Angelo Peretti
I dodici lettori che mi fanno la cortesia di leggere di tanto in tanto questa rubrica sanno probabilmente della mia opinione sul Lugana. Ossia che è sì bianco buono da bere giovane, ma che soprattutto merita, nelle etichette migliori, d’esser fatto affinare per qualche anno e anche di più. Come accade per pochi altri bianchi italiani: qualche Soave, qualche Trebbiano marchigiano e qualcheduno magari dell’Abruzzo. Poi, credo, basta. Invece il Lugana, con quel suo esser vino d’argille, su cui la vigna fatica e stenta, sa esser longevo, e anzi migliora addirittura, se ben fatto e ben serbato in cantina, col fluire degli anni. Ora, è accaduto che il consorzio di tutela del Lugana abbia convocato un manipolo di giornalisti, fra cui il sottoscritto, per sottoporre al loro palato una quindicina di bottiglie e valutarne il potenziale d’affinamento. La scommessa era questa: può qualcuno di questi vini esser tale da migliorare nel prossimo triennio? Unica regola per il produttore era presentare vini almeno del 2003, esclusa dunque l’ultima annata (e, badate, il 2004 è stata ottima vendemmia bianchista). Ebbene, su circa un terzo ci siamo sentito di provare a scommettere. Li riassaggeremo l’anno venturo e quello dopo, e dovranno mostrarsi non già semplicemente conservati, ma anzi cresciuti in eleganza.
Quali siano questi Lugana dal possibile futuro in crescendo ve lo vado a descrivere qui di seguito.
Primo vini ad aver passato la selezione è il Lugana Riserva del Lupo 2003 di Cà Lojera. Per me, è un autentico fuoriclasse. Probabilmente uno dei migliori Lugana che mi sia mai stato dato d’assaggiare. L’ho già bevuto varie volte, e sempre mi si è confermato d’enorme carattere. Magari difficile, ora, da comprendere. Perché ancora chiuso, nervoso. Ma, a mio avviso, destinato a fascinoso futuro. È fatto in acciaio. Solo acciaio, niente legno. L’alcol, pur sostenuto, è quasi mascherato da una vivida freschezza, del tutto inusuale per la calda annata di cui è figlio. Emergono afrori d’agrumi (di limone, di pompelmo) e poi di citronella e d’erba di sfalcio. La vegetalità è a tutto tondo. La mineralità è lì che preme per uscir fuori. Il finale, lunghissimo, gioca sui toni della mandorla verde e della colorofilla. Lasciatelo riposare ancora, e vi darà soddisfazioni. Ci scommetto davvero.
Cà Lojera ha giocato una seconda ottima carta col suo Lugana Superiore 2001. Altro bel vino. Stavolta da botte di legno. Anche qui, i colleghi sono stati concordi: bel vino ora, ma potrà ancora migliorare (occhio: è un 2001, e dunque ha già quattr’anni sul groppone). Al naso appare addirittura restio a concedersi. Ma mineralità e nota verde poi balzano fuori. La bocca è agile, vibrante. Il legno non è ancora del tutto fuso. Si farà: probabilmente il prossimo triennio lo vedrà arrivare al massimo delle potenzialità.
Torniamo ai bianchi fatti in acciaio. Ha passato la prova il Lugana Superiore Vigna di Catullo 2003 della Tenuta Roveglia. Altro bel vino (e badate: il Lugana base del 2004 è addirittura una spanna sopra: compratelo e mettetene un po’ da parte). Frutto di tre successive vendemmie, ne propone i diversi caratteri. Vegetale e salino per rappresentare la prima e la seconda cernita in vigna, denso di frutto surmaturo e quasi di caramello per descrivere il terzo passaggio, quello della vendemmia tardiva.
