giovedì 16 novembre 2006

Bando agli indugi: io sto col tappo a vite

Angelo Peretti
Lo dichiaro pubblicamente: io sto col tappo a vite. A costo di beccarmi improperi di tutti i tipi. Vigneron, usatele ‘ste nuove tappature. Bevitori, compratele ‘ste bottiglie di nuova concezione. Ci salveranno. E cerco di spiegare perché la penso così. Partendo da Merano.
Ma dico io: uno paga settanta, diconsi settanta, euro per andare ad assaggiare dei vini, e poi non s’accorge neanche di quel nauseabondo odore di tappo? Eppoi, uno? Macché: decine.
Con ordine. Luogo: Merano, dicevo. Occasione: Wine Festival. M’avvicino alla postazione d’un produttore di Gattinara. Mi versa l’ultimo goccio, ma proprio l’ultimo, d’una sua bottiglia. Puzza di tappo da far paura. Guardo allibito il vigneron, e chiedo: «Ma fino ad adesso non gliel’ha detto nessuno che sa di tappo?» E lui, allibito: «No, nessuno». L’hanno bevuta tutta, la bottiglia: considerando che, vista la quantità versata, una boccia dà almeno una ventina di porzioni, vuol dire che a non essersi accorto di niente sono stati in tanti. Roba da matti.
Ora, mi domando quale sia la motivazione – per me un mistero – che spinga la gente a sborsare tutti quei soldi per andare a una fiera a trangugiar liquidi alcolici senz’accorgersi se quel che mettono in bocca è accettabile, se insomma quanto meno non genera un tanfo insopportabile. Epperò non è di questo che voglio scrivere stavolta, bensì proprio del problema dei tappi. Che è grosso assai. E a Merano ne ho avuta conferma su conferma: dei primi venti vini provati, un terzo abbondante aveva, più o meno accentuato, l’inconfondibile difetto. Una percentuale drammatica. A un produttore di Riesling alsaziano ch’esponeva nella vicina Naturno è andata anche peggio: dodici bottiglie «tappate» su dodici. Da spararsi: partire dalla Francia per esporre in Südtirol e non aver neppure una boccia presentabile.
Già: un problema ‘sti tappi. E mica solo per la faccenda del tricloroanisolo (in sigla tca), l’agente chimico, presente a volte (e ormai le volte son tante) chissà come e perché nel sughero e che è il vero responsabile del cattivo odore assunto dal vino. Macché. A qualche produttore negli ultimi anni è capitato di dover ritirare dal mercato qualche migliaio di bottiglie perché contaminate dalle colle, dai solventi, dai lavaggi, dai perossidi, da quant’altre diavolerie ci s’inventa nella lavorazione dei tappi. E i danni sono grandi, anche in termini di reputazione, di perdita di clientela. Insomma: brutta rogna.
Ci hanno provato, si sa, a farli sintetici, i tappi. Di materiale plastico (di silicone, s’usa dire, anche se poi silicone non è). Ma, oggettivamente son bruttini. E poi non mi pare abbiano dato gran risultato in termini di tenuta.
E allora? Allora il futuro, per me, è nel tappo a vite. Quello di nuova generazione. Quei tappi che chiamano screwcaps, e se non guardi bene la bottiglia neanche te ne accorgi che non è chiuso al solito modo tradizionale. Quei tappi insomma che non sono neppure male in fatto d’eleganza. Certo, mancherà un po’ la poesia della levatura del turacciolo. Ma che poesia c’è a buttar nel lavandino il vino perché sa di tappo?
Si parla magari di vini da bere giovani, nei due-cinque anni. Mica di più. Lasciando il (poco) sughero sano esistente alle bottiglie da far invecchiare a lungo. E qui il sughero credo sia ancora insostituibile.
All’estero si sono già svegliati da tempo, sulla questione del tappo a vite. Quest’anno è intorno al novanta per cento (novanta!) la quota di chiusure a vite utilizzate dai vignaioli della Nuova Zelanda (eh, sì, fanno il vino anche là, ed alcuni - i Sauvignon della Baia di Marlborough, per esempio – sono dei fuoriclasse). Lo diceva in giugno a MiWine, la fiera milanese, David Skalli di Wine Evolution Network. La progressione del tappo a vite in terra neozelandese è stata impressionante: nel 2000, era usata sul 2% appena delle bottiglie, nel 2005 la quota era già del 72%.
Nei giorni di MiWine, Skalli venne intervistato dal magazine on line WineNews. Diceva che all’estero, e in particolare laddove non c’è una cultura radicata in materia di vino, «il tappo a vite non è visto di cattivo occhio e in futuro potrebbe ‘sigillare’ buon parte dei vini compresi nella fascia di prezzo sotto gli 8 dollari. A facilitare la diffusione della vite ci sta pensando poi lo stesso mercato. I consumatori stanno iniziando ad apprezzare la possibilità di aprire facilmente una bottiglia e altrettanto facilmente richiuderla se non completamente terminata».
