Angelo Peretti
Sì, lo capisco, il titolo è proprio una ciofèca, stavolta. Ma, vedete, mi sono appena comprato tutta la discografia del Battisti Lucio, e me l’ascolto in macchina (sarà che mi son fatto nostalgico, che volete). E insomma, questa m’è venuta in mente, di canzoni: «Dieci ragazze per me, posson bastare». E siccome qui di seguito recensisco una diecina di Groppello di Valtènesi, come avevo promesso (promesso?) la settimana passata, ecco che il dieci ha fatto da catalizzatore. E poi c’è che questi che andrò a illustrare sono sì vini che per me - ora - vanno bene, e che ho bevuto volentieri dalla prima estate a qui, ma che non posson bastare. Nel senso che anche questi hanno ancora spazio per migliorare e puntare con decisione più in alto. E che comunque m’attendo un’ulteriore crescita di tutta la zona, ché altre aziende hanno blasone e storia e vigna. E insomma, coraggio: l’ora è quella giusta: l’ho detto e lo ripeto che mi pare si stia per spiccare il volo, sulla riva lombarda del Garda.
A proposito del Battisti. Quella lì delle dieci ragazze, non è certo una delle sue più belle. Quella che ho proprio ficcata in testa, di suo (un tormentone, per me, che va avanti da un paio d’anni, e ne ho comprato anche le versione incise da altri: molto bella quella dei La Crus) è «E penso a te». E ce n’è molte altre che mi danno i brividi. Per esempio «Io vorrei... Non vorrei... Ma se vuoi» (avete sentito come la canta anche l’Antonella Ruggiero?). E «Il nostro caro Angelo?». Mi ci riconosco in quel «ma schiavo non sarà mai». Vabbé: divagazioni.
Torno al Groppello. Qui sotto racconto dunque dei dieci che ho scelto, che però non esauriscono il panorama rossista della Valtènesi. Ché lì il groppello (uva) va anche a finire in uvaggio (ahimé: tecnica obsoleta) o cuvée (evviva: qui sì che ci siamo) con altre varietà (barbera, marzemino, sangiovese) per il Garda Classico Rosso (o Riviera del Garda Bresciano o Garda Bresciano, ché di denominazioni se ne sono stratificate troppe). Eppoi finisce anche in vinificazioni che direi sperimentali, col rebo, per esempio, ed altro, in table wines o in igt del Benaco Bresciano. Ma ho scelto di raccontare stavolta solo di bottiglie che in etichetta riportano la dizione monocultivar: Groppello. D’altri rossi, magari, parlerò più in là (a proposito: col groppello si fa anche il Chiaretto, rosato)
Ora, i vini, finalmente. Metto il doppio punteggio, centesimale e in faccini. Centesimale per dire del vino in quanto a materia, contenuto. Faccini per dire della piacevolezza mia personale di bevuta.
L’ordine è alfabetico, per produttore.
Garda Classico Groppello Colombaio 2006 Cascina La Pertica Groppello beverino, sì, epperò con un bel po’ di personalità. Ed è bell’azienda, questa Cascina La Pertica: la portaerei di casa è il rosso Le Zalte, ripetutamente tribicchierato. Ha, questo Colombaio, naso intrigantissimo: frutta matura, noce moscata, canfora. Bocca su toni fruttati evoluti, maturi, morbidi. Con la spezia in grande rilievo. E il tannino marcato ma non aggressivo. E sotto, costante e invitante, il frutto macerato.
86/100 - tre lieti faccini :-) :-) :-)
Riviera del Garda Bresciano Gropèl 2004 Comincioli Il Gropèl di Gianfranco Comincoli è una sorta di work in progess, di vino in continua evoluzione di stile, contrassegnando come nessun altro la ricerca continua del sindaco-vignaiolo di Puegnago. Ha naso un po’ chiuso, ma sotto c'è frutto macerato. Bocca calda, tannica, ampia, possente. E ancora molto frutto (ed anche ciliegia sotto spirito). C'è speziatura. E buona lunghezza.
85/100 - due lieti faccini :-) :-)
Riviera del Garda Bresciano Sulèr 2003 Comincioli Comincioli quando fa vino ed olio non sta lì a guardar le mezze misure. Dire che è estremo è poco, e quest’è il suo pregio, ma anche - me lo si perdoni - il limite. Ché a volte è la finezza ad andarci di mezzo, e dunque occorrerà meglio focalizzare, ma so che Gianfranco ci sta molto lavorando. Detto questo, ecco il Sulèr, Groppello d’appassimento lungo, da sempre. Il naso è un po’ compresso, ma sotto c’è tanto, tanto frutto maturissimo. La bocca è grassa, concentrata, potente, fruttatissima, tannicissima.
86/100 - due lieti faccini :-) :-)
Garda Classico Groppello Castelline 2006 Costaripa Il Groppello più piccolo, se così si può dire, di Costaripa. E m’ha lasciato in pensiero, ché non sembrava quasi neppure Groppello dell’ultima annata, con quella sua pacatezza di già quasi aristocratica. Naso da fragolona matura e prugna. Leggera speziatura. In bocca, bel tessuto tannico, vellulato. Ed è ancora sul frutto, maturo assai. Ed ha spezia e lunghezza.
84/100 - due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Garda Classico Groppello Maim 2004 Costaripa Così elegante un Groppello non l’avevo mai trovato prima. Màim è acronimo: sta per Mattia e Imer. Di cognome fanno Vezzola. Il primo è il general manager di Bellavista, in Franciacorta. Enologo dell’anno per la mia guida, Gambero & Slow. Costaripa è la vigna gardesana, di famiglia. Il vino ha naso da frutto rosso appassito e surmaturo. C’è fragolona e confettura di mirtillo. Spezia. La bocca conferma il frutto macerato, ma ha slancio e beva e succosità. E c’è tannino bene esposto, ma senz’aggressività. Austero e vibrante insieme.
88/100 - tre lieti faccini :-) :-) :-)
Garda Bresciano Groppello Mogrì 2006 Sergio Delai Quando Sergio avrà vinto le ultime sue titubanze e si sarà reso conto davvero di quel che vale, be’, aspettatevi cose notevoli. Il suo Fronsàga è di già bel rosso. Questo Groppello gli sta a ruota. Naso di canfora e frutto macerato e vena speziata. Bocca ampia sul frutto, magari per ora un po' chiuso dalla nota tannica. Ha, di più, buona e speziatura. Anche qui, valurazione fiduciosa.
80/100 - due lieti faccini :-) :-)
Garda Bresciano Groppello 2005 Leali di Monteacuto L’Antonio è una gigante buono. A vedergli le mani ti fa paura, grandi come una vanga. Ma è uomo mite, quasi timido. E fa vino in garage, ché ha casa piccola e ormai non ci sta più (ma la cantina nuova è nell’aria). Fa vini che hanno carattere. E questo Groppello lo conferma. Naso fruttato di frutta rosso molto matura. Bocca tannica, potente, calda, speziata, pepata. Buona lunghezza. Potenza ma anche freschezza. Da provare, da bere. Se poi in futuro aumenterà l’eleganza...
85/100 - due lieti faccini :-) :-)
Garda Classico Groppello 2005 Le Chiusure Oh, che Alessandro Luzzago faccia dei bei rossi a Portìs (leggi Portese, comune di San felice del Benaco) l’ho già detto parlando qualche tempo fa del suo Malborghetto (rebo, merlot e poca barbera). Ma ci ha anche un piacevole Groppello. Naso sul frutto. Bocca idem, con note di pepe e tannino magari ancora abbastanza verde, il che mi fa dire che durerà, questo rosso. Vino un po' rustico, dunque, ma fresco e bevibile. Lo promuovo sulla fiducia.
80/100 - due lieti faccini :-) :-)
Garda Classico Groppello Riserva Arzane 2003 Pasini San Giovanni In attesa di (ri)provare il 2004, bevuto in versione provvisora, ho ritastato il 2003 dell’Arzane. E confermo quanto scrissi tempo fa, recensendolo. Una sorta di prototipo del Groppello che mira all’opulenza di frutto. Figlio del 2003, ha fruttone surmaturo, ma non cotto: ciliegia, marasca, fragolona. E sotto una sottile vena erbacea alpestre.
84/100 - due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Garda Classico Groppello Balosse 2003 Zuliani Balòsse in bresciano vuol dir fuori di testa, pazzerello. Se non peggio. Ma le terre Balòsse sono anche un lembo di Valtènesi. Una scie di torbiera dove c’è canneto ed orchidea ed olivo e vigna insieme. Stranissima zona. Ci cavano, gli Zuliani, un crû di Groppello. Che ha naso intrigante, su toni decadenti di frutto e sottobosco (fungo secco, muschio perfino). La bocca ha frutto piacevole e rotondo. Buona beva, eppure anche tannino ben definito. Continua questa nota di frutta evoluta, accompagnata da sentori boschivi. Bella lunghezza e tannicità.
