Angelo Peretti
Bravi. Stavolta bisogna proprio dirlo: bravi. Dico del Consorzio di tutela del Soave e di Bruno Donati. Che nell’ultimo fine settimana di maggio hanno mess’in piedi a Monteforte d’Alpone, comune soavista, una mostra & degustazione di vini bianchi d’antan. Nel senso che l’annata più giovane doveva essere al massimo il 2003 e ogni produttore ci doveva aggiungere un vino d’altra precedente vendemmia. Cose del genere in giro per l’Italia se ne son viste fin qui poche. O forse neanche una, prima. Posso dire? Era ora.
Già, era ora, ché – chi mi conosce lo sa – son bianchista e amo i bianch’invecchiati. E quand’un bianco ha varcato con snellezza e in forma la soglia del decennio, be’, d’emozioni ne dà tante e tante. Forse più d’un rosso. In termini d’eleganza e complessità e finezza insieme. Con una sola e non banale rogna: i bianchi che ci riescono sono – ahimè – pochi. O meglio: poche sono le terre (e le vigne) da bianco che sappiano arrivare a tanto. E soprattutto pochissimi sono, in Italia, i produttori che ci credano e abbiano in casa un archivio di bottiglie. Almeno da far assaggiare, se non proprio da vendere.
Ora, come abbia fatto il collega Bruno Donati a convincere una sfilza di cantinieri del bianco di tutt’Italia a portar due annate a Monteforte è per me un mistero. Ma l’idea è azzeccata, e spero se ne possano vedere future riproposizioni. Così come m’auguro si possano rifare wine tasting come quello che a Monteforte è stato riservato alla stampa e agli addetti ai lavori. Una degustazione di diciotto vecchi e talora vecchissimi bianchi italiani, guidata dal produttore o dall’enologo o almeno da un uomo di cantina. E di questa «degustazione storica», come l’han definita, do conto più avanti. Dicendo però subito che è stato assaggio in chiaroscuro. Anzi, più in scuro che in chiaro, ché i bianchi vetusti che mostrassero ancora giovanile slancio son stati pochetti. Si può far meglio. Ma intanto è un inizio. Buonissimo inizio.
Tutto bene il resto? A dire il vero, un peccatuccio lo si poteva evitare per questa prima – già, spero la prima d’una lunga serie – edizione. Ossia fissare come data limite il 2003. Che non è stata di certo annata ideale per il bianco, con tutta quella calura che ha cotto il frutto in vigna. E sono dunque, quelli del 2003, vini che non potranno durare granché, salvo l’eccezione, che è sempre lì dietro l’angolo ad attenderti (e su qualche bianco del 2003 ho scommesso anch’io in termini di longevità: per esempio il Lugana Riserva del Lupo di Cà Lojera). Avrei preferito si partisse dal 2004, che è annata splendida splendente (non diceva così una canzonetta di qualche bell’anno fa?), con bottiglie che hanno i numeri per superare gli anni e il decennio. E dunque poteva essere interessante giudicarne ora la giovanile baldanza a confronto con qualche fratello maggiore, potendone trarre auspici d’evoluzione futura. Vabbé, peccato veniale: sarà per l’anno che viene.
Ora, eccoci alla degustazione. Ai diciotto vecchietti. In ordine d’apparizione. Avendo a mente che, quando passano gli anni, non solo può cedere il vino, ma anche, e soprattutto, il tappo. E dunque ogni bottiglia fa storia a sé.
Langhe Chardonnay 1996 Marchesi di Gresy. Il più giovane della nidiata, ed è decenne. Vino fatt’in legno su forzata e forzuta imitazione francese e occhio volto al mercato americano. Di quest’impostazione ha tutti i limiti. Naso di mandorlato. Vaniglia e mandorla e un pochetto di miele, appunto, talché sembra proprio mandorlato di Cologna Veneta. Bocca evoluta e struttura cicciona, nocciola e legno. C’è ancora freschezza, d’accordo, ma il sentore di falegnamerie è devastante. Peccato.
Colli Euganei Pinot Bianco 1995 Vignalta. Naso agrumato e memorie di frutta secca. Accenni d’erbe officinali. Non c’è che dire: bouquet che non manca di fascino. L’agrume domina anche in bocca. Persiste una qualche freschezza, ma il vino è - credo - a fine cammino.
