Angelo Peretti
«Non ti sopporto più, lo giuro»: mi pare cantasse così Zucchero Sugar Fornaciari agli esordi, fortunatissimi, della sua carriera. Be’, io, giuro, non sopporto più i fiorellini, i ramoscelli, le erbette. Quelli superflui che ti mettono nei piatti come guarnizione, intendo. Non ce la faccio proprio più a tollerarli: basta, per favore, basta!
Sì, lo so, faccio la figura del rompino coi ristoratori, che già ho bacchettato qualche tempo fa con la pretesa d’avere i piatti piatti anziché certe stoviglie che sembrano sculture. Ma che volete farci: è più forte di me. Amo andare al ristorante. È un piacere. Dev’esserlo. Come andare a teatro, a un concerto. Ma vi figurate che strazio assistere a una grande performance musicale, a un’avvincente piece teatrale su una sedia scomoda e col vicino che continua a chiacchierare con l’amichetta di turno? Ecco, al ristorante voglio essere a mio agio, pergustarmi la mia sana ora di relax. Quindi: niente fronzoli nel piatto.
Ultimo episodio qualche sera fa. Bigoli con la carne tagliata a coltello, profumo che sale invitante, acquolina che già invade il palato. Ci siamo: mi dico. In mezzo, piantato a mo’ di bandierina, ohibò, una ciuffetto di rosmarino. Vabbé, penso tra me e me, pazienza: lo sposto. Tolgo il rametto, e già questo mi fa un po’ incacchiare, ché non sai mai dove infilarlo. Arrotolo gli spaghettoni e... c’è qualcosa che non va. La parte di pasta a contatto con ramoscello ha preso troppo sapore, e siccome è estate e non piove, il sapore in questione è un po’ troppo amaro, ché il rosmarino s’è quasi rinsecchito. Ergo: piatto non dico rovinato del tutto, ché comunque era apprezzabile, ma certo meno buono di quello che poteva essere.
Dico io: ma dovete proprio mettercele ‘ste guarnizioni sui piatti, cari amici cuochi? Perché non servite la roba che si mangia e basta? Intendo: quel che c’è sopra il piatto devo avere il diritto sacrosanto di mangiarmelo tutto, senza star lì a pensare se sia cibo o fronzolo. Le guarnizioni tenetevele voi. Quando a casa vi fate due penne col pomodoro, ci mettete sopra il fiorellino? No? E allora perché me lo rifilate a me?
Niente ramoscello di rosmarino, niente fogliolina di alloro, niente ciuffetto di prezzemolo, niente virgulto di salvia, niente rametto di timo, niente frasca di santoreggia. Niente di niente che non sia roba edibile, che non appartenga alla ricetta, che non sia intimamente connaturato a quel che ho ordinato.
Il peggio del peggio è la foglia di menta, che ha un aroma così intenso che finisce per inquinarti qualunque cibo tu abbia chiesto.
O forse no, di peggio c’è lo zucchero vanigliato, quello che si usa definire «a velo». Te le spolverano in media nove volte su dieci che ordini il dessert. E finisce per rovinarti nove dessert su dieci, con quella sua chimica presenza di vanillina. Ma dico io, se ho chiesto, che so, un dolce al cioccolato, perché devo alterare il gusto del cacao sovrapponendoci quello dello zucchero a velo cosparso sul piatto? Peggio ancora (e mi rendo conto che sto scrivendo un’escalation di peggio): se ho preso la frutta perché voglio evitare calorie eccessive, perché me le cacciate lo stesso nel piatto in forma di polverina bianca zuccherosa? Avverto, qualunque sia lo chef che mi legge: la volta prossima il piatto ve lo mando indietro. Ve lo mangiate voi lo zucchero vanigliato se non c’entra una beata fava col dessert che ho ordinato.
Stessa cosa dicasi del cacao: se non c’è zucchero a velo, allora l’ala del piatto del dessert la riempiono di cacao. Che poi finisce quasi sempre – cacao o zucchero è lo stesso - che potresti rilevare le impronte digitali del cameriere, visto che gli risulta impossibile portati il piatto senza mettere il ditone sopra alle polverine, lasciando lo stampo, antiestetico e un po’ schifoso.
Dicevo prima: con le erbette e i fiorellini c’è anche l’imbarazzo di dove riporli. Già. T’arriva il piatto, c’è l’immangiabile, inatteso ramoscello. Devi levarlo di mezzo per poter cominciare a rosicchiare. Ma dove cacciarlo? Sulla tovaglia no, perché sporca, essendo intriso inevitabilmente di sugo, di unto. Il posacenere, grazie a Dio, non c’è più, perché finalmente il fumo è vietato al ristorante (a quando il divieto anche nei dehors? è pur vero che sei all’aperto, ma se tu non fumi e anzi il fumo di fa venire il mal di testa e invece la signora – ché in genere son sempre le donne – del tavolo a fianco continua a pippare, te lo becchi tutto in faccia il fumo della sua sigaretta). Per terra, oggettivamente, non è carino. Finisce che lo metti sull’ala del piatto, e ti tocca continuare a contorcerti per sforchettare il sibo senza far cadere l’assurda guarnizione appena rimossa.
Ah, sia chiaro: la stessa cosa vale per la fettina di carota tagliata col bisturi, la zucchina cruda lavorata a coltellino, il rapanello con la faccina da topo e quant’altri orpelli inventi la malsana creatività dei cuochi in vena di decorazione. Cari chef, volete fare scultura? Iscrivetevi ad un’accademia d’arte e dedicatevi all’argilla, al legno, al marmo. Vi piacciono i fiori? Datevi al giardinaggio. E magari fate in modo che sul tavolo ci sia una piccola caraffa con dentro un fiore fresco: quello sì che è il suo posto. Ma nel mio piatto no, no e poi no.
Visto che ci siamo, dico anche che non sopporto un altro viziaccio dell’italica ristorazione. Quello di riempirti il tavolo di perline, vetruzzi colorati, soprammobili mignon. Che secondo qualcuno fanno figo il locale, E invece no, fanno disordinato il tavolo. La tovaglia la voglio pulita: gli attrezzi che mi serviranno per mangiare, i bicchieri e stop. A parte la caraffina col fiore, se volete, o un semplice centro tavola. A condizione che fiore e centrotavola non puzzino, ché sennò m’alterano i profumi del cibo e del vino. E che il tavolo sia sufficientemente ampio da farci stare piatti, posate e bicchieri comodamente, ché invece li comprano sempre più piccoli ‘sti tavolinetti, e finisce che continui a spostare il vasellame sperando di starci.
Poi dicono: la ristorazione è in crisi, chissà perché. Ma se devo tribolare per mangiare, tanto vale che mangi a casa mia. Una serata al ristorante dev’essere un piacere. Se non c’è quello, inutile che il cibo sia buono. Ammesso lo sia davvero. E adesso finisce che mi viene un sospetto: non è che guarniscono perché non sono tanto sicuri della validità del piatto? Lo so, esagero. Ma questa è un’altra storia.
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