84/100 - due lieti faccini :-) :-)
domenica 28 ottobre 2007
martedì 23 ottobre 2007
Ma la Valtènesi è lì che spicca il volo
Angelo Peretti
Scrivevo nell’agosto di due anni fa: "Fate largo al nuovo Groppello".
Ora, il Groppello in questione è vino di Valtènesi, riva lombarda del Garda. Valtènesi la scrivo con l’accento, dato che non pretendo che tutti conoscano questa plaga gardesana e che sappiano dove ne cada l’accentazione, come si pronunzi il nome, insomma. E a distanza di tempo, son proprio contento di vedere che sono stato buon profeta. Il nuovo Groppello non dico ch’è cresciuto e che s’è fatto adulto, ma certamente è nato. Credetemi: c’è bella vitalità in terra di Valtènesi, e ribadisco l’accento.
Di Groppelli bevuti con gran piacere n’avrei da raccontare. E lo farò la settimana che viene: un poco di pazienza. Stavolta voglio dire qualcosa sull’uva e sulla sua gestione attuale e futura.
L’uva, dunque: groppello sta per autoctono, ed è un bene. Ed è anzi un valore. Ma francamente che nell’italica concezione del vino stia montando la moda dell’autoctonia ampelografica mi fa accapponare un po’ la pelle, ché non sopporto le tendenze modaiole che periodicamente affiorano nel mondo delle bottiglie. Non me ne frega proprio niente che il vitigno possieda pedigrée indigeno, se poi con quell’uva si fanno vini d’ignobil beva. E forse ancor meno m’intriga che se ne traggan vini correttamente fatti - enologicamente composti, compitini d’enologo, pur bravo - se poi non mi sanno descrivere la terra e l’uomo, se non mi sanno raccontare del loro terroir, insomma. Se poi quel tal vino descrive invece bene il suo terroir, e per di più è figlio d’uva autoctona, allora sono oltremodo lieto, gongolo. Ma non è il vitigno, ricordiamolo bene, l’unica componente da considerare importante, ché altrimenti si giustificano come tipici gli errori di vigna e di cantina.
Ora, il groppello è vitigno certamente degno d’interesse. Ma non è un fuoriclasse. Nel senso che per farci vino di costrutto ci si deve molto impegnare. Non ha colore, quest’uva. Dà sovente tannino rustichello. Non è spargola (il nome, groppello, viene del resto da groppo, da uve con gli acini serrati l’uno all’altro) e quindi è facile che l’attacchino i funghi, le muffe. E forse poi (ma direi senza forse) ha bisogno di spalla, forse vuol compagnia: e dunque metterci insieme un po’ d’altre uve non guasta, anzi. Di contro, mi piace assai quel suo tono di fragolona, che assieme alla faccenda del colore chiaro m’ha fatto dire altre volte – e non lo si prenda per affronto – che mi ricorda il pinot nero borgognone, e che quello potrebb’essere dunque il riferimento per chi voglia far vino in Valtènesi.
Badate: ne stanno prendendo consapevolezza, i vignaiuoli del luogo. E stanno tirando fuori bottiglie sempre più buone. Affrettatevi in zona, se ancora non la frequentate.
Il salto di qualità definitivo mi par lì che arriva. Debbo pur dire che quattro passaggi l’aiuterebbero molto. E cerco di parlarne qui sotto.
Il primo: meglio conoscer l’uva principale. So bene che s’è attivato un progetto groppello da parte del Consorzio del Garda Classico. E dunque l’auspicio è che il progetto vada avanti spedito, magari affiancando qualche ricercatore d’università ai pur volenterosi tecnici del luogo.
Il secondo: meglio conoscere la terra, il territorio. Serve un progetto di zonazione, e mica in senso classico solo: non basta, cioè, che mi si dica se quell’ettaro è adatto o no a piantarci quella tal uva, ma voglio anche sapere quali caratteri aromatici l’uva ne ricaverà da quel suolo, quel clima, quell’esposizione. Informazione essenziale, se voglio progettare vini d’equilibrio ed eleganza e finezza ed armonia.
Il terzo: abbandonare l’uvaggio. Ahimé, i vigneron di Valtenesi - troppi, anche se certo non tutti - amano ancora pigiare assieme le varie uve dei loro rossi, e dunque groppello e barbera e marzemino e sangiovese, ma anche da qualche tempo sempre più rebo. Lo ritengo un errore, fare uvaggio ancora, invece che far cuvée. Impossibile, assolutamente impossibile, che tutte l’uva maturino in contemporanea. Servono vinificazioni distinte, affinamenti separati, e poi far taglio. Che varierà d’anno in anno, ché ogni annata è diversa, grazie al cielo.
Il quarto: imparare l’appassimento breve. Non nascondiamocelo: col groppello - che è uva poco adatta, essendo compatta anziché spargola - si fa sovente un po’ d’appassimento, e la ritengo cosa che può aiutare. Ma è quasi sempre appassimento empiricamente condotto: trenta giorni perché così s’è sempre fatto, per tradizione. Senza interrogarsi, invece, di come quell’uva cambi, modifichi, plasmi il proprio profilo aromatico al variare dei giorni (giorni!) d’asciugatura. Mancano riscontri scientifici, analitici, ch’aiutino il vignaiolo. Il gap va colmato da subito. Eppoi ho visto troppi locali d’appassimento del tutto impropri: esposti all’umidore, all’arie malandrine, senza regolazione alcuna.
Detto questo, comunque si son fatti passi avanti importanti, convincenti, avvincenti sul fronte de’ rossi di Valtènesi. E son sicuri - ripeto, ribadisco, confermo, sottolineo, rimarco, evidenzio - che si è pronti per spiccare il volo. Spiccare il volo, già: far grandi rossi. Sicuro. Rossi di Valtènesi. Appunto: terroir. Col plusvalore dell’autoctono.
Quali sono ‘sti vini? Pazientate - ripeto - fino alla prossima puntata.
Scrivevo nell’agosto di due anni fa: "Fate largo al nuovo Groppello".
Ora, il Groppello in questione è vino di Valtènesi, riva lombarda del Garda. Valtènesi la scrivo con l’accento, dato che non pretendo che tutti conoscano questa plaga gardesana e che sappiano dove ne cada l’accentazione, come si pronunzi il nome, insomma. E a distanza di tempo, son proprio contento di vedere che sono stato buon profeta. Il nuovo Groppello non dico ch’è cresciuto e che s’è fatto adulto, ma certamente è nato. Credetemi: c’è bella vitalità in terra di Valtènesi, e ribadisco l’accento.
Di Groppelli bevuti con gran piacere n’avrei da raccontare. E lo farò la settimana che viene: un poco di pazienza. Stavolta voglio dire qualcosa sull’uva e sulla sua gestione attuale e futura.
L’uva, dunque: groppello sta per autoctono, ed è un bene. Ed è anzi un valore. Ma francamente che nell’italica concezione del vino stia montando la moda dell’autoctonia ampelografica mi fa accapponare un po’ la pelle, ché non sopporto le tendenze modaiole che periodicamente affiorano nel mondo delle bottiglie. Non me ne frega proprio niente che il vitigno possieda pedigrée indigeno, se poi con quell’uva si fanno vini d’ignobil beva. E forse ancor meno m’intriga che se ne traggan vini correttamente fatti - enologicamente composti, compitini d’enologo, pur bravo - se poi non mi sanno descrivere la terra e l’uomo, se non mi sanno raccontare del loro terroir, insomma. Se poi quel tal vino descrive invece bene il suo terroir, e per di più è figlio d’uva autoctona, allora sono oltremodo lieto, gongolo. Ma non è il vitigno, ricordiamolo bene, l’unica componente da considerare importante, ché altrimenti si giustificano come tipici gli errori di vigna e di cantina.
Ora, il groppello è vitigno certamente degno d’interesse. Ma non è un fuoriclasse. Nel senso che per farci vino di costrutto ci si deve molto impegnare. Non ha colore, quest’uva. Dà sovente tannino rustichello. Non è spargola (il nome, groppello, viene del resto da groppo, da uve con gli acini serrati l’uno all’altro) e quindi è facile che l’attacchino i funghi, le muffe. E forse poi (ma direi senza forse) ha bisogno di spalla, forse vuol compagnia: e dunque metterci insieme un po’ d’altre uve non guasta, anzi. Di contro, mi piace assai quel suo tono di fragolona, che assieme alla faccenda del colore chiaro m’ha fatto dire altre volte – e non lo si prenda per affronto – che mi ricorda il pinot nero borgognone, e che quello potrebb’essere dunque il riferimento per chi voglia far vino in Valtènesi.
