sabato 4 novembre 2006

Del Bardolino e dei progetti che (forse) verranno

Angelo Peretti
L’Arena è il quotidiano di Verona. Mi verrebbe da dire che è anche il «mio» giornale, perché ci collaboro suppergiù dal novembre del ’79, che non è mica esattamente ieri mattina. Bene: sulle pagine dell’economia del «mio» quotidiano è uscito il 2 di novembre un pezzo che ho trovato, ahimè, interessante già dal titolo. Diceva così: «Ripresa di Soave e Custoza Valpolicella e Amarone super», ma poi anche, nell’occhiello: «Continua la crisi del Bardolino». Ahimè, sì: crisi del Bardolino.
Se m’impunto a parlar del rosso bardolinista è perché, come ho scritto sul libro che gli ho dedicato, questo è per davvero il «mio» vino. Perché a Bardolino sono nati mio padre e mia madre. Perché passavo le estati sulla Rocca, fra le vigne, e vendemmiavo le corvine e le rondinelle e le molinare. Perché nonno Piero lo tracannava di gusto. Dunque, non ci rinuncio – non posso - a considerarlo il vino del cuore. Lo considero anzi potenzialmente gran vino nel genere suo, per la sua duttilità d’abbinamento in tavola. I love Bardolino. E sui miei amori son cocciuto, ché sennò non m’innamoro proprio: non avrebbe senso.
Ma torno all’articolo areniano del 2 di novembre. Raccoglieva il parere del responsabile dell’ufficio economico veronese di Confagricoltura, che informava che «si nota una ripresa nelle quotazioni dei bianchi, in particolare Soave e Custoza, un ottimo trend per il Valpolicella - soprattutto quello da riposo per la produzione di Amarone - mentre continua la crisi del Bardolino, dovuta essenzialmente alla mancata promozione dopo anni di surplus produttivo e dopo che il Consorzio di tutela, avendo avuto il riconoscimento erga omnes non fa più promozione».
Già, Bardolino che flette. Anche nell’ultima vendemmia le uve sono state pagate poco, pochissimo. Mi domando come abbian fatto certuni a coprire i costi. Il vino non va: le scorte si sono ridotte, ma il mercato non tira. Però non sono d’accordo che la crisi sia legata solo alla mancata promozione. Certo, questo è un problema. Grosso. Ma ci sono, a mio avviso, altre concause. Che cerco di raccontare, pur sapendo che rischio d’esser tacciato per quello che tira fuori castronerie. Eppoi tento di scrivere del Bardolino per parlare (anche) del Valpolicella, che per certi versi potrebbe rischiare di percorrere la stessa china del rosso bardolinista. Per certi versi, mica per forza.
Dunque, partiamo.
Prima lagnanza, s’è detto, è quella della promozione. Il Bardolino in questo momento non gode di gran visibilità. Anzi. Ha immagine offuscata. O semplicemente non ha immagine. S’è forse ritenuto in passato di poter vivere di gloria, ma il mondo del vino è in continuo movimento. Ci si è poi quasi rassegnati, nei giorni – e sono giorni recentissimi – dei rossi muscolosi, iperalcolici, iperconcentrati, ipertannici, a pensare che per il Bardolino non ci fossero (più) chance da giocare. Dunque, inutile promuoverlo, ci si è forse detti: malato senza speranze. Ma i mercati sono ciclici, ed era logico che una qualche inversione di tendenza ci potesse (dovesse) essere, prima o poi. Il poi è adesso.
Oggi si torna a dire della necessità d’avere vini che si bevono, che siano sì piacevolmente fruttati e morbidi, ma che possano anche accompagnare la tavola senz’eccessivo impegno. Che non abbiano troppo alcol (ah, la patente a punti! ah, le scuole salutistiche!). Che siano abbordabili in fatto di prezzo. È il ritratto del Bardolino, che potrebb’essere il vino «quotidiano» del momento. Potrebb’essere e non è, perché quest’identità di «quotidianità di valore» non è stata consolidata, cullata, coccolata. E la si è smarrita.
La promozione è mancata, sì. Ed è una rogna. Ma, insisto, non è l’unica.
Un’altra grana, a mio avviso, è un malinteso ormai «storico», perché data un quinquennio: aver fatto nascere il Bardolino Superiore docg nel momento e nel modo sbagliato. In termini di strategia. Lo capisco: il mercato chiedeva vini pieni, corposi, e il Bardolino non lo era. Dunque, s’è ritenuto di dover creare un «nuovo» Bardolino che rispondesse ai canoni stilistici di stampo «internazionale», americaneggiante. Ecco dunque scaturire il progetto d’un Bardolino Superiore a denominazione controllata e garantita. Un vino più denso, più marcato nei toni, carico nei colori, concentrato il più possibile. Uscito per la prima volta con la vendemmia del 2001, ci si è accorti che finiva coll’essere quasi una duplicazione del Valpolicella Superiore, senz’averne però la fascinazione indiretta – e il traino - dell’Amarone. Innescando lo smarrimento dell’unico requisito sin lì identitario del Bardolino, l’essere «easy wine», piacevolmente, maliziosamente beverino. Ma fin qui, passi: ci poteva stare. Il fatto è che il «nuovo» docg non aveva, a mio avviso, le caratteristiche per ambire ad un corretto posizionamento in termini di prezzo. Ed è l’obiezione che sollevai allora, e per la quale venni tacciato d’essere «nemico» del Bardolino. Io, proprio io nemico delle mie radici? Suvvia!