Poi, il Lugana Molceo 2003 di Ottella. Siamo nella categoria dei vini affinati nel legno. E il Molceo si conferma ancora una gran bella espressione luganista. Denso, grasso, setoso, eppure anche citrino, rigoglioso di salvia. Il passaggio in botte quasi non l’avverti. Te ne accorgi solo per una vena vanigliata sottesa all’ampia struttura. Non dovrebbe aver proprio problemi a dipanarsi al meglio nel triennio che viene.
Quinto e ultimo vino su cui ci siam sentiti di scommettere, il Lugana Superiore Fabio Contato 2003 di Provenza. Fabio è il patron dell’azienda e firma di pugno in etichetta nelle annate migliori un bianco e un rosso. Questo Lugana fa legno. Ed è un vino che ha muscoli e gran corpo. Ricorda i frutti esotici, i fiori bianchi (la magnolia), l’uva surmatura. La vena verde è ben impressa. Decisa. La mineralità è lì pronta a comparire. Non avrei dubbi sulla tenuta per tre e più anni.
Detto questo, abbiamo anche provato qualche vecchia bottiglia di Lugana, giusto per avere (per me scontata) conferma della longevità del bianco di riviera. La migliore, entusiasmante, era quella d’un Lugana I Frati 1996 di Cà dei Frati. Vino superbo, che rasenta la perfezione. Roba da 95 centesimi di valutazione. Naso da idrocarburi e pietra focaia, che s’apre con lentezza estrema verso i ricordi di frutto e fieno, di fiori essiccati e mandorla. Emerge anche un’aristocratica venatura fumé. Bocca solida, sapida, vegetale. Esce di lì a poco la susina acerba. Poi ecco le erbe alpestri in un finale lunghissimo e avvolgente. Fantastico. Peccato non ce ne sia praticamente più neppure nella collezione privata di casa Dal Cero.
Buonissimo anche il Lugana Il Brolettino 1994, sempre di Cà dei Frati. Di questo vino ho raccontato qualche tempo fa una piccola verticale. Meglio il Frati ‘96, ma ragazzi che stoffa che conferma anche questo Brolettino, con quel suo naso subito prima restio e poi ammaliante nell’ampliarsi verso toni floreali che sanno di gelsomino. La bocca propone erbe montane, menta, eucalipto. Il finale rammenta i distillati di susina.
Poi, due sorprese. La prima, il Lugana Superiore Vigna di Catullo 1994 di Tenuta Roveglia. Ha naso minerale, con memorie quasi di kerosene. Escono poi il fieno secco, la buccia essiccata d’agrumi. Il palato lo coglie ancora integro, sapido. Ha sentori di limone, di cedro candito. Poi, la mandorla verde. È probabilmente giunto all’apice della maturazione, e più a lungo non potrà ancora svilupparsi, ma vivaddio ha passato con scioltezza il decennio.
Infine, sorpresa vera, ché non ho mai apprezzato moltissimo, l’ammetto, l’etichetta, il Lugana Il Rintocco 1996 della Marangona. Ebbene sì, oggi è un gran bel vino. Il naso è violentemente improntato al segno degli idrocarburi tipici dei trebbiani coltivati su argille ostiche. Sa, subito, di trielina, gasolio, nafta. Che quasi butti indietro la testa. Ma poi, ossigenandosi, i sentori minerali divengono ammalianti. E dopo, ecco il frutto giallo. In bocca è addirittura giovanile, pregno di memorie vegetali, d’eucalipto, mentuccia, erba luigia. Per finire, freschissimo, sulla mandorla verde. Averne qualche bottiglia in cantina non sarebbe male.
