sabato 1 ottobre 2005

In lode del risotto col prete

Angelo Peretti
Sapori che sembravano perduti e che invece si ritrovano, quasi inaspettati. Non è mica facile viverle riscoperte del genere, di questi tempi. Perché domina l’omologazione. Prima era la rucola, adesso il petto d’oca, domani chissà che altro. Ma di tanto in tanto un lampo si riaccende. Ed è un’esperienza dei sensi che ti travolge, perché porta con sé il fascino agrodolce della nostalgia autentica, della storia vissuta per davvero. Mi è capitato qualche sera fa nella Bassa di Verona. Ad Aselogna di Cerea. Al ristorante Da Aldo. Dove m’hanno messo davanti il risotto col prete.

Il prete era proprio il prete. Nel senso che quando s’ammazzava il maiale, il cappellano del paese ti capitava puntuale in casa. Non occorreva neanche che ti chiedesse l’obolo: lo sapeva di già che la braciola, ghiottoneria negata al bacàn, gli sarebbe stata donata. E in più c’era l’invito a pranzo. D’altro canto, era un ospite di riguardo, un prestigio averlo seduto accanto. Così, capitava che si mangiasse il risotto insieme al prete del paese. Si mangiava insomma il risotto col prete. E lo si cucinava utilizzando lo stomaco del maiale. Parte di scarto, apparentemente. In realtà, gustosissima, a saperla pulire e lavare e grattare e cuocere con pazienza e pazienza e pazienza, ché è difficile da affrontare. Però il risultato era premio alla fatica. Lo è ancora, per chi accetta la tribolazione del viaggio fino ad Aselogna, uscendo prima di Legnago dalla Transpolesana e poi passando in mezzo ai capannoni che spopolano anche qui e prendendo le stradette che portano ad Aselogna.

Sia chiaro: non è piatto da dieta, né da stomaco debole. Il risotto col prete arriva in tavola giallo di brodo grasso. Come quando era la fame e bisognava placarla almeno alla festa, se ci si riusciva. Né asciutto, né minestra. All’onda, si può dire. Odoroso di cannella, ché qui è consuetudine adoperarla senza ritrosia. Fra i grani del riso, le striscioline della trippa di stomaco del porco. Il tutto cotto con un fondo di verdurine. Ogni forchettata una festa della gola. Bravo Galliano, che ha ritessuto nella sua cucina le trame del sapere alimentare. Avanti così, con coraggio.

D’accordo, mica facile, ad Aselogna. Non c’è il turista qui, non passa il forestiero. Però sono convinto che la fedeltà al territorio alla lunga ripaghi. Anzi, lancio un appello: cominciamo a ripagarla subito, ghiottoni. Avverto: il risotto col prete bisogna prenotarlo. Dò anche il telefono: 0442 35010. Aggiungo: c’è il vantaggio, non da poco, che qui, nella Bassa, i prezzi sono ancora umani. Anche sui vini, che non hanno magari carta eccelsa, ma piacevole sì, e qualche piccola perla abbastanza rara, come il Blanc de Morgex et de la Salle, valdostano, che ho bevuto io.

sabato 24 settembre 2005

Ma guarda, c’è un Bardolino che sa di tradizione

Angelo Peretti
Per me, la tecnica produttiva conta quel che conta. Senza offesa per agronomi ed enotecnici, m’interessa soprattutto che il vino esprima un terroir, il suo, e una personalità, quella del produttore. E che sia bevibile, of course. Il resto, il lavoro di vigna e di cantina, è sì importante, ma alla fin fine è un corollario, un insieme di pratiche che dovrebbero essere orientate a descrivere il legame fra persona e terroir. Tutto qui. Detto questo, eccomi a parlare di un Bardolino da agricoltura biologica. Con la premessa che ho fatto, che sia bio non m’importa più di tanto. Se la bottiglia non esprimesse qualcosa d’interessante, quel che c’è scritto in etichetta varrebbe zero. Ma qui c’è qualcosa che m’intriga. Soggetto: il Bardolino dei Poderi Oppi Pellegrini prodotto da Maddalena Pellegrini a Castion Veronese.

