Angelo Peretti
Che strano il linguaggio. Ci sono parole che sembrano eterne. Altra nascono ogni giorno. Talune destinate ad affermarsi, altre a morire in un amen. «E come si vedono le bollicine dell’acqua sorgere e salire, così sorgono e salgono le parole nuove che indicano le nuove cose» scriveva nei primi anni Trenta in premessa della mitica sua «Grammatica italiana» l’amabile Alfredo Panzini (chi fosse interessato a leggerla, la trova nel catalogo di Sellerio). Oggi a imperare è il vocabolario della tv. E non c’è da esserne troppo felici. Oppure il siglato cliccare degli sms, che non è cosa migliore.
Ci sono poi i vocaboli che s’offuscano, cadono in sonno profondo. Per riaffiorare di tant’in tanto, inattesi. Uno di quelli che non mi capitava d’incrociare da tempo è «azzardato». Un po’ desueto (e anche desueto è un aggettivo obliato). Eppure l’«azzardato» me lo son sentito rivolger due volte – in occasioni e per motivi diversi - nell’ultima settimana. Una per il pezzo (ma in quanti l’avete letto? mi vien quasi da illudermi che sian più di dodici i miei lettori) sull’amore e il formaggio, che qualcheduno magari ha trovato un po’ osé. Un’altra per certi abbinamenti fra vino e cibo cui ho accennato in una serata del Rotary. Insomma: azzardato il parallelo fra letto e tavola, e altrettant’azzardati gli abbinamenti wine&food. Forse è destino.
Ora, sulla prima questione non mi soffermo oltre, ma sull’altra qualche idea vorrei dirla. Alla fin fine, quest’è un sito che vorrebbe parlar d’enogastronomia. Dunque vada con l’azzardo degli accostamenti fra vino e cucina.
Che cos’ho proposto d’inusitato? Be’, a dire il vero, a me sembra di non aver suggerito niente di clamoroso, ma a giudicare saranno i dodici fedeli lettori d’InternetGourmet. A cominciare dallo sposalizio per l’Amarone.
Mi si domandava a cosa maritarlo, l’Amarone. Ovvio che lo si possa – e debba - mettere in tavola con robusti piatti di carne, con le grigliate, con la cacciagione, con gli arrosti. Magari coi formaggi stagionati. E l’ho sommessamente ricordato, ma senz’insistere, ché è ovvio a tal punto che mi sembrava d’offendere i commensali a ribadirlo. Allora ecco che ho suggerito qualcosa d’un po’ inconsueto: Amarone e tonno crudo. Ci stanno insieme, eccome (provato personalmente). L’alcol ha effetto pulente sulla grassezza del pesce, il velluto del bicchiere s’accosta all’armoniosa pienezza del pesce, lo zucchero che residua completa la sensualità dell’incrocio. Wonderful.
E poi? E poi il Recioto della Valpolicella. Che dell’Amarone è – lo sapete – il padre. Nel senso che un tempo con le «réce» (le orecchie, i grappoli spargoli) delle uve appassite di corvina e corvinone e rondinella e molinara, e insomma, con le uve de’ vitigni valpolicellesi, ci si faceva un vin dolce, il Recioto appunto. Che solo quando «scappava», bruciando tutti o quasi gli zuccheri nella fermentazione (e crescendo di conseguenza in alcol), diventava «amaro», se non proprio «amarone». Ora, il Recioto è caduto un po’ in oblio anche lui – come certe parole - e invece io continuo, ostinato, a considerarlo il più strabiliante, fascinoso e anche difficile vino che si faccia nella Valpolicella. Un gioiello di pura grazia, quand’è fatto a dovere. Introvabile altrove. Non va ridotto – dunque - al banale, semplice ruolo di vino da dessert.
Anzi, per me il rosso Recioto di Valpolicella non è per nulla – o quasi – vin da dessert. Ché di dolci ne sopporta pochi: il pandoro, qualche ciambella, la «fogàssa» (una focaccia con poco zucchero) cotta sul camino, qualche biscotto con la frutta secca. Stop. Mai e poi mai le creme. Assolutamente mai, mai e poi ancora e di nuovo mai e sottolineo mai il cioccolato, come taluni pretenderebbero (questo sì che è un azzardo). Tutto perché il vino – questo Recioto – ha sì zuccheri, ma soprattutto complessità e dunque spezia (cannella, garofano, cardamomo e sottile vaniglia) e tannino morbido e seduzioni di frutt’appassita (uva rossa e prugna) e anche appena colta (ciliegia e mora) e financo in confettura (piccolo frutto del bosco) e petalo macerato (di geranio e rosa) ed erbe alpestri (e balsamiche) e ancora ricordi di tabacco, di vaniglia, di rossa terra bagnata, talvolta. Ma è basso d’alcol. Fresco di misurata acidità. Nobile rosso.
Ora, ci sta bene - di certo - a fine pasto, ma sprecar tanta nobiltade vinicola per il solo finale di cena mi sembr’assurdo. E dunque usiamolo anche come un rosso un po’ particolare. E se è giovane mettiamoci insieme la soppressa veneta col pan biscotto. Se è d’un anno più avanti sposiamoci il taleggio. Se è di cinque anni almeno, e dunque più austero e cresciuto in note di brandy, di liquore, uniamolo alla lepre in salmì. E sarà applauso a scen’aperta.
Questo ho suggerito. Mi si è detto che è accostamento – l’uno e l’altro e l’altro ancora - azzardato.
Capisco: somigliano – possono somigliare - a provocazioni le proposte che ho detto. Ma, obietto: la tavola è gioco, e dunque non schema, non regola ferrea, non convenzione. Mica l’eccesso, ma una briciola di trasgressione aiuta. Intendo: a renderla appassionata. A ridare passione anche ai giorni d’umanissima noia.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento