Angelo Peretti
Che mondo complicato quello delle cantine sociali. Perché sono molteplici e a volte quasi contrastanti le vie intraprese di sviluppo e di crescita o solo di conservazione, di mantenimento della specie. Eppoi perché intricatissimi e di difficile comprensione appaiono così sovente i rapporti interni, fra soci e amministratori. Gineprai. Sabbie mobili. Da mal di testa. Con la politica che fa inevitabilmente capolino fra le bottiglie.
Ma mica sempre le cose son così ostiche, ammetto. Perché capita invece d’avere esempi – fortunatamente son sempre di più – di cooperazione moderna, dinamica, capace di star da leader sul mercato. Leader in termini di volumi, in qualche caso, e in altri anche in materia di qualità. Tant’è che da qualch’anno non ci si stupisce per niente se i massimi verdetti delle guide – e gli acquisiti degli appassionati – premiano etichette cooperativistiche. E invero sarebbe dura – e dura assai - dire che non sian grandi vini, che so, certi crû dei Produttori del Barbaresco o il Gewürztraminer Nussbaumer della Cantina Produttori di Termeno o l’acclamato Sauvignon St. Valentin di San Michele Appiano. Ma questi sono big.
Un bell’esempio di cantina sociale che ha intrapreso con determinazione la via della qualità l’ho trovato in Oltrepò Pavese. O meglio, a Vinitaly, al piano della Lombardia, ché in Oltrepò non ci sono ancora stato a cercar vigne e cantine, ed è mancanza che dovrò presto colmare. Dico della Cantina di Casteggio, sorpresa bella. E bella molto.
Se non ricordo male, credo me n’avesse già parlato mesi e mesi fa Marco Sabellico, del Gambero Rosso. Ma me n’ero poi scordato.
L’incontro veronese è stato quasi fortuito. Sommerso dalle mail dell’ufficio stampa della regione lombarda, ho capitolato, iscrivendomi al wine tasting dell’Onav sugli spumanti rosè dell’Oltrepò. Degustazione ben condotta (bravi gli onavisti del padiglione lumbàrd), con cinque bollicine cinque, che è poi tutta l’attuale produzione ultrapadana. Delle cinque, una sola m’ha bene impressionato, non tanto per chissà quale potenza espressiva, bensì per la pulizia, la composta, piacevolissima semplicità. Era il Postumio Rosè della Cantina di Casteggio. Ma il suggerimento di Sabellico ancora non mi sovveniva, a quell’assaggio.
Un par di giorni dopo, con un amico ristoratore, mi son messo in caccia di qualche pinot nero vinificato in bianco con le bollicine. Ed ecco che ancora a piacermi, pur esile, l’altro Postumio. Al che la visita allo stand era d’obbligo, per capire come diavolo facesse a far vino così accattivante questa Cantina di Casteggio. Cantina che ha un secolo di vita, suppergiù: mica nata ieri. Anche se di ieri – ieri l’altro al massimo – è la svolta. E quand’ho visto le altre etichette, m’è finalmente venuto in testa quanto m’era stato in passato suggerito. Quanto di buono intendo. E quanto buono in effetti è.
Attenti: buono per la gola e buono anche per il portafoglio, ché i prezzi sono – spesso - di quelli che ti vien voglia di comprare. E buono anche per il progetto, ché qui ci mette mano gente che sa il fatto suo. Ché il rilancio recentissimo – e direi la rinascita – del marchio è passato attraverso un progetto preciso. Che ha il nome un po’ usurato e francamente poco originale di «Vite Ambiente Qualità». E che s’avvale del supporto tecnico d’una firma di grido come quella di Riccardo Cotarella. Pproprio lui, Mister Merlot, l’uomo che ha «inventato» il Montevetrano, il Montiano, il Patrimo e tant’altri rossi di successo. Una garanzia. Discutibile fin che si vuole, ché tutti gli stili son discutibili. Ma una garanzia comunque, per chi quello stile lo ama.