Lei, lady Maddalena, fa agricoltura biologica. Mica solo vino. Anche olio extravergine d’oliva e vacche della razza limousine. In un gran bel posto. Ha sessanta ettari di bosco, venticinque di pascolo e cinque e mezzo di vigne sparse qui e là. Ai piedi del Monte Baldo, alle spalle del lago di Garda. Nei dintorni della villa di famiglia, una delle più belle del territorio gardesano. Un tempo, nelle pertinenze del palazzo ci abitavano i mezzadri. Ora il magnifico edificio non è più luogo d’attività agricola: ci si fanno convegni e banchetti di nozze. Maddalena ha un cascinale poco lontano. Ci lavora col marito e un operaio moldavo. Struttura al minimo.

Fa, si diceva, un Bardolino. Ne ho bevuto, con qualche preconcetta riluttanza, l’annata 2004. Perché la versione 2003 non la ricordavo affatto bene: l’annata caldissima aveva surmaturato l’uva cuocendola, la quasi totale mancanza di solfiti – tipica della pratica bio – aveva contribuito a un’ossidazione precoce. Be’, il 2004 invece è piaciuto. Tanto che in tavola la bottiglia è finita in fretta, segno inequivocabile di piacevolezza.

Piaciuto perché è un Bardolino d’altri tempi. Di quelli che pensavo non esistessero neanche più. Mica un capolavoro. Anzi, quasi un vinello esilino, ma di straordinaria beva e singolare adesione ai canoni della più schietta tradizione. Intrigante nella sua candida, quasi ingenua semplicità. Bello come il sorriso di un bimbo.

L’uvaggio è quello tradizionale, con la corvina veronese e la rondinella a guidare le danze, ma anche buone percentuali di molinara e un poco di negrara. Le vigne sono un po’ a Castion e un po’ a Bardolino. A Castion c’è un vigneto nuovo nuovo e un altro con ceppi vecchissimi. In terra bardolinese la vigna, minuscola e giovane, è a Cortellina, che considero da sempre uno dei crû storici della denominazione, dalle potenzialità ancora del tutto inespresse.

I profumi sono quelli tipici del Bardolino tradizionale. Ci sono i piccoli frutto di bosco: la mora e il lampone. C’è la marasca sul caratteristico fondo speziato della corvina. In bocca, è sapido, con quelle particolari note “saline” che hanno sempre caratterizzato il Bardolino della tradizione. S’avvertono chiari i diversi apporti dei terroir d’origine. Le uve provenienti dal piccolo appezzamento di Cortelline imprimono classiche presenze fruttate di ciliegia e lampone, accompagnate da accenni floreali di ciclamino. Note che sono tutte di bella lunghezza. Le uve dei vigneti di Castion Veronese apportano invece le doti di vegetalità e la sottile speziatura (pepe) che hanno storicamente identificato l’entroterra fra il lago e il Baldo. La beva è favorita dall’esilità di corpo (11,5° di alcol appena: mica i muscoli iperconcentrati che sembrano una costante irrinunciabile del mondo enoico), sorretta da una nervosa e giovanile freschezza.

Insomma: è il tipico vino “da tutto pasto”. Da bevuta spensierata. Quello che accompagna la tavola senza alzare la voce. Da tòcco di pan biscotto con la soppressa casalìna. Da mensa quotidiana, mica da degustazione. Lo vedo col veronese bollito misto co la pearà. Ma anche e soprattutto con la cucina gardesana di pesce di lago. Me lo sono segnato: provarlo col risotto con la tinca. Alla prima occasione.

