Angelo Peretti
È il mercato, baby. Niente scuse: il prezzo lo fa la legge della domanda e dell’offerta. Più è scarsa l’offerta e alta la domanda, più il prezzo va su. Ma se cresce l’offerta e la domanda è stabile – o cala – allora son guai. A meno che... Ma dell’a meno che ne parlo dopo.
Con lucidità da manuale d’economia e semplicità da uomo che domina la materia, Emilio Pedron queste cose le ha dette chiar’e tonde ai produttori di Valpolicella ch’erano alla Gran Guardia di Verona per la presentazione en primeur dell’Amarone 2002.
Pedron è uno che sul mercato ci sa stare. Presiede il Consorzio valpolicellese, ma è soprattutto l’amministratore delegato del Gruppo Italiano Vini. Governa la più grande compagnia vinicola d’Italia. L’ha presa piccina picciò – in ogni senso – e l’ha resa una star. Col pallino – vincente – della qualità. Dice niente il caso dello Sfursat 5 Stelle della Nino Negri? e quello del Chianti La Selvanella della Melini? e della rinascita entusiasmante di Rapitalà? e del Re Manfredi, aglianico di razza delle Terre degli Svevi? e della risorta Santi ad Illasi? Tutta roba sua, tutti successi suoi, e l’elenco potrebb’esser più ampio.
Uno che parla poco, Pedron. Ma che ha parole che affondano come coltello nel burro. Figurarsi fra i valpolicellesi che di mercato ne masticano – ahinoi – poco. E ora, la tesi pedroniana cercherò – cari i dodici miei lettori – di riassumerla qui di seguito. Sperando d’interpretarla a modo giusto, ché non sopporterei di vedergli, al primo incontro, aggrottare millimetricamente le ciglia, unica reazione per così dire scomposta che gli abbia mai notato in volto (ché di parola non ti richiamerà mai, almeno in pubblico).
Dunque. C’era una volta, mica poi tanti anni fa, un’offerta scarsina di vino di qualità. Bottiglie e cisterne se ne facevano assai, ma era roba da poco. Improvvisamente, qualcosa cambia fra i consumatori. Una fiammella s’accende in California. La fiammella diventa incendio. Il bevitore comincia a pretendere di bere bene, santoddìo. E siccome a voler bere bene diventavano sempre di più e ad offrire buone bottiglie erano invece pochi, i prezzi han cominciato a salire alle stelle.
Quando una roba costa cara, qualcuno che gli vien la tentazione di farla e venderla anche lui lo trovi sempre. Un po’ per far quattrini, un po’ per l’emulazione, la produzione di vini di qualità è man mano salita. Diventando ascesa vertiginosa in un decennio: quello scorso. Coinvolgendo nella corsa all’oro le vecchie terre del vino – Francia e Italia e in parte Spagna – e le nuove anche – California, sicuro, ma pure Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa, Cile, Argentina – coi primi barlumi anche dove il vino non ha cultura neppur d’importazione – India, ad esempio.
I prezzi son saliti su e più su e più su ancora. Finché il meccanismo s’è rotto. Colpa dell’euro, ch’è più forte del dollaro, s’è cominciato a dire. Oppure: c’è crisi economica globale, e i tedeschi e i giapponesi – importatori di lusso - devono tirar la cinghia. O ancora: la concorrenza australiana. Scuse, tutte scuse. O meglio: elementi reali, ma marginali. Il problema è un altro: la domanda di vino di qualità è rimasta stabile od ha avuto piccola crescita, mentre l’offerta ha saturato il mercato ed è andato ben oltre. Ergo: i prezzi calano. È il mercato. È fatto così. O accetti queste regole, o sei out.
Semplice, vero? Mica tanto.
Il problema è che quando sei sul mercato devi aver quattro preoccupazioni. La prima: far qualità. La seconda: farla percepire, la qualità. La terza: espandere le quote di penetrazione. La quarta: mentre t’espandi – o credi di farlo – metter giù le pedine che ti servono a conservare i tuoi clienti se le cose si mettono male. Per far la prima cosa, serve tecnica e stile. Per le altre tre occorre investire nel marketing. E occorre farlo da subito, convinti. I contadini d’un tempo insegnavano che è inutile chiuder la porta della stalle quando il bue è scappato. Bisogna farlo prima. Ma i figli, non più contadini, l’han dimenticato. Mentre cresci, comincia a pensare a fidelizzare chi hai già conquistato: è la polizza sulla vita. «Primo, non prenderle» dicevano gli allenatori di calcio quando il calcio era sport. «Prima salviamoci, poi vediamo se possiamo cavarci qualche soddisfazione» dice, concreto, Bepi Pillon, che allena il Chievo, dove il calcio è ancora sport (e sembra di sentire padron Campedelli).
L’abbiamo fatto in Italia, di pensare alla polizza vita? Macché. Ci siam fatti prender la mano. Illusi d’una crescita eterna. Gli utili sono finiti in cantine griffate, in macchinari d’altissima tecnologia, in sale degustazione da antologia d’architettura. Tutta roba bella, per carità. E cara. E che non puoi vendere, che non puoi valorizzare quando le cose buttassero meno bene. È l’effimero. Autoreferenziale: ho fatto i soldi, e te l’ostento. Peòcio refàto: dicevano i vecchi. I figli l’han dimenticato.
Non una lira – e dopo non un euro – è stato destinato a pensare al grande patrimonio d’azienda: e questo patrimonio, cari miei, è il consumatore. A lui andavano destinati i quattrini. Facendo marketing. Legandolo. Conquistandolo. Magari, facendogli capire che il prezzo è quello giusto per la qualità del prodotto. magari – ah, magari! – fissando il prezzo giusto per la qualità del prodotto. E non è un gioco di parole: quanti, ma quanti, sono i vini dal listino drogato.
Ora, crisi vera forse non c’è. Difficoltà sì. Dunque, c’è l’affannosa ricerca d’un riposizionamento. Ancora in modo empirico. Dilettantesco. A tentoni. Pensando che, insomma, se taglio un po’ il listino, le cose van meglio.
Ma qui casca di nuovo il processo. Già, perché se tagli il prezzo del prodotto finito, inevitabilmente la riduzione è sospinta sul basso della filiera. E sul basso della filiera c’è il contadino, c’è chi fa uva. Che se la vede pagar sempre meno. Che se la vede pagar così poco da non permettergli più neppure di coprire i costi di produzione. È successo la scorsa vendemmia. Succederà ancora, temo.
Non è la soluzione questa. La soluzione è una sola: capire il mercato. Metabolizzarne le leggi, le regole. Saper comunicare, pianificare, far marketing. Roba astrusa per il contadino divenuto d’improvviso imprenditore. Roba necessaria, però. Indispensabile.
Capendo che ora il pallino è nelle mani del consumatore. C’è talmente tanto vino di qualità in giro, che si potrà bere sempre meglio a prezzi sempre più buoni. Su di lui, sul consumatore, è tempo d’investire.
Ha ragione Carlo Fratta Pasini, presidente del Banco Popolare di Verona, che pure è intervenuto al convegno sull’Amarone: quest’è il tempo delle scelte. Scelte che sono ineludibili. Improcrastinabili. Non è che se non scegli oggi lo potrai far domani. Domani è troppo tardi.
Basta egoismi: occorre stare insieme, su questa barchetta nell’oceano dei mercati. Insieme fra chi fa qualità, ovvio. Chi lavora male, o impara a far bene (e lo si può aiutare), oppur’è meglio che di lavori se ne cerchi un altro.
Prosit.
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