Angelo Peretti
Credo che di Luciano Pignataro ce ne siano più d’uno. Perché non riesco a capacitarmi di come faccia da solo questo collega, giornalista del Mattino di Napoli, a fare tutto quel che fa. Non c’è evento del mondo dell’enogastronomia della terra campana che non lo veda protagonista. Il suo sito www.lucianopignataro.it è, direi sicuramente, il più letto di tutto il Meridione, migliaia di contatti al giorno. E fa una guida ai vini della Campania che ritengo esemplare. E avrà pure una vita privata, vivaddìo! Mah.
Gliel’ho anche chiesto, via mail, come riesca a mettere insieme tutte queste cose. E mi ha risposto, laconico: «Non perdo tempo con le donne come te!» Spiritoso, l’uomo.
Ma sulla guida enoica di Luciano ci voglio ritornare, ché è interessante parecchio. Ma mica per recensirla (e basta). No. Piuttosto, perché m’ha fatto riflettere sul senso di far guide del vino oggi.
Una cosa per volta.
Intanto, in poche righe, il libro. S’intitola «La nuova guida completa ai vini della Campania», Edizioni dell’Ippogrifo, 23,80 euro. Presenta 240 aziende e 1500 etichette della regione. Una specie di enciclopedia del vino campano. «La guida - dice Luciano in un comunicato che m’ha inviato - è sponsor free: nessun contributo privato o pubblico, niente pubblicità dirette o indirette (vedi acquisto copie concordato prima della stesura). L'autonomia di giudizio è garantita dall'investimento editoriale perché questo lavoro è stato pensato per i lettori e gli operatori del settore in una fase in cui la critica enologica sta subendo un profondo ripensamento. Ogni scelta, ogni valutazione, ogni indicazione, è il frutto di una scelta consapevole dell'autore e dei giornalisti che hanno partecipato all'impresa». Applaudo.
E fin qui il volume in sé. Quel che però mi piace dell’approccio di Luciano ai vini della sua terra, è che lo scriver di vino è per lui una sorta di pretesto per raccontare di sociologia, d’antropologia, d’economia, di tradizione e storia e finanza, di peccato e santità, di vizi e di virtù delle genti di questa o quest’altra provincia. Il vino come metafora della vita? Può essere. Che poi tutto questo, insieme ai vitigni (e in Campania ce n’è un centinaio) e ai suoli e al clima, è quel che i francesi, con un’intraducibile parola che supera la parola e si fa concetto e filosofia, chiamano terroir.
Già, terroir, parola magica. Che troppo spesso confondiamo con terreno o territorio. Macché. È soprattutto uomo, umanesimo, pensiero, idea, anima. Orgoglio di mettere in bottiglia una propria concezione del mondo, quello nel quale si vive e si fa vino. Questo dovrebb’essere la via al vino vero. Mica pura tecnologia, mica enologia esasperata. Se fosse solo questione di tecnica, il Tavernello sarebbe re: tecnologicamente ben fatto e a piccolo costo. Vorremo mica tavernellizzarci tutti, vero?
La sociologia, dicevo sopra, è uno dei contenuti del lavoro di Pignataro. Sentite come descrive l’origine delle magagne commerciali dei vini di Napoli e provincia: «La coscienza partenopea non prende atto ancora del fatto che in Italia ci sono ormai altre due città ben più importanti e che il baricentro psicologico del mondo si sta spostando verso il Pacifico, sicché la comunità sopravvive con le sue ritualità liturgiche sempre meno pratiche e più ingombranti, talvolta simpatiche ma sempre comunque stancanti. Ciò che era veloce all’inizio del ‘900 è ormai terribilmente lento ai giorni nostri. Stupisce come questa autoreferenza del subconscio, comune ai cittadini delle grandi capitali, metta insieme plebe e aristocrazia, analfabeti e intellettuali, impiegati e disoccupati: tutto nasce e muore a Napoli, la campagna non è vista come risorsa da valorizzare attraverso la cura costante, quanto come una miniera da sfruttare sino all’esaurimento. Il nocciolo della questione meridionale è, tutto sommato, nel fatto che l’aristocrazia borbonica bruciava i suoi averi per fare palazzi e stare magnificamente in città mentre quella toscana coltivava la terra e i Savoia facevano guerre a destra e a manca trasferendo l’astuzia montanara nei giochi diplomatici». Serve dire altro? Ed è scrivere di vino, questo? Sissignori, è scriver di vino, è scriver di gente, è scrivere insomma di vita partendo, appunto, dal vino. Che ha nella vita dell’uomo la sua essenza principale, più del vitigno, del suolo, del clima, della tecnica di cantina.