giovedì 22 settembre 2005

La Froscà in verticale: che carattere quel Soave

Angelo Peretti
Ah, quel bianco del ’90! Ormai i miei dodici lettori (quasi metà dei venticinque che diceva d’avere Manzoni: siamo a buon punto) lo sanno che mi piacciono i bianchi che sfidano il tempo ed anzi vengono esaltati dai lunghi affinamenti. Be’, ne ho incontrato qualcuno a Monteforte d’Alpone, terra veronese, colline soavesi. M’hanno invitato a stare al tavolo con Sandro Gini per una verticale – cosa rara – del suo Soave Classico La Froscà, uno dei vini più importanti, giustamente, dell’area. Di scena sei annate: 2004, ultima uscita, densa di promesse, e poi 2002, 1999, ‘97, ‘90 e ‘88. Mica male. Anzi: imperdibile. Con più d’un gioiello in bottiglia. Primo fra tutti, a mio parere. quel sorprendente vino del ’90, stagione fantastica. Ma ne parlo più avanti. Intanto, dico dov’eravamo e ospiti di chi. Organizzava la condotta Slow Food di Soave e si era dentro al palazzo vescovile, reso disponibile dall’amministrazione comunale: bella struttura, che si spera di vedere in futuro ancor meglio valorizzata.
Ora, la Froscà, intesa come collina, vigna. Esposta a sud est, ha sole sin dalla prima mattina e resta meno assolata nelle torride ore estive del pomeriggio. Così le maturazioni sono regolari. In più, è protetta dalle correnti fredde. In alto, tufo basaltico scuro, più sotto, tufi di diverse coloritura e in mezzo una fascia calcarea. Le vigne – in gran prevalenza garganega di vari cloni, con qualche ceppo di trebbiano di Soave – sono vecchie di cinquanta, a volte settant’anni e più. Ecco le matrici della complessità.
La prima annata in cui le garganeghe della Froscà vennero vinificate da sole fu l’85. Nasceva il crû, uno dei primi della zona. A quel tempo, il Soave era ancora vino sputtanato da anni di cisterna. Il bianco dei Gini piaceva, ma i ristoratori chiedevano di togliere la denominazione dall’etichetta. Loro, duri, a resistere: han fatto bene, e oggi anche grazie a queste resistenze il Soave è tornato a essere bianco apprezzato. Com’è nelle sue corde e nella sua storia.
Le sei annate. Dicendo che il vino fa acciaio e, da qualche anno, minima parte di legno, per maturarlo prima. Le vendemmie le ha selezionate Sandro Gini dopo personali assaggi. Con l’incognita, ovvia, della tenuta dei tappi, gran cruccio per chi ami vini invecchiati.

Soave Classico La Froscà 2004
L’ultimo nato. In bottiglia da due mesi appena. Legno ancora un po’ sopra le righe, carattere tuttora non perfettamente composto, ma dentro c’è tutto il valore di un’annata da incorniciare: quella del 2004 a Soave e Monteforte sarà una vendemmia da ricordare, fantastica. Spiccati profumi varietali, garganega a tutto tondo. Solide note fruttate si fondono con vivide memorie di fiori macerati. Cenni di mandorla. Bocca rotonda. C’è corpo, c’è freschezza. Quanto serve a promettere grand’evoluzione. Bel vino, che potrà dare soddisfazioni per anni. Per me, già ora 89-90/100.

Soave Classico La Froscà 2002
Quella del 2002 fu ovunque annata critica: piogge continue, dove non era giunta la grandine a portar via tutto. La scontrosità della vendemmia è tradotta nel vino, che è sì complesso – e molto - sotto il profilo aromatico, ma un po’ velato d’uve dalla maturazione problematica estratte a fondo. Comunque di gran personalità, atipico nella sequenza delle sei bottiglie. Naso varietale, frutto e fiori bianchi, erbe officinali, mentuccia, erbaspagna. La bocca conferma la complessità. C’è frutto surmaturo e una speziatura avvolgente di noce moscata e pepe di Sichuan. Ha lunghezza, ma pecca un po’ - confermo - in pulizia. Chissà come potrà evolvere. Ora, a mio avviso, 86/100, che non è poco davvero.