Cosa intendevo e intendo? Semplicemente questo: o il Bardolino Superiore docg riusciva a spuntare quotazioni significativamente più alte dello storico Bardolino, oppure la sua nascita avrebbe finito col cannibalizzare il doc, spingendone in giù i prezzi. E così è stato. Purtroppo. D’accordo, i produttori mi dicono che il Superiore si vende. Ma è poca cosa, rispetto ai quantitativi (e alle potenzialità) del doc.
Perché è accaduto? Credo sia successo perché sul mercato esistono quelli che ho il vezzo di definire «prezzi di supporto». Sono i prezzi «base», quelli che effettivamente supportano una certa filiera di prodotto. Con la nascita del Bardolino Superiore docg, il «prezzo di supporto» della filiera bardolinista restava, ovviamente e inevitabilmente, quello del doc. E questo prezzo «base» avrebbe potuto resistere alle quotazioni usuali solo se il valore commerciale del docg fosse stato sensibilmente più alto, in modo da far emergere un chiaro spread fra le due tipologie. Nel momento che invece il Bardolino Superiore è uscito con quotazioni oggettivamente poco discoste da quelle del doc, era inevitabile che, per garantire lo spread, la quotazione del doc venisse spinta in basso. Così la pensavo (e la penso). Sarà anche stato casuale, ma si è verificato proprio questo problemuccio. Ma non voglio atteggiarmi a esperto d’economia, né a profeta (quelli, poi, fan quasi tutti una brutta fine), e dunque ammetto: è stato un caso.
Qui entra in ballo il Valpolicella. Già, perché quest’anno, in quest’ultima vendemmia, ha cominciato a circolar la voce di quantità grosse d’uva in appassimento, di aziende che hanno deciso d’abbandonare il Valpolicella base per puntar tutto sul Superiore, magari di Ripasso, e sull’Amarone. Non so se risponda al vero. Ma dico: attenti, ché si rischia l’effetto Bardolino. Se sparisce il Valpolicella «basic», scompare anche il suo riferimento come «prezzo di supporto». E dunque dovrà scendere la quotazione del Superiore, perché sarà questo il nuovo prezzo su cui poggia la filiera. Spero di sbagliarmi. Anzi, sono sicuro che mi sbaglio, che son solo fantasie (malinconie) mie, dato che non ha cognizione di macroeconomia. Però le scrivo.
Ritorno al Bardolino. Ché c’è, mi spiegano, anche un grattacapo strutturale. Questo: tante vigne lacustri e d’entroterra sarebbero di proprietà di gente che ci ha investito per fini diversi dalla produzione dell’uva e del vino. Attenti: tutto lecito. Semplicemente, s’è trattato d’investimenti fatti per diversificare le immobilizzazioni in tempi di caduta dei tassi. Magari sperando – ed anche questo è comprensibile e lecito - che prima o poi il piano regolatore trasformi l’area da agricola a residenziale. Oppure puntando tutto sul caseggiato rurale da trasformare in villetta, che ha quotazioni, queste sì, siderali. Se quest’è vero, è chiaro che su quelle terre si fa uva giusto per non tagliar per terra le piante. Dunque c’è in giro tanta roba che non mira alla qualità, che si trasforma in massa di vino di livello magari semplicemente decoroso. Da destinare all’esigenze d’una rete di commercianti che non hanno nelle vene spirito bardolinista, passione di terroir. Gente che, lecitamente pur’essa - ci mancherebbe -, compra cisterne e le piazza là dove c’è richiesta, al prezzo che trova. E i prezzi scendono. E se a servirgli è il Bardolino, perché ha il prezzo «giusto», compra e vende Bardolino, e sennò fa lo stesso piazzare Nero d’Avola o Montepulciano o insomma quello che vuole il mercato di sbocco di quel preciso momento a quel preciso prezzo.
Se quest’è vero, è chiaro che qui serve ridar ordine all’intera filiera. Serve un nuovo patto fra le parti. O forse serve pattuire quanto non è mai stato prima pattuito. Occorre trovare il punto d’equilibrio, di convergenza, fra vignaioli «puri», proprietari di vigna «per caso», piccoli produttori, negociants di qualità, cantine sociali, cisternisti, ché tutti han dignità su un mercato complesso come quello del vino. E questo patto non è dilazionabile, pena la prosecuzione del loop, dell’avvitamento, della crisi.
C’è adesso l’altro tema, quello della qualità. Anche qui ci sarebbe da discutere. O meglio, da fare. Ché manca – ed è mancato troppo a lungo – un tavolo in cui si progettasse davvero la «giusta» qualità del Bardolino. La riprogettazione, intendo, dei cratteri somatici del Bardolino e del Superiore. E se oggi sono parecchi i Bardolino di cui non disdegni il bicchiere – e quest’è un bene, ovvio, ed è anche un bel punto di partenza – son per converso pochissimi quelli che puntano davvero in alto, che hanno personalità e classe e finezza. Ed anche questa convergenza verso l’alto non è dilazionabile. Qui un’idea ce l’avrei, ma forse non è il momento e la sede.
Dico ancora però – e infine - che manca uno studio. Quello dell’effettiva percezione che del Bardolino hanno i mercati di sbocco. Attuali e potenziali. Perché non si può progettare senza conoscere. Mi si obietterà che con le quotazioni d’oggi mancano i quattrini per fare una ricerca del genere, così come latitano i denari per la promozione. Balle: io non ci credo che il cane si mangi la coda. A latitare è la progettualità. Se c’è un progetto serio, i schèi saltano fuori. Ci credo.

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