lunedì 29 maggio 2006

Quei bianchi vecchietti che battono gli anni

Angelo Peretti
Bravi. Stavolta bisogna proprio dirlo: bravi. Dico del Consorzio di tutela del Soave e di Bruno Donati. Che nell’ultimo fine settimana di maggio hanno mess’in piedi a Monteforte d’Alpone, comune soavista, una mostra & degustazione di vini bianchi d’antan. Nel senso che l’annata più giovane doveva essere al massimo il 2003 e ogni produttore ci doveva aggiungere un vino d’altra precedente vendemmia. Cose del genere in giro per l’Italia se ne son viste fin qui poche. O forse neanche una, prima. Posso dire? Era ora.
Già, era ora, ché – chi mi conosce lo sa – son bianchista e amo i bianch’invecchiati. E quand’un bianco ha varcato con snellezza e in forma la soglia del decennio, be’, d’emozioni ne dà tante e tante. Forse più d’un rosso. In termini d’eleganza e complessità e finezza insieme. Con una sola e non banale rogna: i bianchi che ci riescono sono – ahimè – pochi. O meglio: poche sono le terre (e le vigne) da bianco che sappiano arrivare a tanto. E soprattutto pochissimi sono, in Italia, i produttori che ci credano e abbiano in casa un archivio di bottiglie. Almeno da far assaggiare, se non proprio da vendere.
Ora, come abbia fatto il collega Bruno Donati a convincere una sfilza di cantinieri del bianco di tutt’Italia a portar due annate a Monteforte è per me un mistero. Ma l’idea è azzeccata, e spero se ne possano vedere future riproposizioni. Così come m’auguro si possano rifare wine tasting come quello che a Monteforte è stato riservato alla stampa e agli addetti ai lavori. Una degustazione di diciotto vecchi e talora vecchissimi bianchi italiani, guidata dal produttore o dall’enologo o almeno da un uomo di cantina. E di questa «degustazione storica», come l’han definita, do conto più avanti. Dicendo però subito che è stato assaggio in chiaroscuro. Anzi, più in scuro che in chiaro, ché i bianchi vetusti che mostrassero ancora giovanile slancio son stati pochetti. Si può far meglio. Ma intanto è un inizio. Buonissimo inizio.
Tutto bene il resto? A dire il vero, un peccatuccio lo si poteva evitare per questa prima – già, spero la prima d’una lunga serie – edizione. Ossia fissare come data limite il 2003. Che non è stata di certo annata ideale per il bianco, con tutta quella calura che ha cotto il frutto in vigna. E sono dunque, quelli del 2003, vini che non potranno durare granché, salvo l’eccezione, che è sempre lì dietro l’angolo ad attenderti (e su qualche bianco del 2003 ho scommesso anch’io in termini di longevità: per esempio il Lugana Riserva del Lupo di Cà Lojera). Avrei preferito si partisse dal 2004, che è annata splendida splendente (non diceva così una canzonetta di qualche bell’anno fa?), con bottiglie che hanno i numeri per superare gli anni e il decennio. E dunque poteva essere interessante giudicarne ora la giovanile baldanza a confronto con qualche fratello maggiore, potendone trarre auspici d’evoluzione futura. Vabbé, peccato veniale: sarà per l’anno che viene.
Ora, eccoci alla degustazione. Ai diciotto vecchietti. In ordine d’apparizione. Avendo a mente che, quando passano gli anni, non solo può cedere il vino, ma anche, e soprattutto, il tappo. E dunque ogni bottiglia fa storia a sé.

Langhe Chardonnay 1996 Marchesi di Gresy. Il più giovane della nidiata, ed è decenne. Vino fatt’in legno su forzata e forzuta imitazione francese e occhio volto al mercato americano. Di quest’impostazione ha tutti i limiti. Naso di mandorlato. Vaniglia e mandorla e un pochetto di miele, appunto, talché sembra proprio mandorlato di Cologna Veneta. Bocca evoluta e struttura cicciona, nocciola e legno. C’è ancora freschezza, d’accordo, ma il sentore di falegnamerie è devastante. Peccato.

Colli Euganei Pinot Bianco 1995 Vignalta. Naso agrumato e memorie di frutta secca. Accenni d’erbe officinali. Non c’è che dire: bouquet che non manca di fascino. L’agrume domina anche in bocca. Persiste una qualche freschezza, ma il vino è - credo - a fine cammino.

Verdicchio dei Castelli di Jesi Verde Cà Ruptae 1995 Moncaro. Ohi, ohi. La mia bottiglia non reggeva. Naso fermentativo, yogurth in bocca. Spero sia andata meglio agli altri tavoli.