Soave Classico La Froscà 1999
Fu annata fresca, ma buona. Buonissimo è il vino. Naso decisamente improntato alla mineralità, e perdoni Masnaghetti. Che c’entra? C’entra, ché nell’ultimo numero della sua felicemente rinata rivista Enogea (la ricevete per posta abbonandovi: scrivete a almasnag@tin.it , vale la pena) ironizza sulla nuova mania collettiva: qualche anno fa un vino doveva per forza esprimere il frutto, mentre adesso dev’essere, appunto, minerale. Scrive: «Se volete quindi fare un complimento a un produttore o a un amico che ha stappato una bottiglia per voi, tirate fuori il ‘minerale’ al momento giusto (non un sasso, cosa avete capito!) e vi sarà eternamente riconoscente». Be’, nella Froscà ’99 la mineralità c’è tutta per davvero: grafite, pietra focaia in abbondanza, ché è così che nelle annate giuste s’esprimono nel vino le terre vulcaniche dei colli di Monteforte. Sotto, c’è il frutto della garganega a piena maturazione, ben delineato. La bocca è in perfetta corrispondenza. Gran corpo, bell’equilibrio. Vino che si conferma nel tempo (fu tre bicchieri della guida Gambero Rosso – Slow Food). Vérghene (averne in cantina, intendo). A mio parere, 91/100.

Soave Classico la Froscà 1997
Ahimè, il tappo qui non aveva tenuto. Almeno sulla bottiglia del mio tavolo. Naso sporchetto di legno secco, tracce ossidativa, bocca che asciuga. In mezzo, per pochi secondi, la garganega, ben definita, ma è solo un flash. Ho assaggiato al volo un bicchiere d’un altro tavolo, ed era cosa ben diversa, col frutto grasso e ancora una bella freschezza e una beva d’appagante lunghezza. Ma un sorso e via a fine degustazione non mi fa esprimere giudizio. Semmai il rimpianto (è buona annata).

Soave Classico La Froscà 1990
Che il ’90 sia stata un po’ dovunque una gran bella annata è cosa nota, ma la Froscà stupisce, affascina, commuove. Per giovinezza. Non avessi visto la bottiglia stappata lì davanti, difficilmente avrei pensato foss’un bianco di quindici anni, e mai – l’hanno ammesso – c’avrebbero giurato gli altri presenti ai tavoli. Il naso, sì, è ovviamente subito chiuso, magari un po’ evoluto, ma sfoggia pian piano spezie finissime, fieno secco, cedro candito, vene sottili di minerale. Stessa progressione sul palato, sorretto da un’invidiabile freschezza. Poi giungono la nocciola appena colta, i fiori bianchi. Le poche bottiglie ancora in cantina potranno avere ancora lunga vita. Un fuoriclasse. 93/100.

Soave Classico La Froscà 1988
Quarta annata nella storia della Froscà (la prima, l’ho detto, fu l’85). Naso evoluto (ovvio!), con tanta nocciola e cenni di fiore essiccato. Bocca però grassa, corposa, ricca. Frutta secca, spezie in rilievo (noce moscata, soprattutto, come nel 2002). Frutto dolce, rotondo, ancora succoso. Forse non avrà ancora molta vita, ma così com’è adesso dà soddisfazione. Dice Sandro Gini che ne aveva aperto una bottiglia qualche giorno prima e s’era dimostrata meglio del ’90. Complimenti. Questa, comunque, 87/100.

Per finire. La Froscà ha dato gran prova di sé. S’è dimostrata quel che sappiamo: bellissima espressione del Soave, uno dei benchmark del territorio, uno di quei capisaldi cui si deve far riferimento quando si voglia capire il bianco soavese. E il Soave s’è dimostrato quel che da anni credo: bianco che nelle migliori espressioni può sfidare gli anni. Peccato sia così difficile trovare annate vecchie: pochi produttori conservano in Italia loro «archivi» di vino, i ristoranti neanche a parlarne (in fondo li capisco, ché molti clienti sarebbero contenti di trovare già in tavola l’annata ancora da vendemmiare, tant’è la mania del bianco giovane). Qualcosa sta cambiando, però: che si diventi adulti?

venerdì 9 settembre 2005

Vendemmia del secolo? Ma per piacere...

