domenica 12 novembre 2006

Rambo, le buone vibrazioni e l’eterno problema delle carte dei vini

Angelo Peretti
La cosa dicono sia andata così. Protagonista Sylvester Stallone. L’attore: Rocky, Rambo, eccetera. Ebbene, arriva a Milano. Con la moglie. Chiede di cenare nell’albergo (grand’albergo) in cui ha preso stanza. Il responsabile, imbarazzatissimo, deve dirgli che, però, posto in sala non ce n’è. Gli ultimi tavoli li hanno occupati Leonardo D i Caprio con la fidanzata e Inés Sastre col marito. Allora Sly deve trovare ospitalità in un altro ristorante. Dove mangia – pare – le tagliatelle al ragù. Così la racconta Panorama.
Ora, si dà il caso che al ristorante di ripiego ci sia stato, grosso modo negli stessi giorni, anch’io. Insieme con alcuni produttori di vino, al termine d’un wine tasting. Eravamo mezzi bagnati di pioggia, ma vabbé, la compagnia era buona e bella per davvero. Eppoi ci siamo divertiti. Leggendo la carta dei vini. Ma mica perché ci abbiamo trovato chissà quali bocce da stappare (in effetti, un po’ d’aspettativa ce l’avevamo: si beve volentieri un bicchiere di vino intrigante dopo ore a testare e sputare campionature). Nossignori: la lista era scontata, i soliti nomi (nelle città capita). Il divertimento stava nel testo. O meglio, nelle parole dell’ultima paginetta. Che non resisto alla voglia di trascrivervi.
La pagina era titolata «Le stelle». Diceva, testuale: «Il mondo del vino ha oggi nuovi confini. Accanto alle nazioni tradizionalmente all’avanguardia, ecco affacciarsi quasi ad ogni vendemmia altre emergenti. Quindi c’è parso importante rendere omaggio ai grandi apripista, a quelle stelle che, con costanza indiscutibile, tengono altissima la bandiera dei rispettivi territori di provenienza. Sette Super-Vini per ora. I Grandi di Bordeaux, la gemma Yquem, lo spagnolo Unico, il Grande campione del nuovo mondo. Pronti ovviamente ad ampliare la hit parade con altre stelle di pari splendore».
Ci siam passati la lista di mano in mano. Tanta prosopopea per presentare sette bottiglie non l’avevamo mai vista. E poi... E poi ecco l’elenco dei vini, così com’era scritto:
Chateau Lafite 1er Cru Classè 2001 Rothschild Francia 640,00
Chateau Latour 1er Cru Classè Pauillac Bordeaux 2001 Latour Francia 680,00
Château Margaux 1er Cru Classè Bordeaux 2001 Margaux Francia 660,00
Château Mouton Rothschild 1er Cru Classè 2001 Bordeaux Rothschild 660,00
Château d’Yquem (0,375 cl) 1998 Lur Saluces Francia 320,00
“Unico” 1994 Vega Sicilia Spagna 640,00
Penfolds Grange Shiraz 1999 Penfolds Australia 780,00
Et voilà: la lista dei sogni e delle contraddizioni è servita.
Ora, non si pensi che voglia prendermi gioco di quel ristorante, dove oltretutto non abbiamo mangiato male e per di più abbiamo trovato, alla prenotazione, gran cortesia. Ma un commentino ci vuole. Magari facendo i pedanti. Ma insomma, quando ci son vini che stanno oltre i 600 euro, qualche pelo nell’uovo lo si potrà pur cercare, no? E di peli quest’ovetto è proprio pieno.
Da dove comincio?
Primo. Le annate dei bordolesi. D’accordo, a me di spendere certe cifre per una bottiglia di vino non passa neanche per l’anticamera del cervello, ma se proprio avessi da scialare, be’, lo farei per qualcosa che sia effettivamente bevibile. Ma stappare un 2001 per rossi di quella tal fatta è infanticidio. Saranno pronti da bere fra una decina d’anni almeno. Giusto per dire: Chateauonline.com, un sito francese che vende vini, per il Lafite dà l’apogeo nel 2020 (per inciso: il vino, che ha avuto una valutazione di 96 centesimi da Wine Spectator, viene venduto on line a 175 euro la bottiglia, e da qui ai 600 e passa ammetterete che di ricarco ce n’è abbastanza). Capisco comprarli adesso, questi vini, per investirci (ma allora era meglio prenderli en primeur) o per farli affinare in cantina, ma metterli in lista al ristorante mi pare decisamente prematuro. A quelle cifre, poi.
