Angelo Peretti
È vero, verissimo. È il tempo del grignano. Trionfa quest’olivo dell’est della provincia veronese, considerato per tanto tempo una sorta di mezza cartuccia delle cultivar italiche. Invece no: quest’è un fuoriclasse. Era solo incompreso, tutto qui. Adesso trionfa. Dovunque e comunque. Sia lode alla biodiversità.
Ne ho già parlato dicendo del successo d’Osvualdo Del Fabbro e del suo monocultivar che ha conquistato – prima volta che accade al Nord – le tre olive di Slow Food. Un altr’extravergine a base di grignano, quello di Giovanni Salvagno – una sorta di classico del genere dolce -, ha ottenuto le cinque gocce – massima valutazione – dall’altra guida, quella dell’Associazione italiana dei sommelier dell’olio. Ora, ecco il verdetto del Sirena d’Oro, il concorso dei dop nazionali che s’è tenuto a Sorrento: primo e terzo nella graduatoria degli oli dal fruttato leggero due extravergini della denominazione Veneto Valpolicella. Tutt’e due a base, essenzialmente, d’olive di grignano. Al vertice assoluto quello della Cantina Valpantena (e bravo a Luca Degani, che sa il fatto suo in campo enoico e anche in quello olivario) e sul podio anche quello di Giancarlo Bonamini (e bravissimo anche lui, che è punto di riferimento della rinascita oleicola della Val d’Illasi).
Insomma: il grignano piace. Fa tendenza. Strappa applausi. Pensare che c’era chi lo voleva estirpare, eliminare, distruggere. Invece è il momento suo. E tutta la porzione orientale della terra scaligera ne fa un emblema. Con un vantaggio tutto da sfruttare, ché il grignano vive e fruttifica solo su suoli valpolicellesi.
N’avevo scritto, della rinascita del grignano, qualche settimana fa su L’Arena, sulla pagina del Gusto: mi ospita l’amicizia di Morello Pecchioli. che ne è responsabile. Per chi non l’avesse letto – e non pretendo d’esser per forza letto – ripubblico qui di seguito quel testo.
«Come nella fiaba del brutto anatroccolo. Il pulcino che pareva disgraziato è diventato l’elegantissimo, nobile cigno. E se n’è volato in alto. Ecco, col Grignano è successa una cosa del genere. E qui va chiarito subito che quando diciamo Grignano, intendiamo una varietà d’olivo coltivata nel territorio veronese. In Valpolicella, in particolare. O meglio, in tutta la fascia collinare ai piedi dei Monti Lessini. È qui la patria di quest’ulivo particolare. Amato e odiato, nel corso della storia, dagli olivicoltori. Amato perché sa resistere al freddo e alle malattie e regala una produzione piuttosto elevata nelle annate migliori, ma odiato perché le sue olive offrono una bassa resa in olio. Tant’è che da più parti è considerato una cultivar (è il termine che tecnicamente identifica le varietà delle piante coltivate) di basso profilo. Da disincentivare nelle scelte di campagna, se non addirittura da espiantare. Insomma: il brutto anatroccolo rispetto alla ben più produttiva pianta del Favarol, l’altro olivo classico valpolicellese.
Non solo: il Grignano è una brutta bestia perché non sai mai esattamente individuare il momento di miglior qualità delle sue olive. Ci spieghiamo: l’attimo fuggente, quello di valore assoluto per l’oliva, è quando il frutto comincia a cambiare appena appena colore. La prima coloritura è quella che i tecnici chiamano invaiatura superficiale: è la fase in cui l’oliva contiene il miglior olio della stagione. Quando il frutto diventa tutto nero, allora l’olio che vi è contenuto è troppo avanti di maturità, e quindi di minor valore organolettico e salutistico. Di solito, il passaggio di colore è graduale. Il problema è che il Grignano fino a oggi è verde e domani te lo trovi interamente nero. Il che rende difficile regolarsi.
L’idea del Grignano come varietà di second’ordine è diffusa. In un recente volume sull’extravergine, ancora si scrive: “La resa in olio è modesta e la sua qualità è considerata inferiore a quella dell’olio delle altre cultivar locali”. Invece, ecco la sorpresa. Quest’anno le due maggiori guide nazionali dedicate all’extravergine hanno premiato col loro massimo riconoscimento uno e un solo olio del Veneto, e in entrambi i casi si tratta d’un olio di Grignano. La “Guida agli extravergini” di Slow Food ha assegnato le tre olive (il più alto gradino del podio) al monocultivar Grignano denocciolato di Bio Azzurra, la minuscola etichetta olearia di Osvualdo Del Fabbro, produttore biologico di Mezzane di Sotto. Ed un altro Grignano, quello di Giovanni Salvagno, frantoio veronese della contrada di Nesente, in Valpantena, ha ottenuto le cinque gocce (il premio più ambito) sulla guida “L’olio” dell’Associazione Italiana Sommelier dell’Olio, edita da Bibenda. E, si badi, sono oli diametralmente opposti come filosofia produttiva. Il primo è d’impostazione ultramoderna e punta alla potenza, alla personalità estrema, l’altro risponde a tradizionali canoni di morbidezza, di dolcezza. Eppure sia che si privilegi la tradizione, sia che si opti per la modernità, è un Grignano a dominare, lasciando al palo il resto degli oli veneti.
Il salto di qualità è stato reso possibile da un cambiamento di mentalità. Si è cercato di comprendere i pregi e i difetti del Grignano e di ridurre al minimo i tempi fra la raccolta delle olive e la loro frangitura. Più è breve lo spazio temporale che intercorre, più l’extravergine conserva qualità. Più s’allunga l’intervallo, meno interessante sarà l’olio. Sembra banale, ma non è così, perché arcaiche convinzioni inducono purtroppo ancora oggi molti olivicoltori ad aspettare giorni e giorni prima di portare le olive alla molitura. Certamente, una grossa mano l’ha data anche il riconoscimento della dop (la denominazione d’origine protetta) per l’extravergine Veneto Valpolicella, che ha il Grignano fra le varietà caratterizzanti. Sia come sia, il Grignano sta convincendo. E, si badi, quelli di Bio Azzurra e di Salvagno non sono casi isolati. Sulla guida di Slow Food, dei quattordici oli veneti che hanno ottenuto le due olive (appena un gradino dunque sotto il podio, ma comunque a livelli ben alti di qualità), ben sette – la metà – sono ottenuti, in tutto o in ampia parte, da olive di Grignano. E tutti e sette provengono dal tratto più ad est della provincia di Verona.
Che cos’ha dunque di così particolare questa varietà per essere diventata d’improvviso una sorta di fiore all’occhiello dell’olivicoltura scaligera? La risposta è in una caratteristica peculiare degli oli che se ne traggono: una sensazione affascinante, piacevolissima ed elegante di agrumi, che nelle interpretazioni più moderne richiama addirittura i toni accesi della buccia e della foglia di limone. Un aroma, in questi casi, così intenso e persistente che bastano poche gocce d’olio per dare slancio ad un piatto. Una sorta di esaltatore naturale di sapidità. Ricco di valore organolettico, ma anche di componenti salutari. Quasi un farmaco in gocce. Altro che brutto anatroccolo».
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