Angelo Peretti
Non ne posso più. Amici, conoscenti, gente incontrata in quest’e quella degustazione, mi fanno la stessa domanda: «È vero che il 2005 è un’annata eccezionale per il vino?». E cosa volete che ne sappia io, visto che da qui ad avere il primo vino mancano ancora mesi, e per quelli più importanti ci vuole una vita. Tutto perché telegiornali, quotidiani, siti on line e chi più ne ha più ne metta hanno diffuso festosi la notizia: «La vendemmia 2005 sarà di grande qualità». Come l’anno scorso e l’anno prima (e il caldo torrido che aveva cotto l’uva in vigna?) e l’anno prima ancora (e le grandinate del 2002?). Intanto, neppure un grappolo era ancora stato staccato dalla vigna. Evidentemente, c’è chi ha la sfera di cristallo. Così è la solita storia: prima che si cominci a raccogliere, c’è chi annuncia ai quattro venti come sarà il vino della nuova annata. Che per forza sarà straordinaria, la migliore del secolo. Ma per piacere!
Capisco che da più parti, nel mondo della produzione, ci sia l’interesse a cercare di tener su il prezzo delle uve, soprattutto in anni di magra come questi ultimi. Però non è creando false aspettative che si fa il bene del vignaiolo. Anzi: spesso capita il contrario. Perché se qualcuno predica che l’annata tale sarà strepitosa, poi il consumatore - e prima di lui il grande buyer - non sarà disposto ad accettare dei vini «soltanto» buoni. E se verrà (in tanti casi, inevitabilmente) disilluso, abbandonerà quel vino, quella doc. Così alla fine a rimetterci sarà Pantalone, il contadino, che l’anno dopo vedrà il prezzo delle sue uve (magari stavolta buonissime) cadere ancora più in basso.
Vedo adesso anch’io uno dei tanti comunicati del genere giunti nella mia casella email. Dice, dopo l’immancabile annuncio di eccezionalità dell’attesa vendemmia 2005, che «la qualità sarà tra le migliori degli ultimi anni e potrà sicuramente superare quella del 2001, con diffuse punte di eccellenza come nel 1997». Bene: a questi signori vorrei domandare la prossima combinazione vincente del Superenalotto. La dovrebbero sapere semplicemente guardando una ricevitoria, se dando uno sguardo ai vigneti prima della vendemmia riescono non solo a spiegarmi che il vino sarò buono, ma addirittura a far confronti con le bottiglie di altre annate. E io che pensavo che per valutare un vino occorresse assaggiarlo. Illuso: basta un’occhiata alla vigna fra agosto e settembre. E se poi piove a dirotto? E intanto piove. Se grandina? Intanto qui e là grandina. Se arriva il marciume? E qui e là, guarda caso, è arrivato.
Se, se, se: sono tante le variabili che determinano l’evoluzione di un’annata dopo aver semplicemente «pesato» la quantità d’uva sulla vigna. Ma i profeti dell’annata questo fanno: tanta uva uguale annata ottima, un po’ meno uva uguale annata straordinaria. Ripeto: ma per piacere!
Che poi, sia chiaro, mica voglio dire che sarà un'annata da buttare. Difficile, certo. Ma è presto per trarre giudizi.