Verdicchio dei Castelli di Jesi Villa Bucci 1995 Bucci. Il Villa Bucci ha fatto la storia del «nuovo» Verdicchio. Mi si dice che ci sono bottiglie di più anni in forma smagliante, e anche quella che ho assaggiato non era male, pur con la legnosa presenza che andava di moda nel mezzo degli anni Novanta. Più che l’olfatto (naso un po’ stanco, unica nota di slancio una nuance di clorofilla, che è peraltro bel segno) è interessante il palato. Frutto giallo polposo e maturo, vene minerali, buon corpo. Peccato che sul finale il falegname prevalga.

Soave Classico Monte Carbonare 1995 Suavia. Non è un fuoriclasse, ma ci sta. Nel senso che è ancora bevibile. All’olfatto porge un mix di frutto giallo e pietra focaia: è il terroir delle terre basaltiche di Soave. In bocca c’è struttura invidiabile e ancora discreta freschezza. Pecca invece in ampiezza aromatica. Ma potrebb’essere solo la mia bottiglia. A proposito: di Suavia, assaggiata, nelle stessa giornata, una bottiglia del Soave Le Rive 2002, che è wonderful, wonderful wine.

Collio Sauvignon Gmajne 1994 Primosic. Niente da fare, per la mia bottiglia. Ossidata. Game over. Pace.

Verdicchio dei Castelli di Jesi Balciana 1994 Sartarelli. Altro Verdicchio di quelli che han rinnovato la denominazione. Al naso non ha grande vigore, ma la bocca è ancora piacevole, ammesso vi piaccia lo stile personalissimo di questo vino, che ha sempre puntato alla concentrazione del frutto e a una certa qual vena di dolcezza. E in effetti è ancora grasso e dolcetto – e ci sono ricordi di dolci tedeschi alla cannella e di fichi conservati nel brandy -, ma sul corpo ciccione s’innesta una mineralità scattante. Non male, davvero.

Soave Classico La Rocca 1993 Pieropan. Da standing ovation, da applauso lungo lungo, da trasfusione in vena. Agile, scattante, nervoso, eppure anche complesso ed elegante. Un gioiello. Il migliore della degustazione, e da solo valeva il viaggio e il tempo. Bellissimo già dal colore verde oro. Bouquet splendidamente in equilibrio fra vena vegetale e nota minerale, eppoi il fior di glicine e la mela ancora asprigna e la susina gialla. Che naso, ragazzi. E la bocca, ah, la bocca! Ampia, giovanile, fresca. E una lunghezza appagante e succosa e sapida. Complimenti, maestro Nino. Questo sì che dimostra che si possono far splendidi bianchi longevi.

Alto Adige Terlano Pinot Bianco Vorberg 1993 Cantina di Terlano. Ullallà, altro bel vinello. Ha agrumi a cassette nei profumi: il cedro, soprattutto. E poi la venatura di mineralità, intrigante. Elegante e giovanile. In bocca torna l’agrume, e anche il minerale, per null’aggressivo, però. Ed anzi le due note quasi rimbalzano, s’alternano, giocano. È vino ancora di bella freschezza. Buono buono.

Vernaccia di San Gimignano 1993 Panizzi. Due bottiglie provate. La prima: legno dominante e vena ossidativa. La seconda, un po’ meglio: qualche maggior pulizia olfattiva e una bocca tesa e fresca ancora, ma anche qui vince, stravince il legname. Son vini che han fatto storia, ma forse oggi appartengono, appunto, alla storia.

Alto Adige Gewürztraminer 1992 Hoffstätter. E invece questo è il terzo vino che riberrei delle degustazione, insieme a Pieropan e Terlano. Ha tuttora naso sontuosamente aromatico. Sulla persistenza agrumata s’innestano il petalo di rosa appassito e la cannella finissima. La bocca è secca, tanto diversa dai Gewürztraminer d’oggidì. Tensione gustativa. Vabbé, non c’è l’ampiezza d’aromi percepita all’olfatto, e pure appare vino un po’ magro di corpo e semplice. Ma ha freschezza invidiabile e vena perfino vegetale e comunque lunghezza di tutto rispetto.

Chardonnay 1990 Maculan. Avevo Fausto Maculan come compagno di tavolo, ed è un piacere degustare insieme con lui. Ha, questo suo vecchio Chardonnay, naso burroso, com’è tipico, appunto degli Chardonnay fatti nel legno e poi a lungo invecchiati. E credo sia vino che dà ancora soddisfazione, se la bottiglia è a posto. Quella che m’è toccata in sorte aveva – ahimè – un problemuccio di tappo. Sarà, spero, per un’altra volta.

Gavi Pilin 1990 Castellari Bergaglio. Peccato per quelle oppressive note di legno. Peccato, perché c’è ancora tensione e freschezza e vena minerale. Certo, c’è anche un po’ troppa ciccia e potenza, e questo rompe l’equilibrio. Fa però intuire quanto sia sottostimata l’area bianchista del Gavi. Da approfondire.