Badate: ne stanno prendendo consapevolezza, i vignaiuoli del luogo. E stanno tirando fuori bottiglie sempre più buone. Affrettatevi in zona, se ancora non la frequentate.
Il salto di qualità definitivo mi par lì che arriva. Debbo pur dire che quattro passaggi l’aiuterebbero molto. E cerco di parlarne qui sotto.
Il primo: meglio conoscer l’uva principale. So bene che s’è attivato un progetto groppello da parte del Consorzio del Garda Classico. E dunque l’auspicio è che il progetto vada avanti spedito, magari affiancando qualche ricercatore d’università ai pur volenterosi tecnici del luogo.
Il secondo: meglio conoscere la terra, il territorio. Serve un progetto di zonazione, e mica in senso classico solo: non basta, cioè, che mi si dica se quell’ettaro è adatto o no a piantarci quella tal uva, ma voglio anche sapere quali caratteri aromatici l’uva ne ricaverà da quel suolo, quel clima, quell’esposizione. Informazione essenziale, se voglio progettare vini d’equilibrio ed eleganza e finezza ed armonia.
Il terzo: abbandonare l’uvaggio. Ahimé, i vigneron di Valtenesi - troppi, anche se certo non tutti - amano ancora pigiare assieme le varie uve dei loro rossi, e dunque groppello e barbera e marzemino e sangiovese, ma anche da qualche tempo sempre più rebo. Lo ritengo un errore, fare uvaggio ancora, invece che far cuvée. Impossibile, assolutamente impossibile, che tutte l’uva maturino in contemporanea. Servono vinificazioni distinte, affinamenti separati, e poi far taglio. Che varierà d’anno in anno, ché ogni annata è diversa, grazie al cielo.
Il quarto: imparare l’appassimento breve. Non nascondiamocelo: col groppello - che è uva poco adatta, essendo compatta anziché spargola - si fa sovente un po’ d’appassimento, e la ritengo cosa che può aiutare. Ma è quasi sempre appassimento empiricamente condotto: trenta giorni perché così s’è sempre fatto, per tradizione. Senza interrogarsi, invece, di come quell’uva cambi, modifichi, plasmi il proprio profilo aromatico al variare dei giorni (giorni!) d’asciugatura. Mancano riscontri scientifici, analitici, ch’aiutino il vignaiolo. Il gap va colmato da subito. Eppoi ho visto troppi locali d’appassimento del tutto impropri: esposti all’umidore, all’arie malandrine, senza regolazione alcuna.
Detto questo, comunque si son fatti passi avanti importanti, convincenti, avvincenti sul fronte de’ rossi di Valtènesi. E son sicuri - ripeto, ribadisco, confermo, sottolineo, rimarco, evidenzio - che si è pronti per spiccare il volo. Spiccare il volo, già: far grandi rossi. Sicuro. Rossi di Valtènesi. Appunto: terroir. Col plusvalore dell’autoctono.
Quali sono ‘sti vini? Pazientate - ripeto - fino alla prossima puntata.
sabato 13 ottobre 2007
E se l’appassimento cattivo scacciasse quello buono?
Angelo Peretti
In economia, e più spesso da qualche tempo nel politichese, si cita spesso la cosiddetta legge di Gresham. Quella che afferma che la moneta cattiva scaccia quella buona. A dire il vero, sulla paternità di quest’asserzione s’è fatto un gran discorrere: pare addirittura che non sia stato nemmeno sir Thomas Gresham, agente di commercio britannico del Cinquecento, a definirla per primo. Chissà. Così pure ci si è spesso accapigliati sulla sua interpretazione autentica. E siccome questo non è un web magazine che s’occupi rigorosamente di temi economici, ecco che della legge di Gresham ripropongo una delle letture più elementari (e correnti), osservando che nel tempo si è sempre stati portati a spendere, a parità di valore nominale, le monete con peggiore contenuto metallico e a conservare invece - ed anzi accumulare - quelle con un pelo più, che so, d’oro o d’argento. In fondo, facciamo così anche adesso che c’è la moneta di carta: prima diamo via quella sgualcita, preferendo tenere nel portafoglio quella messa meglio, quella fior di stampa, come direbbero i collezionisti.
Perché quest’incipit para-economico su questo giornale che parla di vino e (più raramente, l’ammetto, e dovrò rimediare) di cose mangerecce? Perché temo che la legge di Gresham, un po’ riadattata, possa finire per applicarsi al vino. E in particolare al vino di Valpolicella. A quello più quotato: l’Amarone. Figlio dell’appassimento.
Non vorrei che in futuro si dovesse dire che l’appassimento cattivo ha scacciato quello buono. E cerco di spiegarmi.
Sono un po’ preoccupato per come vedo mettersi le cose in terra valpolicellese, sissignori. E mi dispiace, perché da quelle parti ho parecchi amici. Ma una riflessione credo vada tentata. Sperando che quanto andrò dicendo si riveli sbagliato, sbagliatissimo. Che si tratti solo d’allucinazioni.
L’Amarone, si sa, va forte. L’uva da appassimento (perché - chiederanno i maligni - ce n’è anche dell’altra che non va nei fruttai, in Valpolicella?) costa un occhio della testa. La terra ha assunto quotazioni fuori da ogni previsione. Bene: i vigneron della Valpolicella han potuto mettere fieno in cascina.
Solo che il successo dell’Amarone ha scatenato la fantasia. E la bramosia. Ed ecco che l’appassimento non è più peculiarità solo del rosso amaronista (e del di lui storico padre, oggi reietto, il Recioto, che adoro), ma s’utilizza, direttamente o meno, per figliocci e figliastri. Figlioccio è il Ripasso, e anch’esso ha gran presa sul mercato. Figliastro è ogni rosso igt che s’avvalga, appunto, d’uva fatte seccar nei fruttai, e ne vien fuori di tutto e di più.
Il Ripasso consiste nel far rifermentare il Valpolicella sulle vinacce dell’Amarone. In questa maniera il vino assume afrori tipici dell’appassimento. E cresce in struttura e complessità. Il problema che ci si è fin da subito - giustamente - posti in terra valpolicellese era quanto Ripasso fosse lecito produrre a fronte dell’Amarone tirato fuori dall’uva d’origine. Si è giunti a stabilire che le vinacce che hanno prodotto un quintale d’Amarone possono essere adoperate per far rifermentare due quintali di Valpolicella. A me, onestamente, sembra un po’ troppo, ma capisco: business is business. E sia. Solo che non s’è pensato che, fatta la pentola, occorreva fare anche il coperchio. E così in Valpolicella sulle vinacce dell’Amarone è nato, appunto un business.
La faccenda è questa. Mettiamo che io sia un produttore di quelli che non vogliono fare troppo Ripasso. Diciamo che ho prodotto un quintale d’Amarone e sulle sue vinacce ho ripassato un solo quintale di Valpolicella. Mi trovo virtualmente in mano diritti di Ripasso pari a un quintale, su quelle mie vinacce. Che faccio, li spreco quei diritti ripassevoli? Macché: li vendo! E piglio soldi anche lì. Così un altro può acquistare quelle mie carte e far ripassare il suo bel quintale di Valpolicella sulle mie vinacce. E dunque il Ripasso assume numero impressionanti. Senza però badare alla qualità del Valpolicella di partenza. Ed è un guaio, ché ormai il Ripasso è visto come una sorta di piccolo Amarone: non s’usa forse diffusamente questa definizione? Col prezzo che al massimo è la metà di quello dell’Amarone, ma quasi sempre scende molto, molto più in basso, a un quarto, un quinto.
Ma non basta. Gli è che in Valpolicella a far l’appassimento delle uve son maestri. E i fruttai sono perfettamente funzionali, addirittura computerizzati. E allora perché usarli solo per appassire le uve da Amarone? Si mette ad appassire anche altra roba: che so, uve che non sono adatte, corvine che non finiranno mai nei rossi importanti, cabernet piantati in modo un po’ avventato un decennio fa sull’onda delle mode americaneggianti. E alla fine ci si ricavano rossi d’una certa struttura che riecheggiano nei toni l’originale amaronista. Magari, ci si taglia insieme anche qualche barrique del potenziale Amarone meno riuscito, che non pare idoneo per la doc del vino principe, e il gioco è fatto: è nato il super-red appassimento style. Ed escono decine e decine d’igt di fantasia (ma sono in verità centinaia, credetemi). Vagamente amaroneggianti, appunto, ancorché di qualità sovente incerta. A prezzo però quasi sempre ancora più basso del Ripasso.
Così, può succedere che la stessa azienda, dal fruttaio tragga un Amarone - butto lì prezzi a casaccio - a 25-30 euro, un Ripasso a 9-10 e un rosso igt a 6-7. E il tutto va, ovviamente, venduto. Magari spedendo l’igt ai mercati emergenti, quelli che ancora non sono capaci d’assorbire bancali d’Amarone.