sabato 27 agosto 2005

Fate largo al nuovo Groppello

Angelo Peretti
Che dire del Groppello? Quasi sconosciuto fuori dai luoghi d’origine, questo rosso appartiene totalmente al panorama d’esperienza della riva occidentale del Garda, quella lombarda, bresciana. Con lo spiedo, forma un sodalizio che è culturale prima ancora che gastronomico. Perché l’uno e l’altro, il vino e il cibo, hanno in sé un’impronta di rusticità e di selvaticità inusuali quasi per l’area. Probabilmente ultimo retaggio barbarico, dei tempi in cui la caccia era prima di tutto ostentazione di potere.
Ecco, è forse il sapere un po’ sempre di selvatico una delle prerogative vincenti del Groppello in questi anni che seguono la moda dei rossi morbidi e concentrati, quasi dolci. Perché è vero che questo rosso rivierasco sa di piccolo frutto, di fragola in particolare, ma non perde mai comunque la sua vena di vegetalità, quasi di pampino spezzato, e di mineralità, che è data dai terreni, depositati e poi rimestati dai ghiacciai in cerchi concentrici di morene, o dai depositi alluvionali lasciati dai torrenti che tagliano verticalmente l’anfiteatro naturale della Valtenesi.
Il variare dei suoli e dell’altimetria, e quindi del microclima, inducono diversità nel vino, quasi impercettibili al profano, eppure tipicizzanti, che meriterebbero d’essere davvero esaltate dal lavoro in vigna e in cantina.
Ora, quali provare di Groppelli per capirne le potenzialità? Darò tre consigli. Vini che hanno spiccata personalità. E ambizione.
Il primo è il rosso di punta del bastian contrario della riva lombarda del lago (pensare che è ancora fedele alla vecchia doc Riviera del Garda Bresciano: mai passato alla nuova denominazione del Garda Classico). Il Groppello in questione è il Sulèr 2001 di Gianfranco Comincioli, sindaco, tra l’altro, della sua Puegnago. Sulle orme di papà Battista, che la tecnica l’aveva appresa in Valpolicella subito dopo la guerra, Gianfranco raccoglie tardivamente l’uva di groppello e poi la fa appassire per amplificarne la concentrazione. Ne nasce un vino riottoso a concedersi nel bicchiere: serve dargli ossigeno, tanto, perché si apra. Ma è vino longevo, che ha bisogno di anni per dare il meglio di sé: il 2001, oggi, è un fanciullino. Discusso. Ma caposcuola.
Il secondo Groppello, ancora del 2001, è la Riserva (la doc è quella del Garda Classico) del Vigneto Arzane, dei Pasini di Puegnago. Vino d’eleganza considerevole, ormai pronto da bere. Fragola e velluto: bella interpretazione. Più lo bevo, e più mi piace. L’ho potuto provare varie volte nel corso dell’ultimo anno: crescita costante con l’affinamento. L'armonia del Groppello.
L’altro, il terzo, è un 2003, il Maìm (un Garda Classico Groppello) di Imer e Mattia Vezzola: Costaripa, si chiama l’azienda. Mattia è uomo dello spumante (è enologo e general manager della Bellavista, in Franciacorta). Imer ama il groppello, il vitigno. Qualche giorno fa, incontrandolo, gli ho chiesto come andasse la stagione. «Il groppello è sano» mi ha risposto, immediatamente. Trascurando tutto il resto. Ebbene, il Maìm 2003 è buonissimo. Per nulla succube della calura di quell’annata, che diede uve surmature e vini di nessuna freschezza. Questo è succoso. Ne bevi un bicchiere e te ne vuoi subito versare un altro. La beva appagante.

sabato 30 luglio 2005

Letrari, il mezzosangue fra Trento e Verona

Angelo Peretti
Leonello Letrari si definisce un «mezzosangue». Perché è nato in terra trentina, ma al confine con Verona: a Borghetto, comune di Avio, Valdadige, un tiro di schioppo da Brentino Belluno. Poi perché veronese lo è un po’ per via della nonna paterna, che era «taliàna» della Lessinia. E veronese è stato anche il suo apprendistato vinicolo, le basi da cui s’è formato come produttore. E che produttore: uno dei grandi rinnovatori dell’enologia nazionale, uno dei padri della spumantistica trentina.
I Letrari oggi hanno cantina a Rovereto. Lui, Leonello, ha chiesto a Nereo Pederzolli, giornalista della sede Rai di Trento, cantore appassionato e passionale della «trentinità» enogastronomica, di raccontare in un libro le sue «prime» cinquantacinque vendemmie. «Viti e vini di una vita» s’intitola il volume: centotrenta pagine di ricordi. La prima vendemmia è quella del 1950: Nello, come lo chiamano gli amici, è fresco di studi all’istituto agrario di San Michele all’Adige. Presta servizio quell’anno nei vigneti del marchese Anselmo Guerrieri Gonzaga, alla tenuta San Leonardo di Avio, uno dei miti del vino italiano, allora come adesso. Poi, la voglia di misurarsi in cantina: eccolo ogni lunedì mattina in piazza Erbe, a Verona, per cercar occupazione da enologo. Il primo lavoro glielo dà un tal Melandri, che aveva affittato la cantina Poggi, ad Affi: 60 mila lire di stipendio «una cifra impensabile, quasi pazzesca». Dopo Affi, nuovo lavoro: a Negrar, alla casa vinicola Sartori, a confrontarsi coi vini di Valpolicella. Quindi il ritorno in Trentino, alla Bossi Fedrigotti, dove nel ’61 «inventa» il Fojaneghe rosso, primo taglio bordolese della provincia. Successivamente, ecco l’avventura spumantistica: fonda l’Equipe 5, per dimostrare che non di solo Ferrari vive Trento, ed è un altro successo. Infine, l’azienda di famiglia: Letrari, appunto. Oggi, un simbolo del vino trentino. «È semplicemente un uomo che ha capito come coniugare vite con vita» dice Pederzolli parlando di Nello Letrari. Mica cosa da poco.