Collio Pinot Bianco 1987 Buscemi. Gaspare Buscemi è uno che non cerca mediazioni, e che i bianchi li fa sapendo che possono invecchiare. Sembra banale, ma non è così, ché un bianco da invecchiamento deve avere tutta una dota di prerogative che ne permettano, appunto, la longevità. Ora, questo Pinot Bianco è invecchiato, se non benissimo, almeno benino, e certamente doveva essere uno splendore fino a un quinquennio fa. Ora tradisce un po’ la stanchezza, ma ancora si beve. Ha colore d’oro verde e naso stranissimo, rustico. Vegetale e agrumato insieme, rusticamente, appunto, insieme. Manca di finezza, ma intriga. La bocca è magra, ma anche vibrante. Finisce dolcino, e in effetto il residuo era di già elevato in partenza.

Soave Classico La Froscà 1985 Gini. Che il crû della Froscà sia un Soave dalle notevoli potenzialità in termini di vita è noto, almeno per me, che ho potuto guidarne una verticale con Sandro Gini un annetto fa. L’85 fu la prima annata in assoluto, e ritrovarla a così lunga distanza dà emozioni. Il vino all’epoca non aveva la grassezza che avrebbe poi assunto, e questo dovrebbe magari far riflettere un po’. Ovvio che oggi non è più in forma smagliante, ma ancora si beve e con una buona dose di piacere, ed è l’ennesima riprova che il Soave è un vino che sa invecchiare. Ha colore dorato pallido, naso esilmente speziato, tracce mandorlate, sottili memorie di mela matura ed essiccata. La bocca è magrolina ma ancora dotata di apprezzabile freschezza. Un pelo di stanchezza, ma sono convinto che qualche bottiglia sia meglio ancora di quella che ho provato io.

Chardonnay Cabreo La Pietra 1985 Tenute Folonari. Fu, questo Chardonnay toscano, uno dei padri dei bianchi moderni, che si volevano alla francese, nel senso ch’erano affinati lungamente in barrique, e che invece strizzavano l’occhio al mercato americano e alla sua critica che faceva, appunto, mercato. Sia detto chiaro: se amate il vino che ha una dominante di legno, allora questo fa per voi, nonostante l’età ormai vetusta. Se volete la pulizia del frutto, lasciate perdere. Il colore dorato è traversato da lampi verdi. Il naso riesce a trasmettere l’idea varietale, con quella sua nota quasi medicinale, cui si sommano i sentori evoluti della frutta secca. Ma la bocca cede subito al legno, che è persistente assai.

Gewürztraminer 1967 Giorgio Grai. Una chicca. Una riserva che Giorgio Grai, uno dei più grandi fra i wine maker italiani, tiene tutta per sé, per gli amici suoi. Tant’è che l’ha voluta servire personalmente ai tavoli. E, permettete, m’ha un po’ commosso che me n’abbia versata doppia razione, dopo che avevamo ragionato insieme dei bianchi che s’invecchiano. Badate: 1967. E in quegli anni in Alto Adige non c’era tecnologia. L’uva contava, e basta. E c’erano varietà di traminer – racconta Grai – che oggi son pressoché scomparse, a grappolo spargolo, di poca produzione. Ha, il vino, affascinante, limpidissima, brillante doratura. Il naso, ah, il naso è d’un fascino grande. La rosa appassita, la mela secca, il fico surmaturato – quello che fa la lacrimuccia zuccherina -, la spezia dei dolcetti tedeschi. La bocca, quella ha la sua età, eppure la beva è ancora invitante e pulita ed elegante anch’essa, pur magretta. Nonostante i quasi quarant’anni.