Secondo. Le scelte bordolesi. Capisco, si è voluto puntare ai premier crû. Ma se hai fatto trenta fai anche trentuno, e mettici pure il quinto: l’Haut-Brion, niente male. Così almeno c’è la collezione completa. E oltretutto non è una lista monopolizzata dai Pauillac (Lafite, Latour e Mouton son tutt’e tre della stessa denominazione comunale). Ma poi, siamo proprio sicuri che fuori dal quintetto non c’è niente di Grande (con la g maiuscola, com’è scritto in carta)? Giusto per dire, mi risulta che dalle parti di Pomerol ci sia un certo merlot: si chiama Petrus, mai sentito? Eppoi qualcosa di buono lo si trova pure a Saint-Emilion, a Saint-Esthepe, a Sain-Julien...
Terzo. Le scritture bordolesi. Almeno scriverli giusti ‘sti quattro premier crû. Il Lafite è da parecchio che si chiama Lafite-Rothschild. E poi non capisco perchè, come sono scritti in lista, dei primi tre si dica che vengono dalla Francia, e il quarto da un posto di nome Rothschild: la famiglia è di quelle che contano, ma mica hanno fatto la secessione. Che poi del Latour e del Lafite si dica correttamente che sono della denominazione di Pauillac sta bene, ma allora non ci sta che si legga che il Margaux e il Mouton sono dei Bordeaux: roba quasi offensiva, ché questa è la denominazione generica, quella dei vini d’annata più semplici, senza specifico lignaggio comunale.
Quarto. I Grandi francesi (g maiuscola, ancora). I bordolesi, d’accordo, sono spesso grandi per davvero, e i quattro rossi prescelti, più l’Yquem, il più celebre dei Sauternes (a proposito: perché anche qui manca la denominazione d’origine?), non c’è dubbio che siano fantastici. Ma la Francia dei Grandi si ferma davvero qui? I cabernet, il merlot. E il pinot nero? In Borgogna in fin dei conti qualche rosso di valore lo si trova. Per esempio, col pinot noir al Domaine de La Romanée Conti fanno un vinello che si chiama La Tache. Qualcuno lo considera uno dei migliori rossi del mondo.
Quinto. Il fantomatico “Unico”, così, fra virgolette. Viene di Spagna, giusto. Ma più correttamente si dovrebbe dire che fa da punto di riferimento d’una denominazione d’origine, la Ribera del Duero. E nelle carte di mezzo mondo lo indicano com’è scritto in etichetta: Vega-Sicilia Unico, senza virgolette. Si dirà: ma almeno qui l’annata è di quelle vecchie, già bevibili. Invece no, ché in Spagna hanno un sistema diverso nelle uscite. I vini li mettono in commercio secondo la maturazione, per cui può essere che esca prima un’annata più recente di una più remota. Il ’94 è giovane.
Sesto. Il «campione del nuovo mondo», il Grange. Certo, è lo Shiraz più celebre che ci sia, fuori di Francia. Ma il campionato del nuovo mondo è tutto da giocare. Perché è vero, «il mondo del vino ha oggi nuovi confini» e certamente ci sono «i grandi apripista», ossia «quelle stelle che, con costanza indiscutibile, tengono altissima la bandiera dei rispettivi territori di provenienza». Però che esista solo l’Australia... Dico per dire: e la California? Da quelle parti Robert Mondavi e la baronesse Philippine de Rotshschild firmano un rosso la cui costanza mi par proprio indiscutibile. È l’Opus One. Un mito - il mito - della Napa Valley. Mica degno della lista dei Super-Vini?
Settimo. E i bianchi? Possibile che l’unico super-bianco sia un Sauternes? E gli chardonnay di Borgogna? E i riesling di Germania?
Insomma: un pasticciaccio. E tutto in una paginetta.
L’ho già detto: non ce l’ho con quel ristorante, tant’è che non ne ho nemmeno detto il nome. Solo che questa è l’ennesima prova di come vengano trattati i vini dalla ristorazione italiana. Ovvio, ci son le eccezioni, luminosissime. Ma sono, appunto eccezioni, ché spesse volte è roba da brividi: ignoranza, noncuranza, superficialità trasudano dalle liste. Compilate non dico facendo lo sforzo della ricerca degli emergenti, che forse è chieder troppo (tanto lo so che la scelta ai ristoratori gliela fa il distributore), ma senza neppure legger l’etichette. Almeno li scrivessero giusti.
Il vino al ristorante è un problema. Pensando poi a certi ricarichi. Son d’accordo che il ricarico ci sta, ma a fronte ci dev’essere servizio. Ma tante volte – troppe – il servizio non c’è: cattive conservazioni, temperature sballate, bicchieri inadeguati.