sabato 30 aprile 2005

Un giovane Lugana di dieci anni

Angelo Peretti
Il vocabolario spiega che si chiama archetipo il modello iniziale di qualche idea. Ebbene, il Brolettino è l'archetipo del Lugana affinato nel legno. In barrique addirittura. Nato in giorni in cui mettere i bianchi in botte piccola sembrava quasi fantascienza, se non eresia. Quando uscì, fu il classico macigno gettato nello stagno: un impatto sconvolgente sul tranquillo tran tran della produzione luganista, ma anche la definitiva presa di coscienza delle potenzialità del trebbiano coltivato sulle argille della riviera gardesana. Lo produce l'azienda agricola Cà dei Frati, un paio di chilometri di là del confine fra il Veronese e il Bresciano, nel cuore della Lugana. È qui che hanno vigne e cantina i fratelli Igino, Gianfranco e Annamaria Dal Cero, gli inventori del Brolettino.
Ne ho potuto provare (e bere) tre diverse annate, insieme. È stata la dimostrazione, l'ennesima, di come i bianchi importanti sappiano invecchiare bene. Di come il Lugana sia anzi vino che nelle sue migliori espressione sa accrescere grazia e bevibilità dopo qualche anno dalla vendemmia.
Prima bottiglia stappata: il 1994. Sono passati dieci anni, eppure il Brolettino '94 è ancora scattante, giovanile. Il colore resta il classico paglierino coi suoi lampi verdi. Il legno è ben fuso nella struttura: non s'avverte più memoria distinta del passaggio in carato. Le note minerali dei terreni argillosi e le venature floreali del vitigno rendono salda la prova olfattiva. Il bocca è nervoso, d'agile beva, magari solo un po' esile. Ma niente traccia di stanchezza.
Poi è toccato al Brolettino '96, annata bianchista in senso assoluto. Il colore è giallo carico. Il naso coglie vibranti sensazioni minerali, con la grafite a tutto tondo. In bocca è grasso, cremoso, opulente quasi. Eppure l'impressione è che stavolta il legno non abbia giovato, non abbia insomma portato nulla d'aggiuntivo alla stagione e all'uva.
Terza bottiglia: il Brolettino '97. E qui ecco gli applausi a scen'aperta. Perché questo Lugana è giovanilissimo, vibrante. I sette anni d'età non glieli daresti proprio. Mineralità e vegetalità si rincorrono nei profumi. In bocca si fondono agilità e corpo. Vino di grande bevibilità. Tracce di legno il palato non le ritrova neppure. Bell'esempio di come la botte piccola possa essere usata con intelligenza sui vini bianchi. E di come il lavoro in vigna, la scelta puntigliosa dei frutti sia essenziale: ogni anno i Dal Cero fanno più vendemmia sul medesimo vigneto, selezionando grappolo su grappolo. Da qui è nato questo '97, Lugana che ha davanti ancora lunga vita.
Complimenti.