giovedì 25 maggio 2006

Oh, che bel castello: la piacevole leggerezza del Prosecco

Angelo Peretti
Intanto la location, bellissima: il castello di San Salvatore a Susegana, provincia di Treviso, nella Gioiosa Marca. È la storica residenza dei conti Collalto. Trasuda storia ed eleganza, e ha tanto, tanto verde intorno. Credetemi: un sogno. E in un posto del genere, quand’è aperto al pubblico, vale la pena farci solo iniziative di prestigio.
In effetti Vino in Villa, la manifestazione annuale di presentazione del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene, il 20 e 21 di maggio, è stata all’altezza. Eccome. Ed è questa la seconda considerazione da fare, dopo quella dedicata al luogo. Eppoi la terza nota: girando fra le ampie e luminose sale del palazzo, fra i tavoli dei produttori, ho trovato vini buoni davvero. Altro che il prosecchino dei tempi andati. Le nuove bollicine trevigiane hanno i numeri per piacere. E, quarto, per converso, di cattivi ne ho incrociati invece pochissimi, segno che in zona la qualità è diffusa. E che in cantina ci sanno fare, quelli di Valdobbiadene e di Conegliano.
Chiaro: mica tutti i bevitori son disposti ad ammettere amore per questo sparkling wine made in Veneto. C’è chi storce il naso, asserendo che bere spumante significa stappare Champagne, Franciacorta, Trento. Per carità: grandi vini, da levarcisi il cappello quando si è al loro cospetto. Ma il Prosecco è giocoso. Non si dà arie. Soprattutto, lo fan bene, porca miseria, sempre più bene, lo ripeto.
Mai secco, e anzi talvolta un bel po’ dolcino, il Prosecco, quello che ha il bollino della doc di Conegliano e Valdobbiadene (una "P" rossa in campo bianco, contornata da mura medievali stilizzate), lo puoi portare in tavola quasi a ogni occasione: lo spuntino informale ma anche la cena importante, l’aperitivo, il brindisi. Magari d’estate. Una sera d’estate. Se ne bevono ogni anno trenta milioni di bottiglie: mica scherzi.
Be’, a Vino in Villa di Prosecchi ne ho provati tanti e tanti e tanti. Tutti i brut, i dry e gli extra dry. Ho tralasciato solo i Cartizze. E i fermi e frizzanti, che son poca roba. Ho bevuto girando fra i tavoli assegnati alle aziende. Dire di tutti è impossibile. Dirò dunque di quelli che più m’hanno convinto. Qui sotto, andando in ordine alfabetico, che era poi l’ordine degli espositori dentro il maniero di Susegana.
E dunque cominciamo. Con l’avvertenza che le brevi note sulle aziende le prendo dal booklet che accompagnava la rassegna, un pratico taccuino spiralato. Se dunque qualcosa non andasse, please, rivolgersi al Consorzio. I voti, invece, quelli son miei. Se provando gli stessi vini avrete impressioni diverse, be’, in questo caso me n’assumo la responsabilità io.
Avverto ancora: per questione di spazio, e solo per quella, d’aziende ne cito dieci e solo dieci. Magari, se avrò modo, ci tornerò su, e scriverò in futuro di qualch’altre vino fra i duecento testati.
Adami - Colbertaldo di Vidor (Treviso)
Comincio da Adami mica per piaggeria. Intendo: monsieur Franco è il presidente del Consorzio di tutela del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene, e magari qualche malalingua potrebbe insinuare. È solo che vado in ordine alfabetico, lo stesso con cui erano disposti i tavoli, e quest’era il tavolo numero uno.. Il quadernetto di degustazione mi dice che in azienda si fanno 300 mila bottiglie l’anno. Be’, se son tutte della qualità che ho trovato alla mostra, sono da bere a secchi. I vini in degustazione erano tre. Tutt’e tre ai vertici delle rispettive tipologie, credetemi. Qui di sotto le annotazioni.
Prosecco di Valdobbiadene Extra Dry dei Casei 2004. Ha un bel nasino floreal-fruttato: pera, mela, fiori bianchi. La bocca è cremosa e quasi vinosa ed ha per il resto perfetta corrispondenza coll’olfatto. Finisce sui toni d’agrumi. Piacevolissimo. Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Prosecco di Valdobbiadene Brut Bosco di Gica 2004. Il fieno: ecco cos’ho trovato, soprattutto, all’olfatto. Gradevoli note di fieno sopra il substrato di mela. Di nessun impegno, ma si beve alla grande. Due faccini felici :-) :-)
Prosecco di Valdobbiadene Dry Vigneto Giardino 2004. Il terzo gioiellino targato Adami. Ha aromi tra l’erbaceo e il fruttato esotico, con l’ananasso e il passion fruit, e poi gli agrumi e il fior d’arancio. In bocca, ancora frutto acidulo e tropicaleggiante. Buono. Altri due faccini che sorridono :-) :-)
Desiderio Bisol - Santo Stefano di Valdobbiadene (Treviso)
C’è poco bisogno di presentazioni. Uno dei mostri sacri del Prosecco. Circa 500 mila bottiglie l’anno. Con due Brut in mostra: il Jeio e il Crede. M’ha convinto il secondo, mentre l’altro non m’ha fatto grand’impressione.
Prosecco di Valdobbiadene Brut Crede. M’è piaciuto già dal primo impatto olfattivo, con quell’esplosione di fiori d’acacia. Ed è bella pure la tensione. Ha equilibrio e intrigante, costante presenza di clorofilla. Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Bortolomiol - Valdobbiadene (Treviso)
Nome di quelli grossi e dimensioni notevoli: più di 1 milione di bottiglie l’anno. Ho provato il Brut e l’Extra Dry. Buonissimo il secondo, che vorrei poter presto ribere.
Prosecco di Valdobbiadene Extra Dry. Olfatto tra il verde e il floreale. E un fondo, intrigante, di rosmarino. E così pure eccolo proporsi al palato. Corrispondenza perfetta. Tre faccini gaudenti :-) :-) :-)