Già, ma se su quei mercati imparano che un rosso valpolicellese d’appassimento costa 7 euro, come farete poi, cari vignaiuoli di Valpolicella, a spiegare che un altro rosso pur’esso d’appassimento della vostra terra costa quattro volte tanto, ancorché si chiami Amarone? E con tutto quel Ripasso che gira, poi, e che ha botte d’alcol sopra i 14 gradi, e che quindi amaroneggia vieppiù, non ci sarà il rischio d’un effetto sostituzione, per via del prezzo, su tutta quella fascia di wine drinkers che di spendere certe cifre non se lo possono (più) permettere? E non c’è forse il pericolo che l’appassimento peggiore scacci quello migliore, e che dunque il Ripasso scacci l’Amarone e l’igt scacci il Ripasso?
L’ho detto di recente a qualche valpolicellista. Uno, sull’uscio della sua ultramoderna cantina, ha allargato le braccia e, sorriso stampato in faccia, m’ha ribattuto: «Finché li vendo io li faccio, vorrai mica che butti via tutta quella roba...» Già, finché li vendi, quei rossi, prendi e porta a casa. Ché il conto in banca cresce. Poi si vedrà.
Oh, sì, forse queste cose le scrivo perché ho mangiato male, e faccio un po’ fatica a digerire. E dunque son d’umore cupo. Eppoi per me ottobre (il primo autunno) è tempo gramo, da sempre, e mi deprime. Forse, sì, le scrivo per questo, certe cose. O forse no.
In economia, e più spesso da qualche tempo nel politichese, si cita spesso la cosiddetta legge di Gresham. Quella che afferma che la moneta cattiva scaccia quella buona. A dire il vero, sulla paternità di quest’asserzione s’è fatto un gran discorrere: pare addirittura che non sia stato nemmeno sir Thomas Gresham, agente di commercio britannico del Cinquecento, a definirla per primo. Chissà. Così pure ci si è spesso accapigliati sulla sua interpretazione autentica. E siccome questo non è un web magazine che s’occupi rigorosamente di temi economici, ecco che della legge di Gresham ripropongo una delle letture più elementari (e correnti), osservando che nel tempo si è sempre stati portati a spendere, a parità di valore nominale, le monete con peggiore contenuto metallico e a conservare invece - ed anzi accumulare - quelle con un pelo più, che so, d’oro o d’argento. In fondo, facciamo così anche adesso che c’è la moneta di carta: prima diamo via quella sgualcita, preferendo tenere nel portafoglio quella messa meglio, quella fior di stampa, come direbbero i collezionisti.
Perché quest’incipit para-economico su questo giornale che parla di vino e (più raramente, l’ammetto, e dovrò rimediare) di cose mangerecce? Perché temo che la legge di Gresham, un po’ riadattata, possa finire per applicarsi al vino. E in particolare al vino di Valpolicella. A quello più quotato: l’Amarone. Figlio dell’appassimento.
Non vorrei che in futuro si dovesse dire che l’appassimento cattivo ha scacciato quello buono. E cerco di spiegarmi.
Sono un po’ preoccupato per come vedo mettersi le cose in terra valpolicellese, sissignori. E mi dispiace, perché da quelle parti ho parecchi amici. Ma una riflessione credo vada tentata. Sperando che quanto andrò dicendo si riveli sbagliato, sbagliatissimo. Che si tratti solo d’allucinazioni.
L’Amarone, si sa, va forte. L’uva da appassimento (perché - chiederanno i maligni - ce n’è anche dell’altra che non va nei fruttai, in Valpolicella?) costa un occhio della testa. La terra ha assunto quotazioni fuori da ogni previsione. Bene: i vigneron della Valpolicella han potuto mettere fieno in cascina.
Solo che il successo dell’Amarone ha scatenato la fantasia. E la bramosia. Ed ecco che l’appassimento non è più peculiarità solo del rosso amaronista (e del di lui storico padre, oggi reietto, il Recioto, che adoro), ma s’utilizza, direttamente o meno, per figliocci e figliastri. Figlioccio è il Ripasso, e anch’esso ha gran presa sul mercato. Figliastro è ogni rosso igt che s’avvalga, appunto, d’uva fatte seccar nei fruttai, e ne vien fuori di tutto e di più.
Il Ripasso consiste nel far rifermentare il Valpolicella sulle vinacce dell’Amarone. In questa maniera il vino assume afrori tipici dell’appassimento. E cresce in struttura e complessità. Il problema che ci si è fin da subito - giustamente - posti in terra valpolicellese era quanto Ripasso fosse lecito produrre a fronte dell’Amarone tirato fuori dall’uva d’origine. Si è giunti a stabilire che le vinacce che hanno prodotto un quintale d’Amarone possono essere adoperate per far rifermentare due quintali di Valpolicella. A me, onestamente, sembra un po’ troppo, ma capisco: business is business. E sia. Solo che non s’è pensato che, fatta la pentola, occorreva fare anche il coperchio. E così in Valpolicella sulle vinacce dell’Amarone è nato, appunto un business.
La faccenda è questa. Mettiamo che io sia un produttore di quelli che non vogliono fare troppo Ripasso. Diciamo che ho prodotto un quintale d’Amarone e sulle sue vinacce ho ripassato un solo quintale di Valpolicella. Mi trovo virtualmente in mano diritti di Ripasso pari a un quintale, su quelle mie vinacce. Che faccio, li spreco quei diritti ripassevoli? Macché: li vendo! E piglio soldi anche lì. Così un altro può acquistare quelle mie carte e far ripassare il suo bel quintale di Valpolicella sulle mie vinacce. E dunque il Ripasso assume numero impressionanti. Senza però badare alla qualità del Valpolicella di partenza. Ed è un guaio, ché ormai il Ripasso è visto come una sorta di piccolo Amarone: non s’usa forse diffusamente questa definizione? Col prezzo che al massimo è la metà di quello dell’Amarone, ma quasi sempre scende molto, molto più in basso, a un quarto, un quinto.
Ma non basta. Gli è che in Valpolicella a far l’appassimento delle uve son maestri. E i fruttai sono perfettamente funzionali, addirittura computerizzati. E allora perché usarli solo per appassire le uve da Amarone? Si mette ad appassire anche altra roba: che so, uve che non sono adatte, corvine che non finiranno mai nei rossi importanti, cabernet piantati in modo un po’ avventato un decennio fa sull’onda delle mode americaneggianti. E alla fine ci si ricavano rossi d’una certa struttura che riecheggiano nei toni l’originale amaronista. Magari, ci si taglia insieme anche qualche barrique del potenziale Amarone meno riuscito, che non pare idoneo per la doc del vino principe, e il gioco è fatto: è nato il super-red appassimento style. Ed escono decine e decine d’igt di fantasia (ma sono in verità centinaia, credetemi). Vagamente amaroneggianti, appunto, ancorché di qualità sovente incerta. A prezzo però quasi sempre ancora più basso del Ripasso.
Così, può succedere che la stessa azienda, dal fruttaio tragga un Amarone - butto lì prezzi a casaccio - a 25-30 euro, un Ripasso a 9-10 e un rosso igt a 6-7. E il tutto va, ovviamente, venduto. Magari spedendo l’igt ai mercati emergenti, quelli che ancora non sono capaci d’assorbire bancali d’Amarone.
Già, ma se su quei mercati imparano che un rosso valpolicellese d’appassimento costa 7 euro, come farete poi, cari vignaiuoli di Valpolicella, a spiegare che un altro rosso pur’esso d’appassimento della vostra terra costa quattro volte tanto, ancorché si chiami Amarone? E con tutto quel Ripasso che gira, poi, e che ha botte d’alcol sopra i 14 gradi, e che quindi amaroneggia vieppiù, non ci sarà il rischio d’un effetto sostituzione, per via del prezzo, su tutta quella fascia di wine drinkers che di spendere certe cifre non se lo possono (più) permettere? E non c’è forse il pericolo che l’appassimento peggiore scacci quello migliore, e che dunque il Ripasso scacci l’Amarone e l’igt scacci il Ripasso?
L’ho detto di recente a qualche valpolicellista. Uno, sull’uscio della sua ultramoderna cantina, ha allargato le braccia e, sorriso stampato in faccia, m’ha ribattuto: «Finché li vendo io li faccio, vorrai mica che butti via tutta quella roba...» Già, finché li vendi, quei rossi, prendi e porta a casa. Ché il conto in banca cresce. Poi si vedrà.