Primi mesi dell’anno. Vado in un ristorante d’ottima cucina. Siccome voglio spassarmela, ordino – bando alla spesa – un vino per ciascun piatto. L’ordine è dato all’inizio, insieme a quello dei piatti. Be’, volete sapere? Nessun vino m’è arrivato col piatto richiesto. E nessuno alla giusta temperatura. Roba che uno un pochettino ci si incazza.
Secondo: la conservazione. E qui la prendo un po’ da lontano.
Li ricordate i Beach Boys? Sembrava (erano) l’alternativa ai Beatles e ai Rolling Stones. Anni Sessanta. Cantavano: «I'm picking up good vibrations», «sto raccogliendo buone vibrazioni». Mi sono tornati in mente perché m’accorgo che nel descrivere i vini – quelli che mi piacciono - uso spesso l’aggettivo «vibrante». Già: nel vino cerco le «good vibrations», le buone vibrazioni.
Quand’è che un vino lo trovo davvero «vibrante»? Potrei dire, in prima battuta, quand’ha quell’equilibrio che derivi da una freschezza, da una vena acida che sostenga il frutto, il corpo, il tannino, l’alcol. Che faccia insomma da substrato alle diverse componenti del vino, tenendole legate e dando loro slancio. Ottenendo così due risultati: aumentare la piacevolezza di beva e dare chance di longevità (al vino, of course).
Mi piace, bevendo, che la bocca venga rinfrescata da una piccola alluvione di saliva. Che quest’offra contributo a rendere snella la beva. Contenendo, ove ci siano, gli eccessi di tannino, frutto, alcol, zucchero. Eccessivi non sono se l’acidità li rimette in carreggiata.
Guai se non trovo questa sensazione. Posso accettare qualche vena ossidativa, se la bottiglia è di vecchia annata, ma non sopporto il palato che s’asciuga dopo pochi secondi dall’aver deglutito un sorso. Ma è una sensazione che, purtroppo, capita di trovare. In due tipologie di vini: quelli troppo moderni, artificiosi e palestrati, e quelli mal conservati, e il luogo della cattiva conservazione è troppo spesso il ristorante.
Per i vini fantoccio, la soluzione è semplice: basta non berli. Per i vini mal conservati, è un bel guaio. Perché, come fai a contestare al ristoratore una bottiglia che non ha difetti apparenti al naso e che in bocca comunque si presenta col suo frutto? Come fai a dirgli ch’è questione di piacere mancato? Eppure...
L’ultima disavventura in una trattoria gestita da volenterosi giovani. Ordino, da una lista piccolina e un po’ scontata, un rosso valpolicellese. Lo portano caldo, alla temperatura quasi del brulè, e pazienza. Naso a posto. Ok. Al primo sorso, la spiacevole sorpresa: fruttone immediato e subito dopo - zac! - lingua asciutta. Riprovi, idem. Risultato: la bottiglia resta lì, quasi piena.
Ho guardato il tappo: compresso e per nulla bagnato dal vino. Il che conferma la tesi: bottiglia conservata al caldo all’inpiedi, in ambiente asciutto, e tappo che s’asciuga anch’esso facendo passare ossigeno. Ossidazione incipiente. Come accade in tanti, tanti ristoranti. Che però ti ricaricano il prezzo del vino come se te l’avessero affinato con tutti i crismi e te lo servissero a regola d’arte.
A volte ho provato a contestarlo. Ma è inutile: se una bottiglia è così, è probabile che tutte le altre abbiano la medesima magagna. M’è successo: ordino un ottimo bianco veronese e m’accorgo del problema, chiedo un’altra bottiglia ed è uguale, una terza ed è la sorella. Rinuncio e bevo acqua. Tornato a casa apro una mia bottiglia dello stesso vino e della stessa annata, ed è tutt’altra musica. Sono andato di nuovo a far visita a quel ristorante e ho visto il locale dove conservano i vini: hanno il deumidificatore!
Può succedere. È capitato anche a me di sprecar bottiglie tenendole all’asciutto. Risultato: il vino lo butti nel secchiaio. Ma non fate la spia, ché non credo che il regolamento comunale lo consenta di buttar vino negli scarichi.
Mi resta un dubbio: chissà che ha bevuto Stallone con le sue tagliatelle. Panorama non lo dice, mentr’informa che Di Caprio ha affondato il coltello in una gigantesca cotoletta, accompagnata da litri di Coca-Cola: non ci sono più le star di una volta.

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