Case Bianche - Pieve di Soligo (Treviso)
Mica piccola, l’azienda: 300 mila bottiglie di Prosecco. I vini paiono insolitamente secchi, per l’abitudine della zona. Da seguire, per chi è alla ricerca d’una bollicina trevigiana diversa. Ha il Brut e l’Extra Dry. Del primo m’è molto piaciuta una bottiglia, ma devo aggiungere che un’altra, provata in un secondo momento, m’ha meno impressionato. L’Extra Dry è quasi un Brut, e rende l’idea della filosofia di cantina.
Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene Extra Dry Case Bianche. Dicevo: c’è molto, molto meno zucchero del solito in quest’Extra Dry, e la cosa lo fa, appunto, diventare insolito, ma non per questo meno piacevole. Anzi. E ha naso altrettant’atipico: c’è resina di pineta, c’è erba officinale. Può sembrare scarno, e invece è teso come una corda di violino. Due lieti faccini :-) :-)
Col Vetoraz - Santo Stefano di Valdobbiadene
Si autodefinisce una giovane azienda. E fa mezzo milione di bottiglie. Tre vini ai tavoli: il Brut, l’Extra Dry e il Dry, che metto anche esattamente in quest’ordine come preferenza, anche se i primi due nel mio giudizio son molto, molto vicini.
Prosecco di Valdobbiadene Brut. Più buono in bocca che al naso, ché fors’è imbottigliato da poco, dato che pare olfattivamente un po’ chiuso, pur porgendo belle note di fieno. Ed è lo stesso fieno pulitissimo che compare al palato insieme alla nocciola e alla clorofilla e alla memoria di mela fra l’acerbo e il maturo. Due lieti faccini :-) :-)
Prosecco di Valdobbiadene Extra Dry. Anche qui meglio il palato: penso il motivo sia lo stesso detto sopra. Ma ha bocca snella. La pera non del tutto matura. La mela asprigna. L’erbe di prato. Due faccini :-) :-)
Col Saliz - Refrontolo (Treviso)
Mai sentita nominare prima. Leggo che s’è costituita di recente, quest’azienda. E che ha una quindicina d’ettari e fa 70 mila bottiglie di bollicine.
Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene Extra Dry. Be’, se Col Saliz il vino lo fa sempre così, bisogna segnarselo questo nome. E pensare che subito, al naso, m’aveva deluso, coperto dalla solforosa: imbottigliamento recente. Invece eccolo in bocca cremoso e denso, e ricco di frutto – di mela e di pera – e pregno di vene citrine e d’erbe mediterranee. Da ribere. Due lieti faccini :-) :-)
Colvendrà - Refrontolo (Treviso)
Altr’aziendina di Refrontolo: 100 mila bottiglie, dice il librino di Vino in Villa. Altro sconosciuto per me (alzi la mano chi l’ha già bevuto, però). Altro bel vino, davvero. In assoluto, quello cui ho dato il punteggio più alto. Per quel che conta il mio voto...
Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene Extra Dry. Ullallà, quanti agrumi che ha quest’Extra Dry! Cedro e mandarino e arancia e fior d’arancio. E poi ricordi d’erbe officinali. E vena nervosa. E bocca sapida assai. Sembrerebbe vino mediterraneo. Ah, metterci assieme dei bei gamberoni... Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Conte Collalto - Susegana (Treviso)
Una scheda per il padrone di casa posso scriverla, no? Sia chiaro: se non ci fosse vino buono, l’ospitalità non servirebbe a molto. Ma il vino buono c’è (e anche l’olio, se è per quello). Provati il Brut e l’Extra Dry. Meglio il secondo.
Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene Extra Dry. Non è l’olfatto a intrigare, ma il gusto. Ché il vino ha bocca d’agrume e quasi aromatica e di bell’ampiezza e d’una rusticità sincera ma ben calibrata e direi voluta, e ha note di rosmarino e una percezione cremosa. Buon vino davvero. Due faccini :-) :-)
La Tordera - Vidor (Treviso)
Cinquanta ettari di vigna, grosso modo: lo leggo sul libretto. Non so a quante bottiglie corrispondano, ma non è roba enorme. I vini sono buoni, parecchio. Sia il Brut che l’Extra Dry.
Prosecco di Valdobbiadene Extra Dry. Ha colore insolitamente carico, questo Prosecco. Mica colore enorme, ma è giallo, rusticamente giallo. E ha naso altrettanto rustico, giocato sulle traccia vegetale. Eppoi il fiore bianco e una nuance di confetto. La bocca è citrina. Ed ecco il fior di glicine e, sul finire, il kiwi. Buono buono. Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Prosecco di Valdobbiadene Brut. Ancora il confetto e la vaniglia, e un po’ di vegetalità. Al palato piace la freschezza nervosa, e torna la vena vegetale, magari un po’ cruda. Pensatelo su un piatto d’asparagi di Cimadolmo: che bellezza. Due faccini felici e quasi tre :-) :-)
Vigne Matte - Cison di Valmarino (Treviso)
La potenzialità è di mezzo milione di bottiglie, ma per ora la produzione è ben più bassa. L’azienda è giovane, subentrata ad altro marchio, mi si dice. Tre i vini in mostra. Il Brut non m’ha esaltato. Buoni Dry e Extra Dry, con una leggera preferenza al primo.
Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene Dry. Se il naso appare un po’ semplice, con quelle sue noticine sottili di fiore e confetto, la bocca è invece appagante, ché ha bella florealità e vene agrumate e di marzapane. E anche nocciola. Molto gradevole. Due lieti faccini :-) :-)
Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene Extra Dry. È l’agrume a dominare: l’arancia e il mandarino. In bocca anche, in apertura, un po’ di piccolo frutto rosso. Di bell’abbinabilità in tavola. Due faccini :-) :-)
Per ora, ho finito. Alla prossima.