Oh, sì, forse queste cose le scrivo perché ho mangiato male, e faccio un po’ fatica a digerire. E dunque son d’umore cupo. Eppoi per me ottobre (il primo autunno) è tempo gramo, da sempre, e mi deprime. Forse, sì, le scrivo per questo, certe cose. O forse no.
sabato 6 ottobre 2007
Meno male che almeno Gino... Del Lugana e dei silenzi luganisti
Angelo Peretti
È noto che la riconoscenza non è di questo mondo. E men che meno del mondo del vino. Per cui non mi sorprende quant’accade in terra di Lugana, ora che finalmente si sono assegnate le prime «stelle del Garda» nella disfida degustatoria delle «età del Lugana».
Di che cosa si tratti, lo lascio dire al comunicato stampa che ho ricevuto: «La scommessa chiamata “Le età del Lugana” lanciata alcuni anni orsono dal Consorzio voleva che una commissione di esperti giornalisti ne valutasse alcune annate confrontando le stesse e riconfermandole poi, l’anno successivo. Timidamente i produttori che si avvicinarono al primo “esperimento” furono pochi...» eccetera. Di fatto, si trattava di valutare una serie di Lugana, metter da parte quelli che sembrava avessero chance di migliorare nel tempo, riassaggiarli l’anno dopo e quello dopo ancora, e se per tre anni di fila davano esito favorevole, allora li si premiava con la stella della longevità. E i primi che han passato il test triennale son due Lugana del 2003: la Riserva del Lupo di Cà Lojera e il Molceo di Ottella. Buoni.
Ma adesso prendo l’incipit del comunicato stampa, che è questo: «Si è sempre definita “la scommessa” sulla longevità dei Lugana e, se di scommessa si trattava, ora, alla luce dell’evidenza, si può dire che la stessa sia stata vinta. Si, perché solo alcuni anni fa i Lugana tutelati dal Consorzio Tutela Lugana Doc vennero proposti ad un gruppo di giornalisti esperti del settore con la chiara intenzione di sfatare quella credenza che li voleva, essendo vini bianchi, non adatti ad un corretto e longevo affinamento. Il Lugana, si diceva e si credeva, va bevuto giovane e fresco, possibilmente d’annata. Fra i non credenti a questa volontà popolare il grande amico dei produttori di Lugana, Luigi Veronelli, incitava i produttori, sopratutto i giovani, a produrre il loro Lugana per poi dimenticarlo per qualche anno in cantina prima di commercializzarlo: “troverete grandi sorprese ed infinte soddisfazioni” diceva. Ed ancora una volta aveva ragione».
Giusto, giustissimo: Gino aveva ragione. Ma ce l’avevo certamente anch’io. Quando creai quest’occasione di confronto sulla longevità luganista, e Gino non c’entrava proprio.
Si sa, la riconoscenza non è di questo mondo, e neanche del mondo del vino. Ma visto che di come sia nata ‘sta faccenda non se ne dà cenno, voglio proprio togliermi lo sfizio (e già!) di mettere i puntini sulle i, e spiegare.
E dunque, il concorso delle «età del Lugana» venne di fatto concepito una sera a casa - e poi a cena, nel suo ristorante - di Igino Dal Cero (leggasi Cà dei Frati). L’anno prima avevo accettato la proposta di Paolo Fabiani (leggasi Tenuta Roveglia), allora presidente del Consorzio luganista - oggi c’è Francesco Montresor (leggasi Ottella) -, di rimettere in sesto il vecchio concorso della stella del Garda. Solo che agli assaggi m’annoiai parecchio, anche perché la formula con la degustazione prioritaria da parte degli enologici ci aveva tolto di mezzo qualche bel vino, giacché - pensate - l’avevan ritenuto poco «tipico» (ah, quanti misfatti lungo la strada della tipicità!). E insomma, facemmo passare meno vini di quanti ne prevedesse il regolamento. E poi spiegai le scelte, in una memorabile (per me, e per molti produttori, che ancora oggi me ne ricordano) relazione: troppo legno, troppa morbidezza, troppe ossidazioni, spiegai, un po’ rudemente magari.
La formula, dicevo, era oggettivamente vecchia, superata. E fra i meno convinti dell’operazione c’era Igino, che desiderava invece qualche cosa che fosse in grado di mettere in luce le prerogative del bianco di Lugana in termini di capacità di resistenza allo scorrere del tempo (e che belle bottiglie d’antan del Lugana I Frati ho potuto assaggiare!). E dunque, conversando, tirai fuori l’idea: che il pubblico giudicasse i vini dell’ultima annata in una sorta di concorso popolare, e che invece ai giornalisti venisse chiesto di scommettere, appunto, sulla longevità del vino, con ripetuto assaggio nel triennio. Insomma: c’è anche la mia firma su quest’operazione, vivaddìo. Ma nei comunicati non ne vedo traccia, ohibò. Ma capisco: la riconoscenza, eccetera.
Dico poi che comunque alle degustazioni del concorso delle «età del Lugana» ho partecipato solo il primo anno, per mia scelta, e dunque non ero presente né questa volta, né la precedente, e chi deve sapere il perché dell'assenza, lo sa, ma queste son faccende mie, che nulla tolgono al vino. E aggiungo che i due premiati, il Lupo e il Molceo, son davvero Lugana rappresentativi. E non avevo comunque grandi dubbi che sarebbero approdati al traguardo. Del resto, n’avevo già parlato nell’ottobre di due anni fa. E se comprensibilmente non volete rileggere il pezzo, mi limito a riportare qui sotto quant’avevo scritto allora sui due vini oggi vincenti.
In primis, la Riserva del Lupo 2003 di Cà Lojera: « Primo vini ad aver passato la selezione - dicevo - è il Lugana Riserva del Lupo 2003 di Cà Lojera. Per me, è un autentico fuoriclasse. Probabilmente uno dei migliori Lugana che mi sia mai stato dato d’assaggiare. L’ho già bevuto varie volte, e sempre mi si è confermato d’enorme carattere. Magari difficile, ora, da comprendere. Perché ancora chiuso, nervoso. Ma, a mio avviso, destinato a fascinoso futuro. È fatto in acciaio. Solo acciaio, niente legno. L’alcol, pur sostenuto, è quasi mascherato da una vivida freschezza, del tutto inusuale per la calda annata di cui è figlio. Emergono afrori d’agrumi (di limone, di pompelmo) e poi di citronella e d’erba di sfalcio. La vegetalità è a tutto tondo. La mineralità è lì che preme per uscir fuori. Il finale, lunghissimo, gioca sui toni della mandorla verde e della colorofilla. Lasciatelo riposare ancora, e vi darà soddisfazioni. Ci scommetto davvero». Scommessa vinta, dunque. E ne son lieto. E confermo: il miglior Lugana che ho bevuto fin qui (e garantisco che l’ho tastato spesso e lo tasto tuttora di frequente).
Ora, il Lugana Superiore Molceo 2003 di Ottella: «Poi - scrivevo allora -, il Lugana Molceo 2003 di Ottella. Siamo nella categoria dei vini affinati nel legno. E il Molceo si conferma ancora una gran bella espressione luganista. Denso, grasso, setoso, eppure anche citrino, rigoglioso di salvia. Il passaggio in botte quasi non l’avverti. Te ne accorgi solo per una vena vanigliata sottesa all’ampia struttura. Non dovrebbe aver proprio problemi a dipanarsi al meglio nel triennio che viene». E anche qui scommessa rivelatasi corretta. E son contento, ché i Montresor sanno il fatto loro, e lavorano bene, ed è bravo assai co’ bianchi Flavio Prà, che gli è consulente.
Ora, un altro commento. Qui sopra ho detto che entrambi i premiati, il Lupo e il Molceo, son Lugana rappresentativi. Rappresentano, intendo, le due scuole del pensiero luganista. Il primo, la Riserva del Lupo di Cà Lojera, è un vino fatto in acciaio, che nulla concede alla morbidezza, ma punta tutto su freschezza, e vegetalità, e mineralità. L’altro, il Molceo di Ottella, passa invece nel legno, e gioca sulla morbidezza polposa del frutto, su un velo di vanigliatura, sulla seduzione dolce. Riconosco, al Molceo di Ottella, gran piacevolezza. Ed è lo stile che oggi indubbiamente paga di più sul mercato. Lo stile più seguito dai produttori luganisti. Ma io - è noto - preferisco l’altra, di scuola. Quella che nulla concede alla morbidezza e alla dolcezza. Quella di Cà Lojera e del suo Lupo del 2003. Ché il Lugana è, per me - l’ho scritto più volte - rosso mascherato da bianco (mi prenderanno mica anche questa, di definizione, vero?), e guai se non tira fuori quella sua tagliente, ruvidosa anima che gli deriva dall’argille della Lugana, la terra che fu bosco e palude, prima di veder vigna. Ma siete sempre liberi di dirmi che sbaglio. O di non dire proprio niente, come fa il consorzio. Meno male che c’è almeno Gino, nelle citazioni. E certamente non ho dubbio alcuno ch’io valga non una, ma millanta volte meno di lui, e gloria alla sua memoria: ci mancherebbe.