domenica 30 ottobre 2005
lunedì 17 ottobre 2005
L’uomo del Monte (Lodoletta) ha detto no
Angelo Peretti
Alla faccia di chi anche stavolta ha gridato alla vendemmia del secolo. Romano Dal Forno ha deciso: niente Amarone 2005. Lo ha annunciato il quotidiano «L’Arena». In una lunga intervista al vigneron di Cellore d’Illasi, fresco di nomina di «vignaiolo dell’anno» da parte di «Vini d’Italia», la guida targata Gambero Rosso & Slow Food. E vivaddio, questa sì che è una notizia. Perché è una svolta, in terra di Valpolicella. Super-Romano – quello che si occupa di vigne sul Monte Lodoletta, mica l’altro che ha in mente l’Ulivo – ha confessato a Giancarlo Beltrame: «Non ci sarà un Amarone Dal Forno 2005. La materia prima, cioè le uve, non mi consentono di mantenere la stessa qualità degli Amaroni degli altri anni e così salto un anno. È una scelta dolorosa, ma obbligata, perché non trovo un filo di sostegno per poterlo almeno ideologicamente immaginare. Invece, lavorando bene e molto nell’appassimento e in tutte le fasi successive, mi gioco una grande partita per fare un Valpolicella Superiore come Dio comanda, che non tema confronti con le mie annate precedenti».
I miei dieci lettori lo ricorderanno: l’avevo detto qualche settimana fa che tutte ‘ste dicerie che giravano sull’annata del secolo erano balle grosse come una casa. Con tutta l’acqua che ha fatto e un’estate senza sole come era anni che non se ne vedevano. Così è toccato a una delle grandi firme del vino veneto e italiano e insomma a un gran nome dell’arte bacchica spiegare come stanno le cose. Con un gesto estremo, dirompente: niente Amarone. Scelta coraggiosa, quella di Dal Forno. Anche in questo un caposcuola, in terra veneta.
Ebbene sì: chi è che ha detto che bisogna per forza farlo l’Amarone? Lo si produce se l’annata lo consente. Sennò, meglio destinare le uve e le energie a un buon-ottimo-formidabile Valpolicella. Scelta che altri, in terra valpolicellese, avrebbero dovuto avere il fegato di adottare già nella bastarda annata del 2002, quando grandine e pioggia avevano aperto larghi varchi nei vigneti. Invece s’era messa ad appassire uva a tutto spiano. Convinti che il mercato fosse pronto a bersi tutto. Che i prezzi avrebbero comunque continuato a salire. Salvo poi trovarsi col mercato che comincia a storcere il naso.
Già: è un po’ di anni che il tempo fa il ballerino. Che inguaia chi fa uva e vino. Il 2002 era stato ben più che problematico in molte parti d’Italia per via della tempesta e dell’acqua. Il caldo del 2003 aveva cotto l’uva. Il 2004 è stato buono per i bianchi (Soave e Lugana sono da metter via in cantina: daranno soddisfazioni per anni ed anni), ma per i rossi è ancora presto per dar giudizi. Il 2005, be’, questa è stata l’estate delle piogge torrenziali d’estate e poi delle pioggerelline continue e fastidiose man mano che s’avvicinava l’autunno, e delle nebbioline mattutine in fondovalle, e delle muffe, e del marciume. I migliori sono passati e ripassati in vigna a pulire i grappoli, a eliminare tutto quello che c’era da eliminare. A salvare il salvabile. Che poi non vuol dire che non si possano fare buoni vini. Buoni, mica capolavori, salvo eccezioni, che per fortuna ci son sempre. Nel frattempo però i comunicati si sono sprecati: grande annata, vendemmia del secolo. Ma va là. Speriamolo davvero che quella appena finita sia stata la vendemmia del secolo: che una vendemmia così – intendo -, questo secolo non ce la dia più.
Intanto, chi può, ché il prezzo - ahinoi - è proibitivo, si goda, di Dal Forno, l’Amarone 2000, che i tre bicchieri del Gambero e Slow Food se li è portati a casa con pieno merito. Ricco e concentrato come al solito, cupo come il babào, ma anche succoso e bello da bere. Gioiello d’equilibrio e di forza. Chapeau.