lunedì 15 maggio 2006

Un’altra conferma: il grignano fa tendenza

Angelo Peretti
È vero, verissimo. È il tempo del grignano. Trionfa quest’olivo dell’est della provincia veronese, considerato per tanto tempo una sorta di mezza cartuccia delle cultivar italiche. Invece no: quest’è un fuoriclasse. Era solo incompreso, tutto qui. Adesso trionfa. Dovunque e comunque. Sia lode alla biodiversità.
Ne ho già parlato dicendo del successo d’Osvualdo Del Fabbro e del suo monocultivar che ha conquistato – prima volta che accade al Nord – le tre olive di Slow Food. Un altr’extravergine a base di grignano, quello di Giovanni Salvagno – una sorta di classico del genere dolce -, ha ottenuto le cinque gocce – massima valutazione – dall’altra guida, quella dell’Associazione italiana dei sommelier dell’olio. Ora, ecco il verdetto del Sirena d’Oro, il concorso dei dop nazionali che s’è tenuto a Sorrento: primo e terzo nella graduatoria degli oli dal fruttato leggero due extravergini della denominazione Veneto Valpolicella. Tutt’e due a base, essenzialmente, d’olive di grignano. Al vertice assoluto quello della Cantina Valpantena (e bravo a Luca Degani, che sa il fatto suo in campo enoico e anche in quello olivario) e sul podio anche quello di Giancarlo Bonamini (e bravissimo anche lui, che è punto di riferimento della rinascita oleicola della Val d’Illasi).
Insomma: il grignano piace. Fa tendenza. Strappa applausi. Pensare che c’era chi lo voleva estirpare, eliminare, distruggere. Invece è il momento suo. E tutta la porzione orientale della terra scaligera ne fa un emblema. Con un vantaggio tutto da sfruttare, ché il grignano vive e fruttifica solo su suoli valpolicellesi.
N’avevo scritto, della rinascita del grignano, qualche settimana fa su L’Arena, sulla pagina del Gusto: mi ospita l’amicizia di Morello Pecchioli. che ne è responsabile. Per chi non l’avesse letto – e non pretendo d’esser per forza letto – ripubblico qui di seguito quel testo.
«Come nella fiaba del brutto anatroccolo. Il pulcino che pareva disgraziato è diventato l’elegantissimo, nobile cigno. E se n’è volato in alto. Ecco, col Grignano è successa una cosa del genere. E qui va chiarito subito che quando diciamo Grignano, intendiamo una varietà d’olivo coltivata nel territorio veronese. In Valpolicella, in particolare. O meglio, in tutta la fascia collinare ai piedi dei Monti Lessini. È qui la patria di quest’ulivo particolare. Amato e odiato, nel corso della storia, dagli olivicoltori. Amato perché sa resistere al freddo e alle malattie e regala una produzione piuttosto elevata nelle annate migliori, ma odiato perché le sue olive offrono una bassa resa in olio. Tant’è che da più parti è considerato una cultivar (è il termine che tecnicamente identifica le varietà delle piante coltivate) di basso profilo. Da disincentivare nelle scelte di campagna, se non addirittura da espiantare. Insomma: il brutto anatroccolo rispetto alla ben più produttiva pianta del Favarol, l’altro olivo classico valpolicellese.
Non solo: il Grignano è una brutta bestia perché non sai mai esattamente individuare il momento di miglior qualità delle sue olive. Ci spieghiamo: l’attimo fuggente, quello di valore assoluto per l’oliva, è quando il frutto comincia a cambiare appena appena colore. La prima coloritura è quella che i tecnici chiamano invaiatura superficiale: è la fase in cui l’oliva contiene il miglior olio della stagione. Quando il frutto diventa tutto nero, allora l’olio che vi è contenuto è troppo avanti di maturità, e quindi di minor valore organolettico e salutistico. Di solito, il passaggio di colore è graduale. Il problema è che il Grignano fino a oggi è verde e domani te lo trovi interamente nero. Il che rende difficile regolarsi.