Che dite? Che son permaloso? Sì, proprio vero: permalosissimo, l’ammetto. Ma vorrei veder voi, al posto mio, corbezzoli!
Post scriptum: l’escalamazione, corbezzoli!, non rientra propriamente nel mio bagaglio lessicale (che riconosco essere in genere più colorito e spesso figurativamente pertinente la fisiologia mascolina), ma me l’ha insegnata una certa persona, e la trovo appropriata, essendomi ripromesso di non eccedere, nello scritto.
È noto che la riconoscenza non è di questo mondo. E men che meno del mondo del vino. Per cui non mi sorprende quant’accade in terra di Lugana, ora che finalmente si sono assegnate le prime «stelle del Garda» nella disfida degustatoria delle «età del Lugana».
Di che cosa si tratti, lo lascio dire al comunicato stampa che ho ricevuto: «La scommessa chiamata “Le età del Lugana” lanciata alcuni anni orsono dal Consorzio voleva che una commissione di esperti giornalisti ne valutasse alcune annate confrontando le stesse e riconfermandole poi, l’anno successivo. Timidamente i produttori che si avvicinarono al primo “esperimento” furono pochi...» eccetera. Di fatto, si trattava di valutare una serie di Lugana, metter da parte quelli che sembrava avessero chance di migliorare nel tempo, riassaggiarli l’anno dopo e quello dopo ancora, e se per tre anni di fila davano esito favorevole, allora li si premiava con la stella della longevità. E i primi che han passato il test triennale son due Lugana del 2003: la Riserva del Lupo di Cà Lojera e il Molceo di Ottella. Buoni.
Ma adesso prendo l’incipit del comunicato stampa, che è questo: «Si è sempre definita “la scommessa” sulla longevità dei Lugana e, se di scommessa si trattava, ora, alla luce dell’evidenza, si può dire che la stessa sia stata vinta. Si, perché solo alcuni anni fa i Lugana tutelati dal Consorzio Tutela Lugana Doc vennero proposti ad un gruppo di giornalisti esperti del settore con la chiara intenzione di sfatare quella credenza che li voleva, essendo vini bianchi, non adatti ad un corretto e longevo affinamento. Il Lugana, si diceva e si credeva, va bevuto giovane e fresco, possibilmente d’annata. Fra i non credenti a questa volontà popolare il grande amico dei produttori di Lugana, Luigi Veronelli, incitava i produttori, sopratutto i giovani, a produrre il loro Lugana per poi dimenticarlo per qualche anno in cantina prima di commercializzarlo: “troverete grandi sorprese ed infinte soddisfazioni” diceva. Ed ancora una volta aveva ragione».
Giusto, giustissimo: Gino aveva ragione. Ma ce l’avevo certamente anch’io. Quando creai quest’occasione di confronto sulla longevità luganista, e Gino non c’entrava proprio.
Si sa, la riconoscenza non è di questo mondo, e neanche del mondo del vino. Ma visto che di come sia nata ‘sta faccenda non se ne dà cenno, voglio proprio togliermi lo sfizio (e già!) di mettere i puntini sulle i, e spiegare.
E dunque, il concorso delle «età del Lugana» venne di fatto concepito una sera a casa - e poi a cena, nel suo ristorante - di Igino Dal Cero (leggasi Cà dei Frati). L’anno prima avevo accettato la proposta di Paolo Fabiani (leggasi Tenuta Roveglia), allora presidente del Consorzio luganista - oggi c’è Francesco Montresor (leggasi Ottella) -, di rimettere in sesto il vecchio concorso della stella del Garda. Solo che agli assaggi m’annoiai parecchio, anche perché la formula con la degustazione prioritaria da parte degli enologici ci aveva tolto di mezzo qualche bel vino, giacché - pensate - l’avevan ritenuto poco «tipico» (ah, quanti misfatti lungo la strada della tipicità!). E insomma, facemmo passare meno vini di quanti ne prevedesse il regolamento. E poi spiegai le scelte, in una memorabile (per me, e per molti produttori, che ancora oggi me ne ricordano) relazione: troppo legno, troppa morbidezza, troppe ossidazioni, spiegai, un po’ rudemente magari.
La formula, dicevo, era oggettivamente vecchia, superata. E fra i meno convinti dell’operazione c’era Igino, che desiderava invece qualche cosa che fosse in grado di mettere in luce le prerogative del bianco di Lugana in termini di capacità di resistenza allo scorrere del tempo (e che belle bottiglie d’antan del Lugana I Frati ho potuto assaggiare!). E dunque, conversando, tirai fuori l’idea: che il pubblico giudicasse i vini dell’ultima annata in una sorta di concorso popolare, e che invece ai giornalisti venisse chiesto di scommettere, appunto, sulla longevità del vino, con ripetuto assaggio nel triennio. Insomma: c’è anche la mia firma su quest’operazione, vivaddìo. Ma nei comunicati non ne vedo traccia, ohibò. Ma capisco: la riconoscenza, eccetera.
Dico poi che comunque alle degustazioni del concorso delle «età del Lugana» ho partecipato solo il primo anno, per mia scelta, e dunque non ero presente né questa volta, né la precedente, e chi deve sapere il perché dell'assenza, lo sa, ma queste son faccende mie, che nulla tolgono al vino. E aggiungo che i due premiati, il Lupo e il Molceo, son davvero Lugana rappresentativi. E non avevo comunque grandi dubbi che sarebbero approdati al traguardo. Del resto, n’avevo già parlato nell’ottobre di due anni fa. E se comprensibilmente non volete rileggere il pezzo, mi limito a riportare qui sotto quant’avevo scritto allora sui due vini oggi vincenti.
In primis, la Riserva del Lupo 2003 di Cà Lojera: « Primo vini ad aver passato la selezione - dicevo - è il Lugana Riserva del Lupo 2003 di Cà Lojera. Per me, è un autentico fuoriclasse. Probabilmente uno dei migliori Lugana che mi sia mai stato dato d’assaggiare. L’ho già bevuto varie volte, e sempre mi si è confermato d’enorme carattere. Magari difficile, ora, da comprendere. Perché ancora chiuso, nervoso. Ma, a mio avviso, destinato a fascinoso futuro. È fatto in acciaio. Solo acciaio, niente legno. L’alcol, pur sostenuto, è quasi mascherato da una vivida freschezza, del tutto inusuale per la calda annata di cui è figlio. Emergono afrori d’agrumi (di limone, di pompelmo) e poi di citronella e d’erba di sfalcio. La vegetalità è a tutto tondo. La mineralità è lì che preme per uscir fuori. Il finale, lunghissimo, gioca sui toni della mandorla verde e della colorofilla. Lasciatelo riposare ancora, e vi darà soddisfazioni. Ci scommetto davvero». Scommessa vinta, dunque. E ne son lieto. E confermo: il miglior Lugana che ho bevuto fin qui (e garantisco che l’ho tastato spesso e lo tasto tuttora di frequente).
Ora, il Lugana Superiore Molceo 2003 di Ottella: «Poi - scrivevo allora -, il Lugana Molceo 2003 di Ottella. Siamo nella categoria dei vini affinati nel legno. E il Molceo si conferma ancora una gran bella espressione luganista. Denso, grasso, setoso, eppure anche citrino, rigoglioso di salvia. Il passaggio in botte quasi non l’avverti. Te ne accorgi solo per una vena vanigliata sottesa all’ampia struttura. Non dovrebbe aver proprio problemi a dipanarsi al meglio nel triennio che viene». E anche qui scommessa rivelatasi corretta. E son contento, ché i Montresor sanno il fatto loro, e lavorano bene, ed è bravo assai co’ bianchi Flavio Prà, che gli è consulente.
Ora, un altro commento. Qui sopra ho detto che entrambi i premiati, il Lupo e il Molceo, son Lugana rappresentativi. Rappresentano, intendo, le due scuole del pensiero luganista. Il primo, la Riserva del Lupo di Cà Lojera, è un vino fatto in acciaio, che nulla concede alla morbidezza, ma punta tutto su freschezza, e vegetalità, e mineralità. L’altro, il Molceo di Ottella, passa invece nel legno, e gioca sulla morbidezza polposa del frutto, su un velo di vanigliatura, sulla seduzione dolce. Riconosco, al Molceo di Ottella, gran piacevolezza. Ed è lo stile che oggi indubbiamente paga di più sul mercato. Lo stile più seguito dai produttori luganisti. Ma io - è noto - preferisco l’altra, di scuola. Quella che nulla concede alla morbidezza e alla dolcezza. Quella di Cà Lojera e del suo Lupo del 2003. Ché il Lugana è, per me - l’ho scritto più volte - rosso mascherato da bianco (mi prenderanno mica anche questa, di definizione, vero?), e guai se non tira fuori quella sua tagliente, ruvidosa anima che gli deriva dall’argille della Lugana, la terra che fu bosco e palude, prima di veder vigna. Ma siete sempre liberi di dirmi che sbaglio. O di non dire proprio niente, come fa il consorzio. Meno male che c’è almeno Gino, nelle citazioni. E certamente non ho dubbio alcuno ch’io valga non una, ma millanta volte meno di lui, e gloria alla sua memoria: ci mancherebbe.