Alla faccia di chi anche stavolta ha gridato alla vendemmia del secolo. Romano Dal Forno ha deciso: niente Amarone 2005. Lo ha annunciato il quotidiano «L’Arena». In una lunga intervista al vigneron di Cellore d’Illasi, fresco di nomina di «vignaiolo dell’anno» da parte di «Vini d’Italia», la guida targata Gambero Rosso & Slow Food. E vivaddio, questa sì che è una notizia. Perché è una svolta, in terra di Valpolicella. Super-Romano – quello che si occupa di vigne sul Monte Lodoletta, mica l’altro che ha in mente l’Ulivo – ha confessato a Giancarlo Beltrame: «Non ci sarà un Amarone Dal Forno 2005. La materia prima, cioè le uve, non mi consentono di mantenere la stessa qualità degli Amaroni degli altri anni e così salto un anno. È una scelta dolorosa, ma obbligata, perché non trovo un filo di sostegno per poterlo almeno ideologicamente immaginare. Invece, lavorando bene e molto nell’appassimento e in tutte le fasi successive, mi gioco una grande partita per fare un Valpolicella Superiore come Dio comanda, che non tema confronti con le mie annate precedenti».
I miei dieci lettori lo ricorderanno: l’avevo detto qualche settimana fa che tutte ‘ste dicerie che giravano sull’annata del secolo erano balle grosse come una casa. Con tutta l’acqua che ha fatto e un’estate senza sole come era anni che non se ne vedevano. Così è toccato a una delle grandi firme del vino veneto e italiano e insomma a un gran nome dell’arte bacchica spiegare come stanno le cose. Con un gesto estremo, dirompente: niente Amarone. Scelta coraggiosa, quella di Dal Forno. Anche in questo un caposcuola, in terra veneta.
Ebbene sì: chi è che ha detto che bisogna per forza farlo l’Amarone? Lo si produce se l’annata lo consente. Sennò, meglio destinare le uve e le energie a un buon-ottimo-formidabile Valpolicella. Scelta che altri, in terra valpolicellese, avrebbero dovuto avere il fegato di adottare già nella bastarda annata del 2002, quando grandine e pioggia avevano aperto larghi varchi nei vigneti. Invece s’era messa ad appassire uva a tutto spiano. Convinti che il mercato fosse pronto a bersi tutto. Che i prezzi avrebbero comunque continuato a salire. Salvo poi trovarsi col mercato che comincia a storcere il naso.
Già: è un po’ di anni che il tempo fa il ballerino. Che inguaia chi fa uva e vino. Il 2002 era stato ben più che problematico in molte parti d’Italia per via della tempesta e dell’acqua. Il caldo del 2003 aveva cotto l’uva. Il 2004 è stato buono per i bianchi (Soave e Lugana sono da metter via in cantina: daranno soddisfazioni per anni ed anni), ma per i rossi è ancora presto per dar giudizi. Il 2005, be’, questa è stata l’estate delle piogge torrenziali d’estate e poi delle pioggerelline continue e fastidiose man mano che s’avvicinava l’autunno, e delle nebbioline mattutine in fondovalle, e delle muffe, e del marciume. I migliori sono passati e ripassati in vigna a pulire i grappoli, a eliminare tutto quello che c’era da eliminare. A salvare il salvabile. Che poi non vuol dire che non si possano fare buoni vini. Buoni, mica capolavori, salvo eccezioni, che per fortuna ci son sempre. Nel frattempo però i comunicati si sono sprecati: grande annata, vendemmia del secolo. Ma va là. Speriamolo davvero che quella appena finita sia stata la vendemmia del secolo: che una vendemmia così – intendo -, questo secolo non ce la dia più.
