Angelo Peretti
Mi sono trovato in bella compagnia e poco pubblico qualche manciata di giorni fa a discutere in una tavola rotonda se agricoltura ed enogastronomia siano un valore aggiunto per la promozione turistica del territorio. Eravamo a Pozzolengo, in quel pezzo di territorio Bresciano che confina col Veronese e il Mantovano. E quand’è stato il mio turno, mi son permesso di dire che al quesito – così com’era formulato - era possibile dare due risposte. La prima: certamente sì che l’agroalimentare e il mangiarbere possono costituire un valore aggiunto per un’offerta turistica. La seconda risposta era però: echissenefrega.
Detto così, può sembrar qualunquista e offensivo. Ma le intenzioni erano diverse. Nessun intendimento d’offesa perché, come ho detto, ero fra bella gente per davvero, amici appassionati. Nessuna tentazione qualunquista, poi, perché la doppia, secca risposta andava spiegata, come ho cercato di fare e cercherò ora di metter nero su bianco.
Sul fatto che pan&vino e cucina e quant’altra ci sia da mangiare e da bere facciano tendenza, be’, mi pare che sia così ovvio che più ovvio non si può. Basta accendere la scatoletta magica della tv e da una parte o dall’altra, a ogni ora del giorno e della notte, ci trovate un cuoco o presunto tale alla prese con pentole, piatti e frattaglie, magari con sculettante squinzia scosciata e tettuta a far da corredo.
Dunque, sì, il cibo può essere un elemento in più nell’offerta turistica d’un territorio. Ma, si badi, solo un elemento in più, un corollario utile ma non indispensabile. Gardaland non ha bisogno di wine & food per funzionare, e funziona benissimo. Ecco perché dico che se voglio costruire un’offerta turistica «convenzionale» per un certo luogo, non me ne frega granché del fatto che quel luogo abbia anche buone cose da bere e da mangiare. Semmai, è un di più.
Mai dimenticarselo, c’è una marea di gente che va in vacanza senza pensare a cibo e vino. Vuol divertirsi, punto e basta. Anche se poi, magari, non si diverte per niente e torna a casa più stressata di prima. Ma questa è faccenda da sociologi e psicologi e altri ologi a vostra libera scelta.
E poi, lasciamo stare il mito del genuino. Mica vero che è genuino solo quello che è di territorio. Anzi: dal punto di vista igienico i prodotti industriali sono spesso ipergenuini, al punto che dentr’alle confezioni non c’è traccia alcuna di vita. Tutto reso sterile, asettico. Cibo da gente in batteria. Ma cibo che viene scelto da tanti e tanti.
Sentite questa. Un paio di giorni fa, in treno, c’era nello scompartimento una giovane donna - direi sui trent’anni - che non ha smesso un attimo di parlare al telefonino. Così non ho potuto fare a meno di sentire. Un passaggio della telefonata fiume m’ha lasciato di stucco. Riporto testualmente, ché m’è rimasta in testa, cercando di evitar punteggiatura per rendere anche la sequenza a mitragliatrice della telefonista ferroviaria: «In stazione ho comprato un panino cattivissimo ne ho assaggiato un boccone ma l’ho sputato faceva schifo adesso ho una fame che ho proprio voglia di qualcosa di buono e appena arrivo vado da Mc Donald». Avete capito? Aveva voglia di qualcosa di buono, e così appena giunta a destinazione si tuffava al fast food. Beata donna...
Come dite? Che son fuori tema? Nossiggnori. Il tema è proprio questo: a gente come la lady che Trenitalia m’ha occasionalmente fatto seder vicino del cibo&vino non interessa niente, ma proprio niente. Vuole vacanze di plastica e cibo usa e getta, altroché. Con tanto di salse dolciastre. La conseguenza? Quella che il turismo «classico» può benissimo far senza l’enogastronomia. Se c’è anche quella, tutto grasso che cola.
Il problema è un altro. Il turismo è industria e l’industria vuole specializzazione. Allora non devo pensare al turismo e basta. Devo pensare a «quale» turismo. Soprattutto se sono in un’area che il «suo» turismo lo deve ancora inventare, com’è il caso di Pozzolengo. Ed un’opzione possibile, in questo caso, è quella del turismo enogastronomico. Turismo specializzato. Esigente. Che non accetta mezze misure.
Allora, il quesito del convegno è da riformulare. Invece di dibattere se agricoltura ed enogastronomia siano valori aggiunti per la promozione turistica del territorio, occorre chiedersi se sia il caso – e come – di costruire un’offerta turistica che abbia al proprio centro il prodotto agroalimentare di pregio e la cucina di territorio. Questo è il nodo. Questa la scelta. Che fai ora o mai più.
Non c’è niente da fare: o il prodotto agroalimentare di pregio è al centro – lo ripeto e lo sottolineo - dell’offerta di turismo enogastronomico, o non c’è maniera alcuna di farcela.
L’enogastronomo non sceglie Gardaland per poi andare a mangiare in trattoria. Sceglie invece la visita ai produttori delle materie pregiate del territorio, la sosta al wine bar, la cena al ristorante, e, visto che è in zona, può anche pensare di fare un salto a Gardaland o al museo o nella tal chiesetta dagli affreschi trecenteschi. Ma, sia chiaro, il turista del cibo e del vino si muove per il cibo e per il vino: tutto il resto è corollario, è di più. Avete visto che la prospettiva è rovesciata?
Le conseguenze sono facili da intuire. Al generalismo va sostituita la specializzazione. E per far questo occorre che il piatto di territorio e il prodotto di pregio siano profeti in patria. Che tutti li conoscano nella zona d’origine. Che tutto nell’area parli d’enogastronomia. E quando dico tutto, intendo tutto (cartelli, pubblicistica, strade) e tutti. Intendo tutta la gente del luogo. Il benzinaio, il postino, il bancario, l’impiegato dell’anagrafe devono essere i testimonial del valore dell’offerta enogastronomica. E in questo vanno educati: la prima promozione la si deve fare verso di loro, facendoli conoscere ‘sti benedetti valori agroalimentari del posto.
Guai se il turista ghiottone arriva in un certo paese in cerca d’un prodotto di pregio e fermandosi a far benzina trova il gestore che di quel prodotto non ha mai neanche sentito parlare. Gira la macchina e se ne va: la fiducia è già crollata. Andate a vedere in Alsazia: tutto giro attorno alla strada dei vini, altroché. E questo rende davvero «credibile» l’offerta turistica incentrata sulla seduzione alimentare.
Coraggio, dunque, amministratori dei centri emergenti: fate la scelta, orientate le vostre località e le vostre genti al nuovo turismo dell’enogastronomia. Ché è turismo fatto da chi è disposto a spendere e ad apprezzare il piacere della vita. È bella gente, come quella che avevo accanto al convegno di Pozzolengo.
Coraggio, ripeto, ché è il tempo delle scelte. Anche urbanistiche, anche edilizie. Se davvero credete nel vostro primato agroalimentare, favorite l’adeguamento delle cantine, dei caseifici, dei forni artigiani, create i posti letto e le infrastrutture, ma salvate anche le aree agricole da cui si traggono beni preziosi, tutelate le biodiversità che amplificano il valore del vostro patrimonio. Questa sì che è qualità della vita.
Il turista? Quello arriva, se qualità c’è davvero.
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