Angelo Peretti
Non so quale sia il termine corretto per definirlo. Forse flashback. Non so neppure se si tratti d’una mezza malattia, o qualcosa che ha a che fare con la psiche. Non lo so e non m’interessa, ma succede.
Intendo questo: v’è mai occorso di compiere un gesto, un’azione, e d’aver in quel preciso istante l’impressione d’aver già vissuto in precedenza quel momento? Come se vi vedeste in uno schermo? A me capitava da ragazzino, e ne ero colpito. Poi non è più accaduto per anni ed anni. Ma qualche cosa del genere m’è successo di recente davanti a un vino. L’ho bevuto e ho avuto come la sensazione di conoscerlo da sempre. Eppure mai era stato così. E mai prima ne avevo assaggiato questa nuova annata.
Premonizione? Macché: la spiegazione è più semplice. Semplicemente, me l’aspettavo che prima o poi così l’avrei trovato.
Il vino in questione è il Quaiare 2003 di Matilde Poggi, aziend’agricola Le Fraghe, Cavaion Veronese. Di lei, del suo modo di far vino, n’ho già parlato in passato a proposito del Bardolino, che trovo da almeno tre anni molto buono e soprattutto capace di proporre una precisa, ben delineata continuità stilistica. Ma la sua bottiglia di punta è considerata da molti invece il Quaiare, un cabernet (sauvignon più franc).
Ebbene sì, il Quaiare era ed è gran vino. Ben fatto. Seducente, anche. E le annate del 2000 e del 2001 sono state osannate - con piena ragione - dalla critica. Per quel che conta, ne ho scritto bene anch’io da qualche parte. Ma non era quello il vino di cui sapevo capace frau Poggi. Nossignori: la sua vena era (ed è) altra, ed altro rosso m’aspettavo che uscisse. Ed ora è uscito, alla buon’ora. Non so se piacerà altrettanto a chi l’assaggerà. Non pretendo neppure che si dica ch’è il miglior Quaiare di sempre. Ma questo è vino che parla. E che apre nuove prospettive nella zona. Un benchmark.
Che cos’è che non mi quadrava del tutto in un bel rosso come il Quaiare dell’altre annate? Dico subito: non mi tornava la sua lontananza di stile da quell’altro rosso di casa Le Fraghe che mi piaceva, il meno nobile, ma succosissimo, godibile, friendly Bardolino, che si beve e ribeve con piacere e passione. Era invece, il cabernet, vino elegante e denso e importante, ma un po’ (solo un po’, convengo) alla moda. Quella moda, intendo, che ha creduto – ah, ‘sti americani cosa ci han fatto fare! - che la concentrazione fosse potenza e frutto frutto frutto e tannino. Per cogliere applauso a scen’aperta. E invece, dico io, concentrazione corretta è - dev’essere - finezza e armonia e beva estrema. Vino che stappi e finisci. Che non resta a metà nel bicchiere.
Ecco, ora il Quaiare ha cambiato il passo, e parla la nuova lingua. Il vetro resta presto vuoto sulla tavola. Pensare che il mutamento di stile è avvenuto nell’annata che non t’aspetti: quel 2003, così caldo che il frutto è surmaturato in vigna. Ma come - pensi – in un anno del genere ‘sto cabernet svolta di brutto e si fa più esile e più succoso e più agile e più immediato? Dove sta l’arcano?
Non solo: se il passaggio di campo è avvenuto nell’anno della calura, quando in altra direzione portava l’uva cotta dal sole, allora non può dirsi figlio del caso questo nuovo Quaiare. Ma è invece vino voluto. È cercato. Creato con rigore anche di fronte alla difficoltà d’una estate troppo calda.
Che cos’è dunque accaduto in terra cavaionese perché si facesse un simil vino? Non lo so, e non lo chiedo all’interessata, se pensate che il mistero si spieghi con la tecnica. Semplicemente, la tecnica non m’interessa, così come non trovo importante sapere quale sia - scientificamente parlando - l’origine di quei flashback di cui dicevo in apertura di pezzo. Sono convinto che non sia la conduzione di vigna o di cantina ad aver dato origine al mutamento. O meglio: se qualcosa tecnicamente è cambiato - ed è cambiato, fosse solo nell’uso del legno - quest’è solo lo strumento della mutazione vera. Il cambiamento è altrove. È nel pensiero. Nel pensare il vino. E - guarda caso - è dallo stesso 2003 che anche il Bardolino delle Fraghe è cambiato ed ha assunto nuova e costante fisionomia.
Dico schietto: ho l’impressione che la signora abbia fatto una scelta di campo. Che Matilde abbia deciso da che parte stare, sulla barricata. Fra il mostrare se stessa e il seguire il mercato. Ed ha scelto se stessa. Perché adesso i suoi rossi, il Bardolino e il Quaiare, parlano una medesima lingua. Ed è lingua che cerca finezza d’approccio all’olfatto e al palato. Che rifugge dal muscolo. Che asseconda e racconta il terroir, come insieme di vigna e di suolo e di vento e di piogge e di sole e di storia e di mente e di cuore e di vita. La tecnica è un accessorio.
N’ero convinto che qui sarebbe arrivata. Lo diceva quel suo Bardolino che ha segnato costanza di passo nell’ultime tre vendemmie. Che non cerca il colore marcato ma è contento d’indossare la veste cucita in vigneto. Che non vuole irritanti pienezze. Che si porge quand’è lui che decide d’esser maturo, e non importa se è un mese o un anno dopo il passaggio in bottiglia. Che pretende d’essere se stesso, punto e basta. Ecco: il Quaiare 2003 è esattamente - finalmente - questo, è il fratello maggiore del rosso bardolinista. Figli dello stesso terroir, fatto di terra e vigna e umanità. E pazienza se altri non saranno d’accordo.
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