Intanto, chi può, ché il prezzo - ahinoi - è proibitivo, si goda, di Dal Forno, l’Amarone 2000, che i tre bicchieri del Gambero e Slow Food se li è portati a casa con pieno merito. Ricco e concentrato come al solito, cupo come il babào, ma anche succoso e bello da bere. Gioiello d’equilibrio e di forza. Chapeau.
mercoledì 12 ottobre 2005
Se ti capita di bere rosa in autunno
Angelo Peretti
Guarda se doveva capitarmi di finire nel Padovano per bere, ad autunno iniziato, un Chiaretto di Bardolino. Fuori zona e fuori stagione. Ma, tant’è, succede anche questo. Ché i miei compagni di tavola, alla fine d’un congresso, volevano un vino non troppo impegnativo, eppure gradevole, prima di mettersi in viaggio. E allora, adocchiando la carta, ecco che m’è venuto in mente di «rischiare» un rosato. Il Bardolino Chiaretto di Corte Gardoni, Valeggio sul Mincio, sud inoltrato del «mio» lago di Garda. E i commensali han gradito. Replicando la bottiglia. Insomma: m'è andata dritta. Salvando pranzo e reputazione.
Mica facile fare un bel rosè. Serve uva buona, tempismo, equilibrio. Uva buona e sana, ché altrimenti la cattiva maturazione, la scarsità di sostanza si sentirà nel vino, così esile da esser messo in crisi da qualunque qualsiasi distorsione organolettica. Tempismo per via del colore: la tinta del vino viene bucce (i rosati si fanno con uve rosse) e dunque è il tempo in cui buccia e mosto restano a contatto a determinare la tonalità finale. Equilibrio, perché il rosato non è né bianco né rosso, non deve somigliare a nessuno dei due, ma un po’ di entrambi deve avere le caratteristiche, vestendosi della florealità e vegetalità d’un bianco e della fruttuosità d’un rosso. Dunque è una tipologia tutta da riconsiderare anche da parte del consumatore: ne vale la pena.
Un rosato da antologia ce l’ha regalato in terra veronese la vendemmia 2004: è il Bardolino Chiaretto dell’azienda agricola Corte Gardoni, a Valeggio sul Mincio. Gianni Piccoli, padrone-patron di Corte Gardoni, è uomo convinto che il buon vino lo si fa prima di tutto in vigna, curandola con passione, abbassandone le rese. Come lui sono convinti i figli, Mattia, Stefano e Andrea, che da anni vanno e vengono dalla Francia per impararne la cultura vinicola. Ebbene, messi insieme, i saperi enoici di papà Gianni e dei figli globetrotter hanno fatto la quadratura del cerchio. Il loro Bardolino Chiaretto 2004 ha colore tenue, impalpabile, antico: somiglia alle carte delle caramelline tonde di zucchero che si trovavano nei piatti di Santa Lucia. I profumi rimandano al piccolo frutto di bosco, al lampone in particolare, con qualche nota sottile di erbe officinali. La bocca è succosa, croccante di ciliegia e di susina, con una vena di quelle fragoline che si trovano all’ombra nei boschi. Così ha da essere un Chiaretto: leggiadro, dissetante, appagante. Di gran beva. Come dovrebbe essere un Chiaretto, appunto.
Guarda se doveva capitarmi di finire nel Padovano per bere, ad autunno iniziato, un Chiaretto di Bardolino. Fuori zona e fuori stagione. Ma, tant’è, succede anche questo. Ché i miei compagni di tavola, alla fine d’un congresso, volevano un vino non troppo impegnativo, eppure gradevole, prima di mettersi in viaggio. E allora, adocchiando la carta, ecco che m’è venuto in mente di «rischiare» un rosato. Il Bardolino Chiaretto di Corte Gardoni, Valeggio sul Mincio, sud inoltrato del «mio» lago di Garda. E i commensali han gradito. Replicando la bottiglia. Insomma: m'è andata dritta. Salvando pranzo e reputazione.
