Angelo Peretti
Michele Tessari ritiene d’avere in cantina, quest’anno, tre jolly. Me l’ha detto al Vinitaly. Con orgoglio. Ma credo si sbagli. In realtà, i suoi jolly potrebbero esser quattro. Addirittura. Due bianchi e due rossi.
La Tessari family è quella di Cà Rugate, gente che fa vino – e vino buono, gran buono – a Montecchia di Crosara, in Val d’Alpone, est della provincia di Verona. Quest’anno ha avuto i tre bicchieri da Vini d’Italia – Slow Food & Gambero Rosso – per il Soave Classico Monte Fiorentine del 2004. Riprovato di recente, m’è sembrato di nuovo degnissimo del successo (chi volesse rileggerne le note di degustazione può cliccare qui). Ergo, in fiera non ho resistito alla tentazione di testare il 2005, da poco in bottiglia. Ed è buono assai anche questo. Epperò non c’è solo il Monte Fiorentine. Ha ragione Michele. Che è convinto che siano di valore alto anche il Bucciato, altro bianco, e il Valpolicella Superiore. E ha torto, ché a mio vedere c’è pure un gran bell’Amarone. E santiddìo non me l’aspettavo quest’exploit rossista in un’azienda (e una terra) che per me resta a vocazione prevalentemente bianchista.
Ora, in ordine d’assaggio. Cominciando – ovvio – dal Monte Fiorentine. È in bottiglia da metà febbraio, dal 16 per la precisione: lo so, e lo potete sapere anche voi, perché i Tessari han preso la saggia abitudine di scrivere in contro-etichetta la data d’imbottigliamento. Non serve chiedere: basta leggere. E che dire del vino, se non che è lui, è il Monte Fiorentine che t’aspetti? Il naso è quello: un’esplosione di fiori e di frutto bianco, con l’aggiunta però di quella vena minerale che fa nervosi e tesi i migliori Soave. In bocca è scattante e fresco e ricco insieme di materia e vibrante di note agrumate. Ha un equilibrio che fa invidia, lunghezza avvincente. Gran bianco, di nuovo. E visto che ci sono, un’anticipazione: sappiate che in cantina hanno fatto la scelta d’imbottigliare millecinquecento magnum. Secondo me, da comprare prima che se n’accorgano tutti (e il prezzo non è impegnativo). Da mettere via, al buio della càneva, ché quest’è bianco capace di dare ancora di più con l’affinarsi. Insomma: il primo jolly è bell’e pescato.
Seconda carta buona: il Bucciato 2004. Anch’esso da uve di garganega, ma fuori della doc soavese. È in bottiglia dal 24 di gennaio. Atipico, scontroso, con quella nota quasi scorbutica che trae dalla sosta – breve, in verità – sulle bucce dell’uva madre. Vino difficile, eppure bianco che m’intriga sempre. Forse mai negli ultimi anni buono come in quest’edizione. Vestito d’intense, penetranti sensazioni di fiori di camomilla, venato quasi di miele d’acacia. Grasso. Con la frutta secca – la noce matura – che t’ammalia nel finale. E mineralità indomita. Vino strano, convengo, ma personale, molto. Inusuale è anche l’imbottigliamento: mezzo litro, magnum e doppio magnum, saltando a pie’ pari la solita boccia da sette e cinquanta.
Adesso i rossi, di cui m’ostino a sorprendermi, ché Cà Rugate – l’ho detto - nel mio immaginario resta azienda vocata al bianco, e invece dovrei mettermelo in zucca che coll’ultima vendemmia i Tessari sono arrivati al quint’anno d’esperienza in campo rossista-valpolicellese. Bruciando le tappe. Con Michele pronto a scommettere sul Valpolicella Superiore Campo Lavei del 2004. Che in effetti è gran Valpolicella. E troverà consensi fra degustatori & bevitori, son sicuro, così com’è stato, del resto, per il 2003. Ché non può davvero passare inosservato col suo rubino denso e quasi impenetrabile e certamente di bell’eleganza. Propone all’olfatto il frutto rosso. È la ciliegia che domina e s’impone a spallate, quasi. Quella ciliegia mora che ha in Val d’Alpone patria d’elezione. E c’è anche cenno di fiore macerato. Poi la bocca, possente e tannica e magari ancora un po’ scomposta, ovvio, visto che il vino è nella bottiglia solo dal 9 di marzo. Ma fa già presagire una stoffa di gran lusso. Tanta, tanta materia. Ed eleganza, anche, ché non ha le magagne di certi ripassi, ed anzi il ripasso sulle vinacce dell’Amarone non lo fa neppure, ché i Tessari preferiscono la freschezza di frutto (s’usa, invece, un quaranta per cento d’uve appassite). Un vinone, che piacerà a chi ama i rossi opulenti (anche se io continuo a preferire altre scuole, e la concentrazione la ricerco in tensione di beva più che in pienezza: Bordeaux docet). Ed è, comunque, il terzo jolly, non c’è dubbio.
E la quarta matta del mazzo? La quarta è l’Amarone del 2003. Che riposa ancora in botte e se n’uscirà solo a settembre-ottobre e dunque ho assaggiato – ah, il privilegio di chi scrive di vino! – en primeur. Ma per me è già buono e buonissimo. Anomalo, sicuramente, così come stramba e – spero bene – irripetibile è stata la calura di quell’anno. Eppure non ha frutto cotto dal sole. Propone invece, elegante, un bouquet di fiori secchi, ampio e avvolgente, e impreziosito da note di scorza – essiccata anch’essa – d’arancia e poi la cannella e il garofano e una vena balsamica sottile. Sembra insomma di trovarsi davanti uno di quei cestini che van di moda da qualche tempo per profumare i soggiorni di casa (o le stanze dei ristoranti). La bocca ha il frutto sotto spirito e spezia e rabarbaro e vena terrosa, di terra rossa. Bocca fascinosa, per me. E magari a tutti potrà non piacere, e taluni anzi ne saranno spiazzati. Ma è il quarto jolly: lo pescherei volentieri.
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