perfezione. Roba da 95 centesimi di valutazione. Naso da idrocarburi e pietra focaia, che s’apre con lentezza estrema verso i ricordi di frutto e fieno, di fiori essiccati e mandorla. Emerge anche un’aristocratica venatura fumé. Bocca solida, sapida, vegetale. Esce di lì a poco la susina acerba. Poi ecco le erbe alpestri in un finale lunghissimo e avvolgente. Fantastico. Peccato non ce ne sia praticamente più neppure nella collezione privata di casa Dal Cero.
Buonissimo anche il Lugana Il Brolettino 1994, sempre di Cà dei Frati. Di questo vino ho raccontato qualche tempo fa una piccola verticale. Meglio il Frati ‘96, ma ragazzi che stoffa che conferma anche questo Brolettino, con quel suo naso subito prima restio e poi ammaliante nell’ampliarsi verso toni floreali che sanno di gelsomino. La bocca propone erbe montane, menta, eucalipto. Il finale rammenta i distillati di susina.
Poi, due sorprese. La prima, il Lugana Superiore Vigna di Catullo 1994 di Tenuta Roveglia. Ha naso minerale, con memorie quasi di kerosene. Escono poi il fieno secco, la buccia essiccata d’agrumi. Il palato lo coglie ancora integro, sapido. Ha sentori di limone, di cedro candito. Poi, la mandorla verde. È probabilmente giunto all’apice della maturazione, e più a lungo non potrà ancora svilupparsi, ma vivaddio ha passato con scioltezza il decennio.
Infine, sorpresa vera, ché non ho mai apprezzato moltissimo, l’ammetto, l’etichetta, il Lugana Il Rintocco 1996 della Marangona. Ebbene sì, oggi è un gran bel vino. Il naso è violentemente improntato al segno degli idrocarburi tipici dei trebbiani coltivati su argille ostiche. Sa, subito, di trielina, gasolio, nafta. Che quasi butti indietro la testa. Ma poi, ossigenandosi, i sentori minerali divengono ammalianti. E dopo, ecco il frutto giallo. In bocca è addirittura giovanile, pregno di memorie vegetali, d’eucalipto, mentuccia, erba luigia. Per finire, freschissimo, sulla mandorla verde. Averne qualche bottiglia in cantina non sarebbe male.

lunedì 17 ottobre 2005

L’uomo del Monte (Lodoletta) ha detto no

Angelo Peretti
Alla faccia di chi anche stavolta ha gridato alla vendemmia del secolo. Romano Dal Forno ha deciso: niente Amarone 2005. Lo ha annunciato il quotidiano «L’Arena». In una lunga intervista al vigneron di Cellore d’Illasi, fresco di nomina di «vignaiolo dell’anno» da parte di «Vini d’Italia», la guida targata Gambero Rosso & Slow Food. E vivaddio, questa sì che è una notizia. Perché è una svolta, in terra di Valpolicella. Super-Romano – quello che si occupa di vigne sul Monte Lodoletta, mica l’altro che ha in mente l’Ulivo – ha confessato a Giancarlo Beltrame: «Non ci sarà un Amarone Dal Forno 2005. La materia prima, cioè le uve, non mi consentono di mantenere la stessa qualità degli Amaroni degli altri anni e così salto un anno. È una scelta dolorosa, ma obbligata, perché non trovo un filo di sostegno per poterlo almeno ideologicamente immaginare. Invece, lavorando bene e molto nell’appassimento e in tutte le fasi successive, mi gioco una grande partita per fare un Valpolicella Superiore come Dio comanda, che non tema confronti con le mie annate precedenti».
I miei dieci lettori lo ricorderanno: l’avevo detto qualche settimana fa che tutte ‘ste dicerie che giravano sull’annata del secolo erano balle grosse come una casa. Con tutta l’acqua che ha fatto e un’estate senza sole come era anni che non se ne vedevano. Così è toccato a una delle grandi firme del vino veneto e italiano e insomma a un gran nome dell’arte bacchica spiegare come stanno le cose. Con un gesto estremo, dirompente: niente Amarone. Scelta coraggiosa, quella di Dal Forno. Anche in questo un caposcuola, in terra veneta.
Ebbene sì: chi è che ha detto che bisogna per forza farlo l’Amarone? Lo si produce se l’annata lo consente. Sennò, meglio destinare le uve e le energie a un buon-ottimo-formidabile Valpolicella. Scelta che altri, in terra valpolicellese, avrebbero dovuto avere il fegato di adottare già nella bastarda annata del 2002, quando grandine e pioggia avevano aperto larghi varchi nei vigneti. Invece s’era messa ad appassire uva a tutto spiano. Convinti che il mercato fosse pronto a bersi tutto. Che i prezzi avrebbero comunque continuato a salire. Salvo poi trovarsi col mercato che comincia a storcere il naso.
Già: è un po’ di anni che il tempo fa il ballerino. Che inguaia chi fa uva e vino. Il 2002 era stato ben più che problematico in molte parti d’Italia per via della tempesta e dell’acqua. Il caldo del 2003 aveva cotto l’uva. Il 2004 è stato buono per i bianchi (Soave e Lugana sono da metter via in cantina: daranno soddisfazioni per anni ed anni), ma per i rossi è ancora presto per dar giudizi. Il 2005, be’, questa è stata l’estate delle piogge torrenziali d’estate e poi delle pioggerelline continue e fastidiose man mano che s’avvicinava l’autunno, e delle nebbioline mattutine in fondovalle, e delle muffe, e del marciume. I migliori sono passati e ripassati in vigna a pulire i grappoli, a eliminare tutto quello che c’era da eliminare. A salvare il salvabile. Che poi non vuol dire che non si possano fare buoni vini. Buoni, mica capolavori, salvo eccezioni, che per fortuna ci son sempre. Nel frattempo però i comunicati si sono sprecati: grande annata, vendemmia del secolo. Ma va là. Speriamolo davvero che quella appena finita sia stata la vendemmia del secolo: che una vendemmia così – intendo -, questo secolo non ce la dia più.
Intanto, chi può, ché il prezzo - ahinoi - è proibitivo, si goda, di Dal Forno, l’Amarone 2000, che i tre bicchieri del Gambero e Slow Food se li è portati a casa con pieno merito. Ricco e concentrato come al solito, cupo come il babào, ma anche succoso e bello da bere. Gioiello d’equilibrio e di forza. Chapeau.