E quell’autoreferenzialità che Luciano riferisce a Napoli e ai napoletani non è forse l’origine vera del cronico ritardo del decollo di tante aree vinicole, mica solo nel Sud? Penso ad esempio al «mio» lago di Garda: le modalità sono diverse, certo, ma la causa è, probabilmente, la stessa: essere sempre e comunque autoreferenti. Quanti pensate siano i produttori che hanno l’abitudine di assaggiare con costanza i vini altrui? E per altrui intendo sia quelli dei produttori della stessa zona, sia quelli dei vigneron d’altre latitudini. Macché: il vino lo fanno e mica lo bevono, loro. E come volete che possa crescere la coscienza produttiva, se poi manca il confronto, se poi difetta l’apertura al mondo? Se si pensa che per fare vino migliore basta comprare una diavoleria tecnica in più? Se vai a trovare un produttore italiano, ti mostra con orgoglio la sua cantina e l’ultima, fiammante macchina enologica. Se vai a trovare un vigneron francese, ti porta, con orgoglio, a vedere la vigna, e poi t’accorgi che, magari, in cantina c’è poco o niente in fatto di tecnologia, e c’è una muffa di tre dita.
Ora, di tutto questo, noi che scriviamo, chi più chi meno, di vino, facciamo fatica a parlare. Perché spesso ci nutriamo della stessa cultura, iper-razionalista, di cui si nutrono i produttori nostrani. E dunque il lettore, che è poi chi il vino lo dovrebbe comprare e vendere e bere, farà ancora più fatica a capire.
Certo, ci son le guide. E secondo me aiutano: ne sono convinto. Io le guide le faccio, e le faccio perché ci credo. E capisco che perfetti non si è e non si può essere. Ma le guide sono servite e servono. Chiedetelo ai produttori, se non servono. Solo chi non c’è le snobba. Come la volpe e l’uva, ricordate? Siccome la volpe non arriva a prender l’uva, allora dice che è acerba. Dite quel che volete di Vini d’Italia, ma senza la guida del Gambero e Slow Food dove sarebbe la cultura del vino italiano oggi?
Però, c’è un però. Però mi piacerebbe che in Italia esistesse una guida come la Hachette francese, e il libro di Luciano Pignataro mi ci fa ancora più convinto. Non perché il lavoro di Luciano ci assomigli, alla Hachette, ché anzi anche la sua guida poggia sulla stessa anomalia ch’è tipica di tutte le altre guide italiche (e dopo dico qual è, quest’anomalia), ma perché, appunto, mira a descrivere la gente più che la tecnica, il terroir più che la terra, l’autenticità più che la concentrazione.
Cos’ha di particolare questa Hachette che tanto mi piace? Ha che i vini non sono recensiti per cantina. Sono recensiti per denominazione d’origine. E all’interno delle denominazioni d’origine, per denominazione comunale. Vino per vino, non produttore per produttore.
In più, sulla Hachette d’ogni vino si dà un giudizio in stelline, ed è un giudizio assoluto, che descrive il vino in sé. E poi ad alcuni, prescindendo dal numero di stelline, si dà il coup de coeur, che mette in luce la miglior fedeltà al terroir d’origine. Così potremo avere un vino con tre stelline senza coup de couer, e dunque sarà un vino buonissimo, ma non necessariamente il più fedele descrittore di quella denominazione in quell’annata. E potremo avere un vino da due stelline col coup de coeur, e dunque sarà un vino non d’enorme impatto in sé, ma certamente il meglio di quell’anno per quel suo particolare terroir. Ecco: questo è quel che credo serva al «nuovo» utente del vino italiano.
Da noi sulle guide si presentano invece le aziende: ecco l’anomalia. Sulla Hachette si parla dei vini e dei loro terroir. Sicché, magari, un certo produttore può avere cinque schede per cinque diversi vini di terroir, e un altro una scheda sola. E dunque anche il piccolissimo produttore, quello che magari fa un solo vino di una denominazione minore, può aver la stessa chance d’essere in guida di quell’altro che fa tanti vini in un’area più celebre e quotata. Da noi non succederebbe.
Capisco che l’ho fatta lunga e che il brodo lungo non piace a nessuno. Ma l’idea di fare una guida ai terroir della mia terra m’intriga e il fatto che Luciano Pignataro sia riuscito a mettere insieme per due volte una sua guida ai vini della Campania mi stuzzica ancora di più.
Quel che spero è che comunque alla fine trionfino i vini autenticamente di terroir. E per questo serve il contributo di tanti. Di chi fa vino, certo, ma anche di chi lo vende, di chi lo compra, di chi lo beve e di chi ne scrive. Io ne compro, ne bevo e ne scrivo. Cerco di metterci del mio. Luciano Pignataro ha fatto di più.
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