Angelo Peretti
M’è venuto spontaneo domandarlo: «Ma il mare quant’è distante?». Perché quei vini, bianchi e rossi che fossero, sembravano avere un filo che li univa, e il filo era quello del profumo iodato, quasi salmastro. Profumo di mare. «In linea d’aria sarà a venti chilometri» m’ha risposto Emanuela. Eccola lì, la spiegazione. La mia, almeno. Il terroir che prevale. Il mare che entra nella campagna. Per finire nei vini, nella bottiglia. Vini marini fatti in terraferma
Sono stato a visitare l’azienda agricola Tessère, che Emanuela Bincoletto conduce a Noventa di Piave, nel Veneziano. Terra piana, col fiume che si è fatto grosso e fluisce verdastro e pigro verso l’Adriatico, fra plaghe argillose, limose. Più sopra, nel Trevigiano, aveva incocciato anche in ciottoli e sassi e pietrame.
Area vocata? Dipende da quel che s’intende. Vigna qui se n’è allevata tanta, da secoli. Per farci vini di pronta beva e di nulla pretesa. Soltanto da poco c’è chi ha alzato la testa, mettendo nei campi il cuore e la mente. Cercando, in particolare, di tirar fuori carattere dai vitigni rossisti che nel tempo si sono meglio acclimatati. Un autoctono, il raboso. E un internazionale di già vetusta dimora in zona: il merlot, che qui arrivò sul finire dell’Ottocento, e se ne pronuncia il nome alla veneta, coll’accento sulla ò e con la t finale bene scandita, che finisce quasi per sembrar doppia in una regione che la doppia non sa neanche cosa sia: merlòtt, si dice, dunque.
Anche Emanuela fa raboso e merlot. E li fa bene. Un po’ di più il primo che il secondo, che pure sta però crescendo bene, coi nuovi vigneti che cominciano a fruttificare. Che poi, quando le piantava, queste vigne fitte fitte di merlot che stanno davanti alla cascina, la gente che passava la prendeva in giro: «Fémene, le pianta fasiói». Le barbatelle così ravvicinate sembravano piante di fagioli, là dove la vigna aveva invece avuto sempre grandi slarghi per trarne chili e chili e chili d’uva per pianta. Oggi però ti giro intorno e vedi che altri stanno piantando vigne fitte come fasiói. Altroché.
Emanuela le vigne le ha ripiantate da pochi anni. L’azienda ha preso a governala solo nel ’95, l’impianto è ben più tardo. Prima, era gestita da altri: si vinificava e si vendeva in cisterna. Poi, la svolta. Ora, i primi risultati veri, vini che hanno acquisito personalità. Che sono magari ancora adolescenti, ma già hanno l’impronta che si fa adulta. Alleva, dicevo, raboso e merlot, e poi anche un po’ di cabernet e di chardonnay, ma preferisco parlar dei primi due, che mi pare siano quelli che meglio s’esprimono e che più possono crescere.
Di Tessère avevo assaggiato in passato il Rebecca, vino anomalo molto. È un raboso passito. Esperimento inusitato in una zona dove il vitigno ha sempre dato rossi vinosi e asprigni, bicchieri da «ombra» conviviale al bar.
Come m’era sembrato, nelle passate prove, questo passito? Be’, m’aveva sconcertato. M’aveva riempito di dubbi. Indeciso, dopo più d’una prova, se fosse da godere o da rifuggire, da amare o da odiare. Che già è comunque esito interessante: far discutere è compito del vino che ha personalità. Ero curioso di riprovarlo. Di ritrovarlo. Di cercar di capirlo, e questo poteva succedere – se accadere doveva - solo là dove nasce.
Il Rebecca, e l’invito di Flavio Prà, enologo bravo per davvero, che a Tessère dà consulenza, m’hanno sospinto sul Piave. E ancora questo vino – stavolta nell’annata del 2002 - m’ha disorientato. Ché ha naso strano, mica proprio suadente, anzi, problematico assai, col frutto rosso minuto e la foglia di geranio e il peperone e il pepe, ma anche la carne secca e il caffè in polvere e il cacao. In fondo, ondate d’effluvi salmastri, aria marina, quasi da burrasca. Poi, la bocca, conferma la complessità, e i tannini e la freschezza sono entrambi di valore e compensano quasi gli zuccheri, che pure sono presenti assai (del resto, la vendemmia è a fine ottobre e poi l’appassimento è lungo, ché si pigia a marzo). Sovvengono, alla beva, memorie di tabacco da pipa e spezia e pepatura. Dicono sia vino da dessert. Può darsi, ché dolce in fondo lo è, ma è dolcezza, la sua, che quasi si cela. Lo vedrei piuttosto – e non si gridi all’azzardo: non l’ho provato così, ma spero n’avrò occasione - su un robusto piatto di crostacei poggiati su una riduzione di vin rosso, o sulla carne d’agnello, o sulla braciola di cervo servita alla sudtirolese, con le confetture di frutti del bosco. È vino vino, altro che dessert. Adesso ho anche deciso, nei miei dubbi: mi piace.
L’altro raboso si chiama Barbarigo, come la casata dei dogi veneziani. È un Piave Raboso, nella doc. N’ho provato due annate, una in bottiglia da mesi e mesi, l’altra ancora in vasca. La prima è del 2001. Dal bicchiere, ecco i sali del mare che s’avanzano sul frutto rosso. La bocca dà l’idea d’un vino sorprendentemente giovane. Rotondo e ruspante. Di bella lunghezza. Ma ancora di più m’ha colpito il 2002, non ancora in commercio, en primeur. Da segnarsi però in agenda e da comprare, quand’uscirà. Eppoi non è neanche da svenarsi il programmarne l’acquisto: lo si vende, finito, sui sett’euro. Insomma: il Barbarigo del 2002 piace per la vitale presenza di piccolo frutto nero, per il cassis, la memoria di confettura di bacca di sambuco. La fragranza di violetta. E quella vena - ancora - salmastra che traversa naso e palato.
E il merlot? Eh, il merlot è figlio anche lui di questo terroir. Si chiama Galión, e francamente non mi ricordo il perché dell’intitolazione, ma alla fin fine non è ciò che più m’interessa. Dico invece che n’ho provato anche qui un’annata in bottiglia, il 2002, e una in vasca, il 2003. E che ho pure notato crescita fra i due anni diversi, segno che le giovani vigne si stanno facendo adulte. Pure qui il mare affiora dal calice, ed è la costante della terra e dell’aria e forse delle acque e dei venti, e insomma, del terroir. Ché il tono iodato di nuovo conduce la degustazione, traccia la strada al frutto. C’è poi sottilissima vena erbacea, che nulla ha però da spartire con l’aggressiva vegetalità dei tanti – troppi - immaturi merlot della piana. Da bere con buon piacere. Anche se la vocazionalità vera di questa terra, di questi limi fluviali a un tiro di schioppo dal mare, la si legge nell’autoctono soprattutto. E autoctono sia: lode al raboso. Al suo riscatto. Alla rinascita. Se poi ha da esser pure merlot, sia. Ma lo si dica – si continui a dirlo, intendo - coll’accento sulla ò e con la t che schiocca in fondo alla parola, alla veneta insomma, ma con rinnovata e moderna impronta viticola ed enologica. Sia merlot, insomma, di Piave, d’argilla e vento, marino anch’esso, e di vigna stretta e meticolosamente accudita.
La strada è segnata. Avanti, dunque, con determinazione.
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