Angelo Peretti
Scrivevo nell’agosto di due anni fa: "Fate largo al nuovo Groppello".
Ora, il Groppello in questione è vino di Valtènesi, riva lombarda del Garda. Valtènesi la scrivo con l’accento, dato che non pretendo che tutti conoscano questa plaga gardesana e che sappiano dove ne cada l’accentazione, come si pronunzi il nome, insomma. E a distanza di tempo, son proprio contento di vedere che sono stato buon profeta. Il nuovo Groppello non dico ch’è cresciuto e che s’è fatto adulto, ma certamente è nato. Credetemi: c’è bella vitalità in terra di Valtènesi, e ribadisco l’accento.
Di Groppelli bevuti con gran piacere n’avrei da raccontare. E lo farò la settimana che viene: un poco di pazienza. Stavolta voglio dire qualcosa sull’uva e sulla sua gestione attuale e futura.
L’uva, dunque: groppello sta per autoctono, ed è un bene. Ed è anzi un valore. Ma francamente che nell’italica concezione del vino stia montando la moda dell’autoctonia ampelografica mi fa accapponare un po’ la pelle, ché non sopporto le tendenze modaiole che periodicamente affiorano nel mondo delle bottiglie. Non me ne frega proprio niente che il vitigno possieda pedigrée indigeno, se poi con quell’uva si fanno vini d’ignobil beva. E forse ancor meno m’intriga che se ne traggan vini correttamente fatti - enologicamente composti, compitini d’enologo, pur bravo - se poi non mi sanno descrivere la terra e l’uomo, se non mi sanno raccontare del loro terroir, insomma. Se poi quel tal vino descrive invece bene il suo terroir, e per di più è figlio d’uva autoctona, allora sono oltremodo lieto, gongolo. Ma non è il vitigno, ricordiamolo bene, l’unica componente da considerare importante, ché altrimenti si giustificano come tipici gli errori di vigna e di cantina.
Ora, il groppello è vitigno certamente degno d’interesse. Ma non è un fuoriclasse. Nel senso che per farci vino di costrutto ci si deve molto impegnare. Non ha colore, quest’uva. Dà sovente tannino rustichello. Non è spargola (il nome, groppello, viene del resto da groppo, da uve con gli acini serrati l’uno all’altro) e quindi è facile che l’attacchino i funghi, le muffe. E forse poi (ma direi senza forse) ha bisogno di spalla, forse vuol compagnia: e dunque metterci insieme un po’ d’altre uve non guasta, anzi. Di contro, mi piace assai quel suo tono di fragolona, che assieme alla faccenda del colore chiaro m’ha fatto dire altre volte – e non lo si prenda per affronto – che mi ricorda il pinot nero borgognone, e che quello potrebb’essere dunque il riferimento per chi voglia far vino in Valtènesi.
Badate: ne stanno prendendo consapevolezza, i vignaiuoli del luogo. E stanno tirando fuori bottiglie sempre più buone. Affrettatevi in zona, se ancora non la frequentate.
Il salto di qualità definitivo mi par lì che arriva. Debbo pur dire che quattro passaggi l’aiuterebbero molto. E cerco di parlarne qui sotto.
Il primo: meglio conoscer l’uva principale. So bene che s’è attivato un progetto groppello da parte del Consorzio del Garda Classico. E dunque l’auspicio è che il progetto vada avanti spedito, magari affiancando qualche ricercatore d’università ai pur volenterosi tecnici del luogo.
Il secondo: meglio conoscere la terra, il territorio. Serve un progetto di zonazione, e mica in senso classico solo: non basta, cioè, che mi si dica se quell’ettaro è adatto o no a piantarci quella tal uva, ma voglio anche sapere quali caratteri aromatici l’uva ne ricaverà da quel suolo, quel clima, quell’esposizione. Informazione essenziale, se voglio progettare vini d’equilibrio ed eleganza e finezza ed armonia.
Il terzo: abbandonare l’uvaggio. Ahimé, i vigneron di Valtenesi - troppi, anche se certo non tutti - amano ancora pigiare assieme le varie uve dei loro rossi, e dunque groppello e barbera e marzemino e sangiovese, ma anche da qualche tempo sempre più rebo. Lo ritengo un errore, fare uvaggio ancora, invece che far cuvée. Impossibile, assolutamente impossibile, che tutte l’uva maturino in contemporanea. Servono vinificazioni distinte, affinamenti separati, e poi far taglio. Che varierà d’anno in anno, ché ogni annata è diversa, grazie al cielo.
Il quarto: imparare l’appassimento breve. Non nascondiamocelo: col groppello - che è uva poco adatta, essendo compatta anziché spargola - si fa sovente un po’ d’appassimento, e la ritengo cosa che può aiutare. Ma è quasi sempre appassimento empiricamente condotto: trenta giorni perché così s’è sempre fatto, per tradizione. Senza interrogarsi, invece, di come quell’uva cambi, modifichi, plasmi il proprio profilo aromatico al variare dei giorni (giorni!) d’asciugatura. Mancano riscontri scientifici, analitici, ch’aiutino il vignaiolo. Il gap va colmato da subito. Eppoi ho visto troppi locali d’appassimento del tutto impropri: esposti all’umidore, all’arie malandrine, senza regolazione alcuna.
Detto questo, comunque si son fatti passi avanti importanti, convincenti, avvincenti sul fronte de’ rossi di Valtènesi. E son sicuri - ripeto, ribadisco, confermo, sottolineo, rimarco, evidenzio - che si è pronti per spiccare il volo. Spiccare il volo, già: far grandi rossi. Sicuro. Rossi di Valtènesi. Appunto: terroir. Col plusvalore dell’autoctono.
Quali sono ‘sti vini? Pazientate - ripeto - fino alla prossima puntata.
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