Che dite? Che son permaloso? Sì, proprio vero: permalosissimo, l’ammetto. Ma vorrei veder voi, al posto mio, corbezzoli!
Post scriptum: l’escalamazione, corbezzoli!, non rientra propriamente nel mio bagaglio lessicale (che riconosco essere in genere più colorito e spesso figurativamente pertinente la fisiologia mascolina), ma me l’ha insegnata una certa persona, e la trovo appropriata, essendomi ripromesso di non eccedere, nello scritto.
lunedì 1 ottobre 2007
Quaranta, e (forse) si riparte: il Bardolino alla svolta
Angelo Peretti
Stavolta cedo il passo. L’ho già fatto un paio di volte in passato, e lo rifò volentieri anche stavolta: lascio il mio spazio all’intervento d’altri. E l’altro in questione è Giorgio Tommasi, presidente della Cantina di Castelnuovo, una delle tre realtà consortili del territorio gardesano di riva orientale.
Tommasi doveva partecipare con me e con Franco Cristoforetti (Villabella) e con l’amico Nereo Pederzolli, giornalista di quelli che ammiro, al convegno che il Consorzio del Bardolino ha organizzato per la festa dell’uva: la quarantesima vendemmia della doc bardolinista, era il tema. Eravamo a Bardolino, intendo. E in effetti ha partecipato, ma io che ero il cosiddetto moderatore dell’incontro, ho preferito metterlo sulla chiacchierata, e gli ho quindi domandato di sintetizzare. Solo che, rileggendolo, quell’intervento che s’era scritto m’è piaciuto, e gli ho chiesto se me ne dava copia, e adesso trovo giusto condividerne i contenuti. Ché non è mica così cionsueto che nella mia benacense terra si faccian riflessioni così a tutto tondo.
Dico subito, e mica per fare il bastian contrario, che non tutto condivido appieno, ma è naturale che possa esser così. E il punto di non totale condivisione è quando - lo leggerete - si parla dei vitigni, ché Tommasi vorrebbe tornare a valorizzarne la complessità, com’era nelle origini del Bardolino, ed apprezzo l’intento, ché questo porterebbe a rifare il vino salino e piacevolmente beverino che era. Ed è pur vero, però, che dice: prima la zonazione. In modo da verificare quali siano davvero i vitigni vocati terra per terra. E dunque già si fa distinzione. Personalmente, però, e l’ho scritto più volte, son terroirista: ossia, credo nel terroir. Più che nel vitigno, che considero uno soltanto dei cento caratterii del terroir, appunto. E dunque il vitigno m’intriga solo in parte, perché soprattutto vorrei che nel vino trasparisse l’anima del luogo e la genialità dell’uomo che in quel luogo vive, il genius loci, come dice chi se n’intende di cose di sociologia ed affini.
Detto questo, evviva! Mi piace quel che ha scritto Tommasi. E ve ne propongo la lettura. Ché finalmente nella mia terra si torna a pensare. E la rinascenza bardolinista potrebbe essere lì per arrivare.
Produrre un Bardolino di qualità
di Giorgio Tommasi
Voglio credere che quando mi è stato proposto di esprimere la mia opinione sul come produrre un Bardolino di qualità, lo si sia fatto perché la Cantina di Castelnuovo, che presiedo, coi suoi quasi trecento soci, è il maggior produttore di Bardolino, ma anche perché per me, come per Angelo Peretti, il primo vino bevuto è stato appunto il Bardolino (anzi, qualche goccia di Recioto di Lazise, nei primi anni di vita). E perché godo della fama di essere rigoroso, forse troppo, nel pretendere il rispetto di regole che siano finalizzate ad ottenere vini di qualità.
Accingendomi tuttavia a riordinare le idee per svolgere il tema, mi sono reso conto di quanto fosse vasto rispetto alle necessità di sintesi e complesso per me che non sono propriamente un esperto.
Subito si è presentato il problema di definire cosa si intenda per un Bardolino di qualità: per me, è il vino prodotto con buone uve dei vitigni tradizionali, nella giusta miscela, coltivati nei migliori vigneti, all’interno della zona delimitata dal disciplinare.
Può sembrare una definizione lapalissiana, ma non tutti sono stati e sono d’accordo.
Vedo di seguire passo per passo la definizione proposta.
Il vino. Per me la vinificazione deve semplicemente assecondare e seguire i naturali processi di fermentazione, macerazione e maturazione, senza introdurre strani artifici (ad esempio la barrique), utilizzando al meglio quello che la tecnologia ci offre per riprodurre su larga scala e con risultati prevedibili quello che millenni di esperienza ci hanno insegnato.
Vitigni tradizionali. Qui comincia a nascere un problema che è di pochissimi vini, cioè la presenza di molte varietà di uva. Penso che sia improponibile e probabilmente inutile ritornare alle decine di varietà utilizzate cinquanta, cento o duecento anni fa. Però alcuni punti fermi sono necessari. La corvina e la rondinella vanno benissimo, ma come fare un Bardolino vero senza molinara (quasi sempre citata nelle retroetichette, ma quasi mai presente), senza sangiovese e negrara, senza un pizzico di garganega e fernanda? E poi i vitigni di più recente introduzione: sì a piccole dosi di merlot (che nelle nostre colline è di grande qualità) e di barbera, che hanno tradizione centenaria, no al cabernet che c’entra come i cavoli a merenda.
Giusta miscela. È impossibile fissare percentuali precise: ad ogni produttore la sua ricetta. Mi limiterò a registrare la tendenza ad esagerare con la corvina, probabilmente per scarsità di uve di qualità degli altri vitigni.
Nei migliori vigneti. Ci troviamo di fronte ad un altro problema particolarmente accentuato nella zona del Bardolino: la variabilità esasperata dei suoli, che provengono da substrati pedogenetici trasportati dal ghiacciaio in quattro glaciazioni (anche se solo le ultime due sono importanti). È quindi fondamentale enfatizzare l’importanza della macro e micro zonazione, che permette di individuare gli appezzamenti con diverse caratteristiche, ma comunque ottimali per la coltivazione della vite, e quelli da bandire: è questa, a mio parere, la priorità assoluta per il Bardolino! Ci avevano già pensato i nostri antenati facendo leva sull’esperienza di millenni, ed ora per molti motivi dobbiamo utilizzare strumenti moderni e scientifici come le analisi del terreno, le microvinificazioni, eccetera.
Continuando a definire i migliori vigneti, accenno alla forma di allevamento e alla densità di impianto. Per fortuna è abbastanza semplice: va benissimo il guyot, che peraltro si avvicina al filare ad archetto già utilizzato da tempo (io coltivo vigneti impostati così che hanno sessant’anni d’età) e vanno bene le densità tra quattromila e cinquemila viti per ettaro.
Per quanto riguarda portainnesti e cloni, ritorniamo alla complessità e ai problemi. Ci troviamo con vigneti degli ultimi anni del secolo con portainnesti vigorosi (come il famigerato kober), cloni troppo produttivi e forme espanse, che convivono con i nuovi impianti sicuramente indirizzati alla qualità, ma ancora giovani per darci i grappoli migliori. E sui cloni è auspicabile intensificare gli sforzi per selezionarne di nuovi dai pochi vigneti antichi rimasti, anche per non cadere nella standardizzazione delle uve.
Tralascio di parlare delle pratiche agronomiche, perché sarebbe troppo lungo. Solo un pensiero: la vite ha bisogno di soffrire un po’, e quindi solo eventuali irrigazioni di soccorso.
Seguendo lo schema proposto, ritengo che avremo ottenuto non uno, ma molti Bardolino di qualità, che potranno di volta in volta essere pronti, leggeri e da bere giovani, oppure più corposi e adatti all’invecchiamento di qualche anno, con più o meno colore, più o meno salati e così via, ma tutti inconfondibilmente Bardolino.
Per finire, un cenno al ruolo delle cantine sociali: in ogni denominazione, sono fondamentali per l’equilibrio della filiera e devono essere orientate a premiare la qualità delle uve. Già nel 1903, quando nascevano le prime cantine cooperative, il Marescalchi individuava come il principale problema la valutazione delle uve dei soci, elencando sei diversi metodi per definirne la qualità. È trascorso più di un secolo, ma il problema è sempre attuale. Con la differenza che oggi sono in fase di sperimentazione avanzata strumenti tecnologici che permettono la misurazione di fondamentali parametri qualitativi.