Si potrebbe obiettare: ma sì, è roba da gente che di vino non sa niente: Nuova Zelanda, Australia, Sudafrica. Invece no. Invece è ora di svegliarsi. Ché le cose stanno cambiando. In fretta. E se ne stanno accorgendo anche personaggi insospettabili. Uno su tutti: Quinto Chionetti.
Chi sia Chionetti forse non tutti lo sanno, perché non dovunque è inuso tracannare bottiglie di Dolcetto di Dogliani. Ecco, Chionetti è la tradizione del Dolcetto. Classe 1925. Ottant’anni e passa. Autore - da sempre - di bottiglie d’altissimo livello. Un mito. Se fossimo in Valpolicella, sarebbe il Quintarelli della situazione, giusto per fare un paragone. Ebbene: Chionetti passa al tappo a vite. A darne l’annuncio è mica un comunicatore qualunque, però. No: ne ha parlato, sulla Stampa, in settembre, nientemeno che Carlin Petrini, lui, il fondatore di Slow Food, altro baluardo della piemontesità. «Tra i tantissimi argomenti di cui abbiamo parlato – racconta Petrini a proposito d’un incontro col decano Chionetti -, è presto saltata fuori la novità dei tappi che lui ha iniziato a impiegare per sigillare le sue preziose bottiglie. Me l’ha anche mostrate, queste bottiglie: hanno una particolare chiusura a vite che da un parte scongiura il temuto, ormai frequentissimo ‘sentore di tappo’, dall’altro dovrebbe garantire la tenuta perfetta del vino nel tempo. Se vogliamo, la novità - che poi è tale fino a un certo punto - ha il sapore di una provocazione. Ma una provocazione bene ragionata».
Ora, se uno come Chionetti se la sente di fare il salto, e se uno come Petrini non lo disapprova manco per niente, non è che agli altri piccoli produttori nostrani possa venire in mente che quest’è la strada giusta? Invero, qualche segnale l’avverto. Un noto consulente veronese m’ha confidato – proprio a Merano – che sta pensando a un bianco, importante, da imbottigliare col tappo a vite. Da un’aziendina tra le migliori che ci siano in area gardesana mi viene la notizia del (probabile) passaggio alla vite per la nuova annata del rosè. Bene, benissimo. Se non ci pensano le realtà maggiori dimensionalmente (ché quelle tappano già a vite, ma solo per il mercato estero), la rivoluzione la facciano i piccoli. A vantaggio dei consumatori, che spenderanno i loro quattrini senza il rischio di dover buttare via la bottiglia perché puzza di tappo. A vantaggio anche dei sughereti, che, sfruttati all’eccesso come sono oggi, rischiano la scomparsa.
Qui da noi, in Italia, c’è un duplice blocco. Il primo è culturale: facciamo fatica a rinunciare alla tradizionale chiusura col sughero. Il seconso è la legge: il disciplinare di molte doc italiche non prevede il tappo a vite, e per di più la normativa sui vini docg li esclude proprio. Ma fuori dai patrii confini scalpitano. Al punto che uno che conta – parecchio - sul mercato britannico del vino, David Gleave, leader di Liberty Wines (badate: l’azienda commercializza marchi italiani come Allegrini, Pieropan, Isole Olena, mica roba da poco), ha preso carta e penna e ha scritto una lettera al Ministro per le politiche agricole Paolo De Castro, perché riveda il decreto ministeriale del ‘93 che obbliga all’uso del sughero per i vini docg. E adesso invita tutti a far la stessa cosa.
Sul sito di Liberty Wine mette a disposizione il testo della lettera da spedire a De Castro: la trovate, anche in italiano, cliccando qui. E spiega così la faccenda: «Riteniamo che ai produttori italiani di vini docg dovrebbe essere data la stessa libertà che hanno i produttori di vino di ogni altra parte del mondo di usare il tipo di chiusura (sia questa realizzata in sughero naturale, tappo a vite, vinolok o a corona etc.) che ritengono si adatti meglio al loro vino. Come probabilmente sai, a questi produttori tale scelta è attualmente proibita da un decreto ministeriale. Non importa da quale parte del ‘dibattito sul sughero’ tu sia schierato, noi crediamo che ai produttori dovrebbe essere consentito scegliere il tipo di chiusura che prediligono, senza che questo li porti ad infrangere la legge; chiediamo quindi alle persone di scrivere al Ministro italiano dell’agricoltura per chiedere che questo decreto venga revocato».
Non è una richiesta da poco. Aggiunge Gleave che dall’autunno del 2000, da quando cioè ha cominciato a commercializzare vini con chiusure alternative, le vendite son cresciute in modo esponenziale. I consumatori britannici le chiedono, le vogliono. Soprattutto, le comprano. Facciamolo anche noi.
Se proprio non volete andare a cercarvela, ‘sta benedetta lettera proposta da Gleave, ve la riporto qui sotto (in italiano, che correggo un pochetto da un paio di errorucci di traduzione). Così la leggete meglio. Io, comunque, ci sto, e scrivo al Ministro.
Libertà di tappo, vivaddìo.