L’idea del Grignano come varietà di second’ordine è diffusa. In un recente volume sull’extravergine, ancora si scrive: “La resa in olio è modesta e la sua qualità è considerata inferiore a quella dell’olio delle altre cultivar locali”. Invece, ecco la sorpresa. Quest’anno le due maggiori guide nazionali dedicate all’extravergine hanno premiato col loro massimo riconoscimento uno e un solo olio del Veneto, e in entrambi i casi si tratta d’un olio di Grignano. La “Guida agli extravergini” di Slow Food ha assegnato le tre olive (il più alto gradino del podio) al monocultivar Grignano denocciolato di Bio Azzurra, la minuscola etichetta olearia di Osvualdo Del Fabbro, produttore biologico di Mezzane di Sotto. Ed un altro Grignano, quello di Giovanni Salvagno, frantoio veronese della contrada di Nesente, in Valpantena, ha ottenuto le cinque gocce (il premio più ambito) sulla guida “L’olio” dell’Associazione Italiana Sommelier dell’Olio, edita da Bibenda. E, si badi, sono oli diametralmente opposti come filosofia produttiva. Il primo è d’impostazione ultramoderna e punta alla potenza, alla personalità estrema, l’altro risponde a tradizionali canoni di morbidezza, di dolcezza. Eppure sia che si privilegi la tradizione, sia che si opti per la modernità, è un Grignano a dominare, lasciando al palo il resto degli oli veneti.
Il salto di qualità è stato reso possibile da un cambiamento di mentalità. Si è cercato di comprendere i pregi e i difetti del Grignano e di ridurre al minimo i tempi fra la raccolta delle olive e la loro frangitura. Più è breve lo spazio temporale che intercorre, più l’extravergine conserva qualità. Più s’allunga l’intervallo, meno interessante sarà l’olio. Sembra banale, ma non è così, perché arcaiche convinzioni inducono purtroppo ancora oggi molti olivicoltori ad aspettare giorni e giorni prima di portare le olive alla molitura. Certamente, una grossa mano l’ha data anche il riconoscimento della dop (la denominazione d’origine protetta) per l’extravergine Veneto Valpolicella, che ha il Grignano fra le varietà caratterizzanti. Sia come sia, il Grignano sta convincendo. E, si badi, quelli di Bio Azzurra e di Salvagno non sono casi isolati. Sulla guida di Slow Food, dei quattordici oli veneti che hanno ottenuto le due olive (appena un gradino dunque sotto il podio, ma comunque a livelli ben alti di qualità), ben sette – la metà – sono ottenuti, in tutto o in ampia parte, da olive di Grignano. E tutti e sette provengono dal tratto più ad est della provincia di Verona.
Che cos’ha dunque di così particolare questa varietà per essere diventata d’improvviso una sorta di fiore all’occhiello dell’olivicoltura scaligera? La risposta è in una caratteristica peculiare degli oli che se ne traggono: una sensazione affascinante, piacevolissima ed elegante di agrumi, che nelle interpretazioni più moderne richiama addirittura i toni accesi della buccia e della foglia di limone. Un aroma, in questi casi, così intenso e persistente che bastano poche gocce d’olio per dare slancio ad un piatto. Una sorta di esaltatore naturale di sapidità. Ricco di valore organolettico, ma anche di componenti salutari. Quasi un farmaco in gocce. Altro che brutto anatroccolo».