Verdicchio dei Castelli di Jesi Verde Cà Ruptae 1995 Moncaro. Ohi, ohi. La mia bottiglia non reggeva. Naso fermentativo, yogurth in bocca. Spero sia andata meglio agli altri tavoli.
Verdicchio dei Castelli di Jesi Villa Bucci 1995 Bucci. Il Villa Bucci ha fatto la storia del «nuovo» Verdicchio. Mi si dice che ci sono bottiglie di più anni in forma smagliante, e anche quella che ho assaggiato non era male, pur con la legnosa presenza che andava di moda nel mezzo degli anni Novanta. Più che l’olfatto (naso un po’ stanco, unica nota di slancio una nuance di clorofilla, che è peraltro bel segno) è interessante il palato. Frutto giallo polposo e maturo, vene minerali, buon corpo. Peccato che sul finale il falegname prevalga.
Soave Classico Monte Carbonare 1995 Suavia. Non è un fuoriclasse, ma ci sta. Nel senso che è ancora bevibile. All’olfatto porge un mix di frutto giallo e pietra focaia: è il terroir delle terre basaltiche di Soave. In bocca c’è struttura invidiabile e ancora discreta freschezza. Pecca invece in ampiezza aromatica. Ma potrebb’essere solo la mia bottiglia. A proposito: di Suavia, assaggiata, nelle stessa giornata, una bottiglia del Soave Le Rive 2002, che è wonderful, wonderful wine.
Collio Sauvignon Gmajne 1994 Primosic. Niente da fare, per la mia bottiglia. Ossidata. Game over. Pace.
Verdicchio dei Castelli di Jesi Balciana 1994 Sartarelli. Altro Verdicchio di quelli che han rinnovato la denominazione. Al naso non ha grande vigore, ma la bocca è ancora piacevole, ammesso vi piaccia lo stile personalissimo di questo vino, che ha sempre puntato alla concentrazione del frutto e a una certa qual vena di dolcezza. E in effetti è ancora grasso e dolcetto – e ci sono ricordi di dolci tedeschi alla cannella e di fichi conservati nel brandy -, ma sul corpo ciccione s’innesta una mineralità scattante. Non male, davvero.
Soave Classico La Rocca 1993 Pieropan. Da standing ovation, da applauso lungo lungo, da trasfusione in vena. Agile, scattante, nervoso, eppure anche complesso ed elegante. Un gioiello. Il migliore della degustazione, e da solo valeva il viaggio e il tempo. Bellissimo già dal colore verde oro. Bouquet splendidamente in equilibrio fra vena vegetale e nota minerale, eppoi il fior di glicine e la mela ancora asprigna e la susina gialla. Che naso, ragazzi. E la bocca, ah, la bocca! Ampia, giovanile, fresca. E una lunghezza appagante e succosa e sapida. Complimenti, maestro Nino. Questo sì che dimostra che si possono far splendidi bianchi longevi.
Alto Adige Terlano Pinot Bianco Vorberg 1993 Cantina di Terlano. Ullallà, altro bel vinello. Ha agrumi a cassette nei profumi: il cedro, soprattutto. E poi la venatura di mineralità, intrigante. Elegante e giovanile. In bocca torna l’agrume, e anche il minerale, per null’aggressivo, però. Ed anzi le due note quasi rimbalzano, s’alternano, giocano. È vino ancora di bella freschezza. Buono buono.
Vernaccia di San Gimignano 1993 Panizzi. Due bottiglie provate. La prima: legno dominante e vena ossidativa. La seconda, un po’ meglio: qualche maggior pulizia olfattiva e una bocca tesa e fresca ancora, ma anche qui vince, stravince il legname. Son vini che han fatto storia, ma forse oggi appartengono, appunto, alla storia.
Alto Adige Gewürztraminer 1992 Hoffstätter. E invece questo è il terzo vino che riberrei delle degustazione, insieme a Pieropan e Terlano. Ha tuttora naso sontuosamente aromatico. Sulla persistenza agrumata s’innestano il petalo di rosa appassito e la cannella finissima. La bocca è secca, tanto diversa dai Gewürztraminer d’oggidì. Tensione gustativa. Vabbé, non c’è l’ampiezza d’aromi percepita all’olfatto, e pure appare vino un po’ magro di corpo e semplice. Ma ha freschezza invidiabile e vena perfino vegetale e comunque lunghezza di tutto rispetto.