La scelta di come remunerare le diverse uve incide in maniera significativa sui comportamenti e sulle decisioni del socio, non solo nel breve, ma anche nel medio e lungo periodo, influenzando la viticoltura di un intero territorio.
Concludo con gli auguri di buon compleanno al Bardolino e… come si dice: la vita inizia a quarant’anni!
Giorgio Tommasi
E adesso chiudo io, da padrone di casa, e m’associo: avanti coi prossimi quaranta.
Stavolta cedo il passo. L’ho già fatto un paio di volte in passato, e lo rifò volentieri anche stavolta: lascio il mio spazio all’intervento d’altri. E l’altro in questione è Giorgio Tommasi, presidente della Cantina di Castelnuovo, una delle tre realtà consortili del territorio gardesano di riva orientale.
Tommasi doveva partecipare con me e con Franco Cristoforetti (Villabella) e con l’amico Nereo Pederzolli, giornalista di quelli che ammiro, al convegno che il Consorzio del Bardolino ha organizzato per la festa dell’uva: la quarantesima vendemmia della doc bardolinista, era il tema. Eravamo a Bardolino, intendo. E in effetti ha partecipato, ma io che ero il cosiddetto moderatore dell’incontro, ho preferito metterlo sulla chiacchierata, e gli ho quindi domandato di sintetizzare. Solo che, rileggendolo, quell’intervento che s’era scritto m’è piaciuto, e gli ho chiesto se me ne dava copia, e adesso trovo giusto condividerne i contenuti. Ché non è mica così cionsueto che nella mia benacense terra si faccian riflessioni così a tutto tondo.
Dico subito, e mica per fare il bastian contrario, che non tutto condivido appieno, ma è naturale che possa esser così. E il punto di non totale condivisione è quando - lo leggerete - si parla dei vitigni, ché Tommasi vorrebbe tornare a valorizzarne la complessità, com’era nelle origini del Bardolino, ed apprezzo l’intento, ché questo porterebbe a rifare il vino salino e piacevolmente beverino che era. Ed è pur vero, però, che dice: prima la zonazione. In modo da verificare quali siano davvero i vitigni vocati terra per terra. E dunque già si fa distinzione. Personalmente, però, e l’ho scritto più volte, son terroirista: ossia, credo nel terroir. Più che nel vitigno, che considero uno soltanto dei cento caratterii del terroir, appunto. E dunque il vitigno m’intriga solo in parte, perché soprattutto vorrei che nel vino trasparisse l’anima del luogo e la genialità dell’uomo che in quel luogo vive, il genius loci, come dice chi se n’intende di cose di sociologia ed affini.
Detto questo, evviva! Mi piace quel che ha scritto Tommasi. E ve ne propongo la lettura. Ché finalmente nella mia terra si torna a pensare. E la rinascenza bardolinista potrebbe essere lì per arrivare.
Produrre un Bardolino di qualità
di Giorgio Tommasi
Voglio credere che quando mi è stato proposto di esprimere la mia opinione sul come produrre un Bardolino di qualità, lo si sia fatto perché la Cantina di Castelnuovo, che presiedo, coi suoi quasi trecento soci, è il maggior produttore di Bardolino, ma anche perché per me, come per Angelo Peretti, il primo vino bevuto è stato appunto il Bardolino (anzi, qualche goccia di Recioto di Lazise, nei primi anni di vita). E perché godo della fama di essere rigoroso, forse troppo, nel pretendere il rispetto di regole che siano finalizzate ad ottenere vini di qualità.
Accingendomi tuttavia a riordinare le idee per svolgere il tema, mi sono reso conto di quanto fosse vasto rispetto alle necessità di sintesi e complesso per me che non sono propriamente un esperto.
Subito si è presentato il problema di definire cosa si intenda per un Bardolino di qualità: per me, è il vino prodotto con buone uve dei vitigni tradizionali, nella giusta miscela, coltivati nei migliori vigneti, all’interno della zona delimitata dal disciplinare.
Può sembrare una definizione lapalissiana, ma non tutti sono stati e sono d’accordo.
Vedo di seguire passo per passo la definizione proposta.
Il vino. Per me la vinificazione deve semplicemente assecondare e seguire i naturali processi di fermentazione, macerazione e maturazione, senza introdurre strani artifici (ad esempio la barrique), utilizzando al meglio quello che la tecnologia ci offre per riprodurre su larga scala e con risultati prevedibili quello che millenni di esperienza ci hanno insegnato.
Vitigni tradizionali. Qui comincia a nascere un problema che è di pochissimi vini, cioè la presenza di molte varietà di uva. Penso che sia improponibile e probabilmente inutile ritornare alle decine di varietà utilizzate cinquanta, cento o duecento anni fa. Però alcuni punti fermi sono necessari. La corvina e la rondinella vanno benissimo, ma come fare un Bardolino vero senza molinara (quasi sempre citata nelle retroetichette, ma quasi mai presente), senza sangiovese e negrara, senza un pizzico di garganega e fernanda? E poi i vitigni di più recente introduzione: sì a piccole dosi di merlot (che nelle nostre colline è di grande qualità) e di barbera, che hanno tradizione centenaria, no al cabernet che c’entra come i cavoli a merenda.
Giusta miscela. È impossibile fissare percentuali precise: ad ogni produttore la sua ricetta. Mi limiterò a registrare la tendenza ad esagerare con la corvina, probabilmente per scarsità di uve di qualità degli altri vitigni.
Nei migliori vigneti. Ci troviamo di fronte ad un altro problema particolarmente accentuato nella zona del Bardolino: la variabilità esasperata dei suoli, che provengono da substrati pedogenetici trasportati dal ghiacciaio in quattro glaciazioni (anche se solo le ultime due sono importanti). È quindi fondamentale enfatizzare l’importanza della macro e micro zonazione, che permette di individuare gli appezzamenti con diverse caratteristiche, ma comunque ottimali per la coltivazione della vite, e quelli da bandire: è questa, a mio parere, la priorità assoluta per il Bardolino! Ci avevano già pensato i nostri antenati facendo leva sull’esperienza di millenni, ed ora per molti motivi dobbiamo utilizzare strumenti moderni e scientifici come le analisi del terreno, le microvinificazioni, eccetera.
Continuando a definire i migliori vigneti, accenno alla forma di allevamento e alla densità di impianto. Per fortuna è abbastanza semplice: va benissimo il guyot, che peraltro si avvicina al filare ad archetto già utilizzato da tempo (io coltivo vigneti impostati così che hanno sessant’anni d’età) e vanno bene le densità tra quattromila e cinquemila viti per ettaro.
Per quanto riguarda portainnesti e cloni, ritorniamo alla complessità e ai problemi. Ci troviamo con vigneti degli ultimi anni del secolo con portainnesti vigorosi (come il famigerato kober), cloni troppo produttivi e forme espanse, che convivono con i nuovi impianti sicuramente indirizzati alla qualità, ma ancora giovani per darci i grappoli migliori. E sui cloni è auspicabile intensificare gli sforzi per selezionarne di nuovi dai pochi vigneti antichi rimasti, anche per non cadere nella standardizzazione delle uve.
Tralascio di parlare delle pratiche agronomiche, perché sarebbe troppo lungo. Solo un pensiero: la vite ha bisogno di soffrire un po’, e quindi solo eventuali irrigazioni di soccorso.
Seguendo lo schema proposto, ritengo che avremo ottenuto non uno, ma molti Bardolino di qualità, che potranno di volta in volta essere pronti, leggeri e da bere giovani, oppure più corposi e adatti all’invecchiamento di qualche anno, con più o meno colore, più o meno salati e così via, ma tutti inconfondibilmente Bardolino.
Per finire, un cenno al ruolo delle cantine sociali: in ogni denominazione, sono fondamentali per l’equilibrio della filiera e devono essere orientate a premiare la qualità delle uve. Già nel 1903, quando nascevano le prime cantine cooperative, il Marescalchi individuava come il principale problema la valutazione delle uve dei soci, elencando sei diversi metodi per definirne la qualità. È trascorso più di un secolo, ma il problema è sempre attuale. Con la differenza che oggi sono in fase di sperimentazione avanzata strumenti tecnologici che permettono la misurazione di fondamentali parametri qualitativi.
La scelta di come remunerare le diverse uve incide in maniera significativa sui comportamenti e sulle decisioni del socio, non solo nel breve, ma anche nel medio e lungo periodo, influenzando la viticoltura di un intero territorio.
Concludo con gli auguri di buon compleanno al Bardolino e… come si dice: la vita inizia a quarant’anni!
Giorgio Tommasi
E adesso chiudo io, da padrone di casa, e m’associo: avanti coi prossimi quaranta.
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