Mica facile fare un bel rosè. Serve uva buona, tempismo, equilibrio. Uva buona e sana, ché altrimenti la cattiva maturazione, la scarsità di sostanza si sentirà nel vino, così esile da esser messo in crisi da qualunque qualsiasi distorsione organolettica. Tempismo per via del colore: la tinta del vino viene bucce (i rosati si fanno con uve rosse) e dunque è il tempo in cui buccia e mosto restano a contatto a determinare la tonalità finale. Equilibrio, perché il rosato non è né bianco né rosso, non deve somigliare a nessuno dei due, ma un po’ di entrambi deve avere le caratteristiche, vestendosi della florealità e vegetalità d’un bianco e della fruttuosità d’un rosso. Dunque è una tipologia tutta da riconsiderare anche da parte del consumatore: ne vale la pena.
Un rosato da antologia ce l’ha regalato in terra veronese la vendemmia 2004: è il Bardolino Chiaretto dell’azienda agricola Corte Gardoni, a Valeggio sul Mincio. Gianni Piccoli, padrone-patron di Corte Gardoni, è uomo convinto che il buon vino lo si fa prima di tutto in vigna, curandola con passione, abbassandone le rese. Come lui sono convinti i figli, Mattia, Stefano e Andrea, che da anni vanno e vengono dalla Francia per impararne la cultura vinicola. Ebbene, messi insieme, i saperi enoici di papà Gianni e dei figli globetrotter hanno fatto la quadratura del cerchio. Il loro Bardolino Chiaretto 2004 ha colore tenue, impalpabile, antico: somiglia alle carte delle caramelline tonde di zucchero che si trovavano nei piatti di Santa Lucia. I profumi rimandano al piccolo frutto di bosco, al lampone in particolare, con qualche nota sottile di erbe officinali. La bocca è succosa, croccante di ciliegia e di susina, con una vena di quelle fragoline che si trovano all’ombra nei boschi. Così ha da essere un Chiaretto: leggiadro, dissetante, appagante. Di gran beva. Come dovrebbe essere un Chiaretto, appunto.
sabato 1 ottobre 2005
In lode del risotto col prete
Angelo Peretti
Sapori che sembravano perduti e che invece si ritrovano, quasi inaspettati. Non è mica facile viverle riscoperte del genere, di questi tempi. Perché domina l’omologazione. Prima era la rucola, adesso il petto d’oca, domani chissà che altro. Ma di tanto in tanto un lampo si riaccende. Ed è un’esperienza dei sensi che ti travolge, perché porta con sé il fascino agrodolce della nostalgia autentica, della storia vissuta per davvero. Mi è capitato qualche sera fa nella Bassa di Verona. Ad Aselogna di Cerea. Al ristorante Da Aldo. Dove m’hanno messo davanti il risotto col prete.
Il prete era proprio il prete. Nel senso che quando s’ammazzava il maiale, il cappellano del paese ti capitava puntuale in casa. Non occorreva neanche che ti chiedesse l’obolo: lo sapeva di già che la braciola, ghiottoneria negata al bacàn, gli sarebbe stata donata. E in più c’era l’invito a pranzo. D’altro canto, era un ospite di riguardo, un prestigio averlo seduto accanto. Così, capitava che si mangiasse il risotto insieme al prete del paese. Si mangiava insomma il risotto col prete. E lo si cucinava utilizzando lo stomaco del maiale. Parte di scarto, apparentemente. In realtà, gustosissima, a saperla pulire e lavare e grattare e cuocere con pazienza e pazienza e pazienza, ché è difficile da affrontare. Però il risultato era premio alla fatica. Lo è ancora, per chi accetta la tribolazione del viaggio fino ad Aselogna, uscendo prima di Legnago dalla Transpolesana e poi passando in mezzo ai capannoni che spopolano anche qui e prendendo le stradette che portano ad Aselogna.
Sia chiaro: non è piatto da dieta, né da stomaco debole. Il risotto col prete arriva in tavola giallo di brodo grasso. Come quando era la fame e bisognava placarla almeno alla festa, se ci si riusciva. Né asciutto, né minestra. All’onda, si può dire. Odoroso di cannella, ché qui è consuetudine adoperarla senza ritrosia. Fra i grani del riso, le striscioline della trippa di stomaco del porco. Il tutto cotto con un fondo di verdurine. Ogni forchettata una festa della gola. Bravo Galliano, che ha ritessuto nella sua cucina le trame del sapere alimentare. Avanti così, con coraggio.