Chardonnay 1990 Maculan. Avevo Fausto Maculan come compagno di tavolo, ed è un piacere degustare insieme con lui. Ha, questo suo vecchio Chardonnay, naso burroso, com’è tipico, appunto degli Chardonnay fatti nel legno e poi a lungo invecchiati. E credo sia vino che dà ancora soddisfazione, se la bottiglia è a posto. Quella che m’è toccata in sorte aveva – ahimè – un problemuccio di tappo. Sarà, spero, per un’altra volta.
Gavi Pilin 1990 Castellari Bergaglio. Peccato per quelle oppressive note di legno. Peccato, perché c’è ancora tensione e freschezza e vena minerale. Certo, c’è anche un po’ troppa ciccia e potenza, e questo rompe l’equilibrio. Fa però intuire quanto sia sottostimata l’area bianchista del Gavi. Da approfondire.
Collio Pinot Bianco 1987 Buscemi. Gaspare Buscemi è uno che non cerca mediazioni, e che i bianchi li fa sapendo che possono invecchiare. Sembra banale, ma non è così, ché un bianco da invecchiamento deve avere tutta una dota di prerogative che ne permettano, appunto, la longevità. Ora, questo Pinot Bianco è invecchiato, se non benissimo, almeno benino, e certamente doveva essere uno splendore fino a un quinquennio fa. Ora tradisce un po’ la stanchezza, ma ancora si beve. Ha colore d’oro verde e naso stranissimo, rustico. Vegetale e agrumato insieme, rusticamente, appunto, insieme. Manca di finezza, ma intriga. La bocca è magra, ma anche vibrante. Finisce dolcino, e in effetto il residuo era di già elevato in partenza.
Soave Classico La Froscà 1985 Gini. Che il crû della Froscà sia un Soave dalle notevoli potenzialità in termini di vita è noto, almeno per me, che ho potuto guidarne una verticale con Sandro Gini un annetto fa. L’85 fu la prima annata in assoluto, e ritrovarla a così lunga distanza dà emozioni. Il vino all’epoca non aveva la grassezza che avrebbe poi assunto, e questo dovrebbe magari far riflettere un po’. Ovvio che oggi non è più in forma smagliante, ma ancora si beve e con una buona dose di piacere, ed è l’ennesima riprova che il Soave è un vino che sa invecchiare. Ha colore dorato pallido, naso esilmente speziato, tracce mandorlate, sottili memorie di mela matura ed essiccata. La bocca è magrolina ma ancora dotata di apprezzabile freschezza. Un pelo di stanchezza, ma sono convinto che qualche bottiglia sia meglio ancora di quella che ho provato io.
Chardonnay Cabreo La Pietra 1985 Tenute Folonari. Fu, questo Chardonnay toscano, uno dei padri dei bianchi moderni, che si volevano alla francese, nel senso ch’erano affinati lungamente in barrique, e che invece strizzavano l’occhio al mercato americano e alla sua critica che faceva, appunto, mercato. Sia detto chiaro: se amate il vino che ha una dominante di legno, allora questo fa per voi, nonostante l’età ormai vetusta. Se volete la pulizia del frutto, lasciate perdere. Il colore dorato è traversato da lampi verdi. Il naso riesce a trasmettere l’idea varietale, con quella sua nota quasi medicinale, cui si sommano i sentori evoluti della frutta secca. Ma la bocca cede subito al legno, che è persistente assai.
Gewürztraminer 1967 Giorgio Grai. Una chicca. Una riserva che Giorgio Grai, uno dei più grandi fra i wine maker italiani, tiene tutta per sé, per gli amici suoi. Tant’è che l’ha voluta servire personalmente ai tavoli. E, permettete, m’ha un po’ commosso che me n’abbia versata doppia razione, dopo che avevamo ragionato insieme dei bianchi che s’invecchiano. Badate: 1967. E in quegli anni in Alto Adige non c’era tecnologia. L’uva contava, e basta. E c’erano varietà di traminer – racconta Grai – che oggi son pressoché scomparse, a grappolo spargolo, di poca produzione. Ha, il vino, affascinante, limpidissima, brillante doratura. Il naso, ah, il naso è d’un fascino grande. La rosa appassita, la mela secca, il fico surmaturato – quello che fa la lacrimuccia zuccherina -, la spezia dei dolcetti tedeschi. La bocca, quella ha la sua età, eppure la beva è ancora invitante e pulita ed elegante anch’essa, pur magretta. Nonostante i quasi quarant’anni.
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