Fac simile della lettera da inviare al Ministro De Castro
Att. Dr Paolo De Castro
Politiche Agricole Alimentari e Forestali
Via XX Settembre, 20
00187 ROMA

Egregio Dr. De Castro
Con la presente desidero sottoporLe un problema che ha e continua ad avere un effetto negativo sulle vendite e sull’immagine del vino italiano sui mercati esteri.
(se siete operatori, inserite qui la vostra presentazione e l’indicazione dell’attività)
Abbiamo assistito nell’ultimo decennio, da parte di numerosi produttori di vino in tutto il mondo, all’adozione di chiusure alternative al sughero, movimento stimolato ed incoraggiato da due principali fattori:
- il continuo elevarsi del tasso di incidenza di vini con sapore di tappo
- la migliore garanzia di freschezza offerta dal tappo a vite.
Il movimento, voluto e promosso originariamente da produttori australiani e neozelandesi di vini di alta qualità, è stato accolto favorevolmente da altri produttori in Francia, Germania, Cile e gli Stati Uniti. Il valore medio dei vini confezionati con tappo a vite in commercio sul mercato inglese varia dalle 5 alle 50 Sterline, questo a indicare la collocazione di questi vini nella fascia di prodotto di alta qualità.
I produttori italiani, solitamente tempestivi nell’adozione di tecnologie migliorative, sono stati molto lenti nell'approccio a questa innovazione, principalmente per le restrittive norme italiane in materia.
I produttori delle zone doc come Isonzo e Soave sono riusciti, attraverso i Consorzi di Tutela, a modificare i loro disciplinari di produzione così da poter essere autorizzati all’uso del tappo a vite. Altri Consorzi di Tutela, come il Gavi ed il Chianti, non riescono ad avere libera scelta in questo caso, in quanto il Decreto Ministeriale del 7 luglio 1993 obbliga l’uso del tappo di sughero per i vini con classificazione docg.
L’attuale situazione va a discapito dei produttori italiani, che, non avendo la possibilità di scegliere, non riescono a concorrere ad armi pari sul mercato internazionale ed a soddisfare le richieste del consumatore, che allo stato attuale richiede sempre maggiormente il tappo a vite.
Per quanto riguarda il consumatore, la situazione e ancora più complicata. Non ha senso che i vini docg in bottiglie da 50cl o meno possano essere chiuse con tappo a vite, mentre quelle da 75cl ed oltre no!
Con la presente La prego di prendere in considerazione la possibilità di modificare il DM del 7 luglio 1993, dando libera scelta ai produttori italiani sul metodo di chiusura da utilizzare per i propri vini.
Distinti Saluti.
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Stampate, firmate e spedite. Se non volete spendere i soldi del bollo, usate l’e-mail: l’indirizzo è stampa@politicheagricole.it

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