Ora, torno ai vini. E ricomincio dai due spumanti. Che hanno il pregio del buon prezzo: sei euro e venti sullo scaffale della cantina sociale. Roba che vale il viaggio. Entrambi metodo classico, quello della rifermentazione in bottiglia: i francesi lo chiamano champenois, com’è noto. Il Rosè è tutto pinot nero. In etichetta dice: Oltrepò Pavese Pinot Nero Rosè Brut Postumio, nome un po’ lunghino, ma le doc italiane son fatte così. È in bottiglia trasparente, il che la dice lunga (ossiderebbe: la luce è letale) sul fatto che nasce per esser bevuto subito. Ha colore pastello che sfuma appena nel violaceo. Naso quasi burroso, di croissant appena sfornato, e bocca in corrispondenza. Aggiunge, al palato, della fragolina, piacevole piacevole. Non lo dovete paragonare con certi Champagne rosè che costano un occhio della testa, ma è buono. E semplice e buono è anche l’altro Postumio: leggasi Oltrepò Pavese Pinot Nero Brut. Naso floreale su una delicata base fruttata. Palato coerente.
Poi, un bianco imbottigliato da pochi dì. Un Riesling Italico dell’Oltrepò: 2005 l’annata, cinqu’euro e mezzo il prezzo. Ha vena aromatica intensa e per nulla sfacciata. E bella bocca, tesa e nervosa. Manca magari un po’ di lunghezza, ma – ripeto – l’ho provato ch’era appena appena mess’in bottiglia. Bel bianco, comunque.
Adess’i rossi. E comincio coll’Autari, re longobardo o di qualch’altro regno medievale. Barbera in purezza. Annata il 2004. Vino che m’è piaciuto tanto. Pienotto eppur bevibile e giocoso. Naso ricco di frutto. Fine davvero. Cenni di fiore che si sommano – di poi - al frutto. E bocca bella ed ampia e d’integro smalto, slanciata e fiera d’una giovanile baldanza. È infatti quasi vinoso, perfino. Da comprare, da bere e ribere, anche perché il prezzo è piccolino per un rosso del genere: cinque euro e cinquanta. Ho letto poi – dopo l’assaggio, a casa – ch’è stato finalista per i tre bicchieri. Wow! Meritato.
In finale per i tre bicchieri è andato anche l’altro rosso, il Console Marcello. Altra barbera, altro gioiello. E in finale ce l’avrei mandato anch’io, dritto filato. L’etichetta recita: Oltrepò Pavese Barbera Console Marcello. L’anno è il 2003. Il nome - mi si dice - è quello dell’eroe d’una battaglia romana dalle parti di Casteggio. Il vino è fatto con un’ulteriore selezione delle già selezionate uve che danno vita all’Autari. Olfattivamente è giocato sull’intensità del piccolo frutto surmaturo, sul pepe. Ha poi bocca avvolgente, ampia, persistente. Quasi ancor troppo giovane: un vinone. A sett’euro: segnatevelo in agenda anche questo.
Infine, il Longobardo. Un igt della Provincia di Pavia. Quaranta per cento di barbera, altrettanta croatina, un dieci ciascuno di pinot nero e di cabernet. Le masse s’affinano separate per un anno e poi s’assemblano. Questo costa decisamente di più – diciott’euro, mica poco – ma è rosso di livello alto. Ho bevuto (mica sputato: bevuto) il 2001, il vino della svolta in cantina sociale. Aristocratico, direi, e personale. Complesso. Con ricordi che vanno dal vegetale al fruttato, dalla spezia minuta al fernèt, alla china. Ha sì struttura possente, ma anche ottima beva, ed ero alla fine - sera - dell’ultima giornata del Vinitaly, provato, fiacco, stanco morto. Ho chiuso in bellezza.
Un salto a Casteggio, prima o poi, tocca farlo.
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