Angelo Peretti
Bella vita, già. Stare a tavola conversando con gli amici. A chiacchierare e far progetti. Con davanti una bottiglia che si fa bere: stappata, of course, ché vederla e non toccarla è cosa avvilente. Nella fattispecie (il termine fa un po’ ribrezzo, ma m’è venuto così) uno Château Latour 1987, Pauillac, regione di Bordeaux, Francia.
La bottiglia ce l’ha messa Leandro Luppi, presa dagli anfratti della sua cantina, al Vecchia Malcesine, ristorante stellato dalla Michelin per il second’anno di fila. Chiaro, non è un’annata di quelle da favola per Latour: 86 centesimi da Parker, che non è grandissima votazione (anzi), ma soprattutto piogge eccessive sul cabernet, mi pare d’aver letto. E lo si sente esilino per davvero, il vino. Comunque, ragazzi, è bel vino. Con le note balsamiche che avanzano ad ondate, col tabacco che colma il calice. Poco frutto, d’accordo, ma una beva elegante, equilibrata. Lunga. Posata. Invitante. Quasi vent’anni portati alla grande. Non c’è niente da fare: ‘sti bordolesi i rossi li sanno fare - da sempre - mettendoci quell’ingrediente in più che li fa grandi: la finezza. Anche negli anni balenghi.
Bando agli equivoci: non lo dico mica perché l’etichetta è blasonata e il costo salatino (l’ho vista, la bottiglia, a 158,40 euro su 1855.com, sito francese che commercializza – in cassa – anche vecchie annate). Il ragionamento vale anche per i marchi meno importanti. Ho già detto, parlando dei quindici vini che mi ricordo più volentieri fra quelli bevuti nel 2005, della mia passione per Château Poujeaux - Moulis-en-Médoc -, che trovi fra i 25 e i 35 euro alla boccia perfino nelle annate più importanti. E mi ricordo volentierissimo una bottiglia di Rauzan Gassies ’70 fatta fuori un anno fa. Vien da Margaux, ma non ha mica il costo del più celebre degli Château del luogo. Questa la trovi a una ventina d’euro o venticinque. Se vi capita, prendetela. Il ’70, poi, l’avevo acquistato all’asta, mi pare pagandone una trentina appena, d’euro (più il trasporto, che non incide poi granché). E comunque, abbiate cura di seguir l'annata e di scegliere i piccoli produttori, i meno noti, e fatene affinare da voi le bottiglie: potete comprare a una decina-quindicina d'euro ancora dei bei rossi del 2000 che vi daranno soddisfazioni per anni (uno ve lo consiglio: Chateau du Grand Mouëys, sulle Premières Côtes de Bordaeux: con dieci euro portate a casa un frutto avvincente).
Cos’è che a mio vedere li fa gratificanti, questi bordolesi – ammetto che sì, anche là ci sono solenni ciofeche, ma di buoni e buonissimi ne puoi trovare a centinaia – l’ho già detto. Son vini d’estrema finezza, d’equilibrio appagante. Senza spingere sull’alcol, che è a 12,5 o intorno a quelle soglia. Senza eccedere nella muscolosità. Senza strafare coi tannini. Senza perder di vista la corretta freschezza. Santoddio: possibile che da noi non li sappiamo fare vini del genere? Possibile che qui o fai rossi da masticare o non se ne parla neppure?
Ecco, da un bel po’ di tempo a questa parte tendo a preferire vini del genere, che si facciano bere con piacevolezza. Occhio: che siano comunque vino, mica una qualunque bevanda alcolica. Che non commettiamo adesso l’errore - il peccato - contrario: basta muscoli e avanti il vin bolso. Nossiggnori. Voglio vini che abbiano carattere, che esprimano personalità, che descrivano un territorio, una stagione, una filosofia di vita e di campagna, ma senz'uccidermi il piacere del bicchiere e della tavola e della convivialità e della ciàcola amichevole e fraterna. Vini che t’inducano a vuotar la bottiglia senz’impastarti però bocca e cervello. Che non facciano seccare le fauci. Che non abbiano alcol che brucia e tannino che allappa.
Già, è la finezza che bramo. Mica la concentrazione esasperata che impazza in terra italica, quasi che fossimo una succursale della California o dell’Australia o del Cile. Vini, i nostri, che magari t’impressionano alla degustazione, quando ne metti in bocca un goccio e lo fai ruotare tutt’attorno al palato e cerchi di capirne il frutto, la struttura, l’ampiezza. Vini che t’esaltano nell’attimo dell’assaggio. Ma che poi, in tavola, rischiano di restare lì, aperti, graditi per quel goccio - appunto -, ma non finiti. Invece di là, in Francia, son tanti i vini che subito ti sembrano gracili, ma poi t’accorgi che la bottiglia è già vuota e ti vien voglia – Latour a parte, visto il prezzo – d’aprirne un’altra.
Cerco, è vero, la quadratura del cerchio. Ma so che esiste. Perché l’ho trovata - come tanti prima di me e come tanti ancora faranno dopo di me - in tante bottiglie di terra bordolese. In vini di due, cinque, venti, trent’anni. Ed è, questa maniera di far vino – e prima ancora di far viticoltura – il modello che dovrebb’ispirare, credo, molte parti d’Italia. Anche il mio Garda. Anche sulle colline che fan Bardolino, pur coi dovuti distinguo: altra terra, altro clima, altra vigna, altra storia, altra gente. E così dev'essere: far bordolesi non vuol dire piantare cabernet e merlot. Significa invece capire, metabolizzare, interiorizzare uno stile, ché poi il vitigno è quello che hai a casa tua. Porca miseria: a Bordeaux, cabernet e merlot sono gli autoctoni di casa!
So che rischio di sembrar quello delle affermazioni azzardate. Che mi si prenderà per visionario e matto. Occhio, però: qualcuno ne sta già traendo i primi auspici. V’invito a farne scoperta, anche sul Garda, anche in zona bardolinista. Col lanternino, certo. Ma questa è un’altra storia. Di cui riparlerò, mi riprometto, fra non molto.
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