mercoledì 12 ottobre 2005

Se ti capita di bere rosa in autunno

Angelo Peretti
Guarda se doveva capitarmi di finire nel Padovano per bere, ad autunno iniziato, un Chiaretto di Bardolino. Fuori zona e fuori stagione. Ma, tant’è, succede anche questo. Ché i miei compagni di tavola, alla fine d’un congresso, volevano un vino non troppo impegnativo, eppure gradevole, prima di mettersi in viaggio. E allora, adocchiando la carta, ecco che m’è venuto in mente di «rischiare» un rosato. Il Bardolino Chiaretto di Corte Gardoni, Valeggio sul Mincio, sud inoltrato del «mio» lago di Garda. E i commensali han gradito. Replicando la bottiglia. Insomma: m'è andata dritta. Salvando pranzo e reputazione.

Mica facile fare un bel rosè. Serve uva buona, tempismo, equilibrio. Uva buona e sana, ché altrimenti la cattiva maturazione, la scarsità di sostanza si sentirà nel vino, così esile da esser messo in crisi da qualunque qualsiasi distorsione organolettica. Tempismo per via del colore: la tinta del vino viene bucce (i rosati si fanno con uve rosse) e dunque è il tempo in cui buccia e mosto restano a contatto a determinare la tonalità finale. Equilibrio, perché il rosato non è né bianco né rosso, non deve somigliare a nessuno dei due, ma un po’ di entrambi deve avere le caratteristiche, vestendosi della florealità e vegetalità d’un bianco e della fruttuosità d’un rosso. Dunque è una tipologia tutta da riconsiderare anche da parte del consumatore: ne vale la pena.

Un rosato da antologia ce l’ha regalato in terra veronese la vendemmia 2004: è il Bardolino Chiaretto dell’azienda agricola Corte Gardoni, a Valeggio sul Mincio. Gianni Piccoli, padrone-patron di Corte Gardoni, è uomo convinto che il buon vino lo si fa prima di tutto in vigna, curandola con passione, abbassandone le rese. Come lui sono convinti i figli, Mattia, Stefano e Andrea, che da anni vanno e vengono dalla Francia per impararne la cultura vinicola. Ebbene, messi insieme, i saperi enoici di papà Gianni e dei figli globetrotter hanno fatto la quadratura del cerchio. Il loro Bardolino Chiaretto 2004 ha colore tenue, impalpabile, antico: somiglia alle carte delle caramelline tonde di zucchero che si trovavano nei piatti di Santa Lucia. I profumi rimandano al piccolo frutto di bosco, al lampone in particolare, con qualche nota sottile di erbe officinali. La bocca è succosa, croccante di ciliegia e di susina, con una vena di quelle fragoline che si trovano all’ombra nei boschi. Così ha da essere un Chiaretto: leggiadro, dissetante, appagante. Di gran beva. Come dovrebbe essere un Chiaretto, appunto.