Angelo Peretti
Apodittico. Non mi ricordo che me l’ha appioppato, quest’aggettivo. Disse che il mio parlare era apodittico. Leggo sul vocabolario - dal Devoto-Oli - che apodittico lo si dice «di ciò che filosoficamente, essendo evidente in sé, non ha bisogno di dimostrazione, o se dimostrato è logicamente inconfutabile». Un altro dizionario spiega che sta per «indiscutibile, inoppugnabile; che non può essere contraddetto». Essendo sicuro che il tale che m’apostrofò con l’apodittico non voleva darmi del filosofico narratore di verità assolute, credo intendesse che il mio parlare era un po’ tranchant, senza mezzi termini. Come spesso m’accade.
Di recente, m’è stata fatta quest’osservazione - e cioè che son senza mezze misure - dopo che avevo detto la mia sul pinot nero. Mi si domandava dove si potesse farne dell’ottimo. Ed ho affermato che la soluzione è una e una sola: Borgogna. Altrove, non dico che si debbano estirpare le vigne, ma non c’è storia o quasi in confronto coi pinot noir borgognoni. Credo che questo veramente sia apodittico. Indiscutibile, intendo.
Ora, sono stato lietissimo di leggere una simile e ben più autorevole ed argomentata affermazione sul bel libro di Daniele Cernilli che trovate in ogni libreria: s’intitola «Memorie di un assaggiatore di vini» ed è edito da Einaudi.
Daniele, come credo sappiate, è curatore di Vini d’Italia del Gambero Rosso & Slow Food. Lato Gambero. Del pinot nero esalta prima le performance borgognone, e scrive poi così: «In altre zone quasi mai si esprime su livelli qualitativi paragonabili a quelli che raggiunge in questa piccola striscia di terra fra Dijon e Beaune. Ci hanno provato e ci provano tuttora in molti, in Alsazia, in Champagne, in Alto Adige, in Toscana, persino nel lontano Oregon, in California o addirittura in Nuova Zelanda e in Cile. Ma non c’è nulla da fare, basta un medio Nuits-Saint-Georges o Chambolle-Musigny in annata giusta per mettere in fila ogni possibile competitor delle altre zone».
Questo è parlare chiaro. E sottoscrivo non una, ma due, dieci, cento volte. È pur vero che qualche buon pinot altoatesino l’ho bevuto, e ricordo con piacere una serata d’un paio d’anni fa col Barthenau - il Vigna Sant’Urbano - di Hofstätter e col St, Valentin della Cantina Produttori San Michele Appiano al Vecchia Malcesine di Leandro Luppi, unico chef stellato dalla Michelin sulla riva veneta del Garda. Ma è altrettanto vero che quando stappi Borgogna, anche senza prendere un grandissimo (e costosissimo) classico, be’, non ce n’è per nessuno. In termini di finezza e d’eleganza e d’armonia. Che è poi l’essenziale d’un vino.
Detto questo, torno al libro di Cernilli. E ne consiglio come s’usa dire «vivamente» la lettura per l’estate. Perché è denso di spunti intriganti ed è scritto con penna felice. Godibile e saggio. Ed è sì memoria autobiografica, ma è pure profonda riflessione sul vino e sulla piacevolezza che sa dare. Ed è anche manuale vero, ché alla fine c’è una bella serie di «istruzioni per l’uso» rivolte a chi al mondo enoico si voglia avvicinare o anche a chi, già aduso al buon bere, voglia far utile ripasso di nozioni.
Dà poi, Cernilli, una personale classifica. Di cinquanta vini. Quelli che gli sono, in assoluto, più piaciuti. Senza limiti geografici. Di diverso prezzo, da quello popolare, allo stellare, irraggiungibile per le tasche plebee. Consigli da segnare per bene. Ed altri se ne trovano leggendo le pagine di queste «Memorie».
Leggetele davvero questi librino, che in altri tempi si sarebbe definito «aureo», fatto d’oro più che di carta: è un’ottima lettura. E costa poco: 12 euro ben spesi.
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