D’accordo, mica facile, ad Aselogna. Non c’è il turista qui, non passa il forestiero. Però sono convinto che la fedeltà al territorio alla lunga ripaghi. Anzi, lancio un appello: cominciamo a ripagarla subito, ghiottoni. Avverto: il risotto col prete bisogna prenotarlo. Dò anche il telefono: 0442 35010. Aggiungo: c’è il vantaggio, non da poco, che qui, nella Bassa, i prezzi sono ancora umani. Anche sui vini, che non hanno magari carta eccelsa, ma piacevole sì, e qualche piccola perla abbastanza rara, come il Blanc de Morgex et de la Salle, valdostano, che ho bevuto io.
Sapori che sembravano perduti e che invece si ritrovano, quasi inaspettati. Non è mica facile viverle riscoperte del genere, di questi tempi. Perché domina l’omologazione. Prima era la rucola, adesso il petto d’oca, domani chissà che altro. Ma di tanto in tanto un lampo si riaccende. Ed è un’esperienza dei sensi che ti travolge, perché porta con sé il fascino agrodolce della nostalgia autentica, della storia vissuta per davvero. Mi è capitato qualche sera fa nella Bassa di Verona. Ad Aselogna di Cerea. Al ristorante Da Aldo. Dove m’hanno messo davanti il risotto col prete.
Il prete era proprio il prete. Nel senso che quando s’ammazzava il maiale, il cappellano del paese ti capitava puntuale in casa. Non occorreva neanche che ti chiedesse l’obolo: lo sapeva di già che la braciola, ghiottoneria negata al bacàn, gli sarebbe stata donata. E in più c’era l’invito a pranzo. D’altro canto, era un ospite di riguardo, un prestigio averlo seduto accanto. Così, capitava che si mangiasse il risotto insieme al prete del paese. Si mangiava insomma il risotto col prete. E lo si cucinava utilizzando lo stomaco del maiale. Parte di scarto, apparentemente. In realtà, gustosissima, a saperla pulire e lavare e grattare e cuocere con pazienza e pazienza e pazienza, ché è difficile da affrontare. Però il risultato era premio alla fatica. Lo è ancora, per chi accetta la tribolazione del viaggio fino ad Aselogna, uscendo prima di Legnago dalla Transpolesana e poi passando in mezzo ai capannoni che spopolano anche qui e prendendo le stradette che portano ad Aselogna.
Sia chiaro: non è piatto da dieta, né da stomaco debole. Il risotto col prete arriva in tavola giallo di brodo grasso. Come quando era la fame e bisognava placarla almeno alla festa, se ci si riusciva. Né asciutto, né minestra. All’onda, si può dire. Odoroso di cannella, ché qui è consuetudine adoperarla senza ritrosia. Fra i grani del riso, le striscioline della trippa di stomaco del porco. Il tutto cotto con un fondo di verdurine. Ogni forchettata una festa della gola. Bravo Galliano, che ha ritessuto nella sua cucina le trame del sapere alimentare. Avanti così, con coraggio.
D’accordo, mica facile, ad Aselogna. Non c’è il turista qui, non passa il forestiero. Però sono convinto che la fedeltà al territorio alla lunga ripaghi. Anzi, lancio un appello: cominciamo a ripagarla subito, ghiottoni. Avverto: il risotto col prete bisogna prenotarlo. Dò anche il telefono: 0442 35010. Aggiungo: c’è il vantaggio, non da poco, che qui, nella Bassa, i prezzi sono ancora umani. Anche sui vini, che non hanno magari carta eccelsa, ma piacevole sì, e qualche piccola perla abbastanza rara, come il Blanc de Morgex et de la Salle, valdostano, che ho bevuto io.
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