sabato 6 maggio 2006

Del Quaiare e dei flashback

Angelo Peretti
Non so quale sia il termine corretto per definirlo. Forse flashback. Non so neppure se si tratti d’una mezza malattia, o qualcosa che ha a che fare con la psiche. Non lo so e non m’interessa, ma succede.
Intendo questo: v’è mai occorso di compiere un gesto, un’azione, e d’aver in quel preciso istante l’impressione d’aver già vissuto in precedenza quel momento? Come se vi vedeste in uno schermo? A me capitava da ragazzino, e ne ero colpito. Poi non è più accaduto per anni ed anni. Ma qualche cosa del genere m’è successo di recente davanti a un vino. L’ho bevuto e ho avuto come la sensazione di conoscerlo da sempre. Eppure mai era stato così. E mai prima ne avevo assaggiato questa nuova annata.
Premonizione? Macché: la spiegazione è più semplice. Semplicemente, me l’aspettavo che prima o poi così l’avrei trovato.
Il vino in questione è il Quaiare 2003 di Matilde Poggi, aziend’agricola Le Fraghe, Cavaion Veronese. Di lei, del suo modo di far vino, n’ho già parlato in passato a proposito del Bardolino, che trovo da almeno tre anni molto buono e soprattutto capace di proporre una precisa, ben delineata continuità stilistica. Ma la sua bottiglia di punta è considerata da molti invece il Quaiare, un cabernet (sauvignon più franc).
Ebbene sì, il Quaiare era ed è gran vino. Ben fatto. Seducente, anche. E le annate del 2000 e del 2001 sono state osannate - con piena ragione - dalla critica. Per quel che conta, ne ho scritto bene anch’io da qualche parte. Ma non era quello il vino di cui sapevo capace frau Poggi. Nossignori: la sua vena era (ed è) altra, ed altro rosso m’aspettavo che uscisse. Ed ora è uscito, alla buon’ora. Non so se piacerà altrettanto a chi l’assaggerà. Non pretendo neppure che si dica ch’è il miglior Quaiare di sempre. Ma questo è vino che parla. E che apre nuove prospettive nella zona. Un benchmark.
Che cos’è che non mi quadrava del tutto in un bel rosso come il Quaiare dell’altre annate? Dico subito: non mi tornava la sua lontananza di stile da quell’altro rosso di casa Le Fraghe che mi piaceva, il meno nobile, ma succosissimo, godibile, friendly Bardolino, che si beve e ribeve con piacere e passione. Era invece, il cabernet, vino elegante e denso e importante, ma un po’ (solo un po’, convengo) alla moda. Quella moda, intendo, che ha creduto – ah, ‘sti americani cosa ci han fatto fare! - che la concentrazione fosse potenza e frutto frutto frutto e tannino. Per cogliere applauso a scen’aperta. E invece, dico io, concentrazione corretta è - dev’essere - finezza e armonia e beva estrema. Vino che stappi e finisci. Che non resta a metà nel bicchiere.
Ecco, ora il Quaiare ha cambiato il passo, e parla la nuova lingua. Il vetro resta presto vuoto sulla tavola. Pensare che il mutamento di stile è avvenuto nell’annata che non t’aspetti: quel 2003, così caldo che il frutto è surmaturato in vigna. Ma come - pensi – in un anno del genere ‘sto cabernet svolta di brutto e si fa più esile e più succoso e più agile e più immediato? Dove sta l’arcano?
Non solo: se il passaggio di campo è avvenuto nell’anno della calura, quando in altra direzione portava l’uva cotta dal sole, allora non può dirsi figlio del caso questo nuovo Quaiare. Ma è invece vino voluto. È cercato. Creato con rigore anche di fronte alla difficoltà d’una estate troppo calda.
Che cos’è dunque accaduto in terra cavaionese perché si facesse un simil vino? Non lo so, e non lo chiedo all’interessata, se pensate che il mistero si spieghi con la tecnica. Semplicemente, la tecnica non m’interessa, così come non trovo importante sapere quale sia - scientificamente parlando - l’origine di quei flashback di cui dicevo in apertura di pezzo. Sono convinto che non sia la conduzione di vigna o di cantina ad aver dato origine al mutamento. O meglio: se qualcosa tecnicamente è cambiato - ed è cambiato, fosse solo nell’uso del legno - quest’è solo lo strumento della mutazione vera. Il cambiamento è altrove. È nel pensiero. Nel pensare il vino. E - guarda caso - è dallo stesso 2003 che anche il Bardolino delle Fraghe è cambiato ed ha assunto nuova e costante fisionomia.
Dico schietto: ho l’impressione che la signora abbia fatto una scelta di campo. Che Matilde abbia deciso da che parte stare, sulla barricata. Fra il mostrare se stessa e il seguire il mercato. Ed ha scelto se stessa. Perché adesso i suoi rossi, il Bardolino e il Quaiare, parlano una medesima lingua. Ed è lingua che cerca finezza d’approccio all’olfatto e al palato. Che rifugge dal muscolo. Che asseconda e racconta il terroir, come insieme di vigna e di suolo e di vento e di piogge e di sole e di storia e di mente e di cuore e di vita. La tecnica è un accessorio.
N’ero convinto che qui sarebbe arrivata. Lo diceva quel suo Bardolino che ha segnato costanza di passo nell’ultime tre vendemmie. Che non cerca il colore marcato ma è contento d’indossare la veste cucita in vigneto. Che non vuole irritanti pienezze. Che si porge quand’è lui che decide d’esser maturo, e non importa se è un mese o un anno dopo il passaggio in bottiglia. Che pretende d’essere se stesso, punto e basta. Ecco: il Quaiare 2003 è esattamente - finalmente - questo, è il fratello maggiore del rosso bardolinista. Figli dello stesso terroir, fatto di terra e vigna e umanità. E pazienza se altri non saranno d’accordo.