Angelo Peretti
Stavolta comincio difficile. Dicesi fenomenologia «lo studio e la classificazione dei fenomeni, specialmente in quanto gradi o contenuti della coscienza filosofica»: definizione tratta dal Devoto-Oli.
Capisco che scrivere queste cose nei giorni di ferragosto può (legittimamente) far pensare a un mio improvviso colpo di sole, ma gli è che vorrei dire due cose riguardo a una questione che è quasi filosofica - se la filosofia si può applicare alla cucina, alla gastronomia - e che trae spunto da quanto Stefano Bonilli (Gambero Rosso) ha pubblicato verso fine luglio sul suo blog, il Papero Giallo. Il post titolava «Spaghetti con le vongole, ma buoni» (se volete, lo potete leggere per intiero cliccando qui), ed elogiando appunto un piatto di «semplici» spaghetti con le vongole mangiato da Uliassi (grande) a Senigallia, argomentava: «A volte le cose semplici sono le più difficili e non sempre i cuochi affermati sono contenti se ordinate un piatto di spaghetti con le vongole quando il menù è ricco di ben altre proposte. Ma un grande piatto di spaghetti con le vongole lo mangerete solo se c'è un bravo cuoco in cucina».
La cosa, me lo concedete, ha un certo che di filosofico. Ma francamente è proprio questo che, soprattutto, m’aspetto da un ristorante importante. Che faccia divinamente le cose semplici. Che abbia, che so, le vongole che sanno di vongole. Ma che abbia anche, il piatto nella sua completezza, una cottura perfetta, una consistenza appagante, una fragranza gratificante, una digeribilità assoluta. E non è mica facile. Ché far sintesi è impegnativo. E serve arte, creatività e soprattutto pensiero.
Della faccenda ho avuto occasione di parlare con Leandro Luppi, chef e patron della Trattoria Vecchia Malcesine, unico ristorante stellato dalla Michelin sulla sponda veneta del mio lago di Garda (il suo sito lo raggiungete cliccando qui). L’occasione, un passaggio a pranzo per assaggiare un piatto «nuovo» di cui avevamo discusso parecchio al telefono: un risotto con la tinca.
Ora, il risotto con la tinca è uno dei classici della cucina tradizionale del lago di Garda. A Lazise alcuni ristoranti ne hanno fatto una sorta di biglietto da visita. E quando, qualche anno fa, misi in piedi, con un piccolo team di ristoratori, il «campionato gardesano del risotto con la tinca» l’afflusso di pubblico fu tale da costringerci a cercare una sede sufficientemente ampia da soddisfare almeno in parte le richieste. Insomma: un must. Radicato nella tradizione. Che nasce, a mio modo di vedere, in una precisa epoca storica. Quando in riva al Garda veronese si coltivava, appunto, il riso. Accadde fra la seconda metà del Cinquecento e l’inizio del Seicento. A Garda c’è tuttora una località che si chiama Risare. Testi antichi raccontano delle risaie di Lazise. Nei pressi del municipio di Cavaion si vedono delle vecchie pile da riso. Nel 1686 ci fu un processo: la comunità di Garda voleva la bonifica delle risaie. Si diceva che in paese c’era una «mala qualità dell'aria, che resta infetta dal fetore che cagionano alcune risare». Causa vinta, risaie cancellate. Ne resta traccia nella ricetta: l’unione fra il riso e il guazzetto di tinca.
Quando Leandro mi telefonò dunque per dirmi che voleva mettere in carta un primo di stampo gardesano, magari reinterpretando qualcosa della tradizione, l’idea immediata fu quella del risotto con la tinca. Ma per darne una rilettura occorreva prima capirne la fenomenologia, trattando la ricetta come fosse un testo concettuale. Distillandone i contenuti. Che sono alla fin fine tre: il riso, ovvio, e poi il colore verde delle erbette e poi ancora, altrettanto ovviamente, la tinca. E riso e tinca s’uniscono solo nel finale. Con le erbe che fanno la mediazione fra i sapori. Questa è l’essenza del piatto.
Ne abbiamo discusso un bel po’, ho già detto. E poi Leandro i tre elementi li ha pensati e ripensati. Risolvendoli con genialità. Il riso al dente. Il verde ottenuto dall’aglio orsino, erba officinale che si trova anche sul Baldo, dal delicato sapore agliaceo. La tinca sopra, alla fine, spezzettata e prima leggerissimamente affumicata. Il tutto garantendo consistenza e saposrosità, ma anche leggerezza.
Come la penso? Che c’è riuscito. E quando lo provi, questo risotto del Vecchia Malcesine, pensi dapprima che sia un piatto d’assoluta semplicità. Ma siccome ad ogni forchettata l’armonia non cala, ma anzi si fa più coinvolgente, be’, allora t’accorgi che così semplice non può essere. E che è insomma un po’ come diceva Bonilli a proposito degli spaghetti con le vongole. Sembra un piatto facile, scontato. Poi te lo propone il cuoco che sa far cucina e sa pensare, e allora t’accorgi che c’è qualcosa d’importante in quell’apparente levità. Ed è un rifiorire del gusto.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento