Angelo Peretti
C'erano una volta i correttori di bozze. Proto, li chiamavano. Erano i tempi in cui i giornali e i libri non si facevano col computer. Così quegli oscuri lavoranti di tipografia passavano e ripassavano i testi per trovare errori e svarioni. E avevano due ossessioni: la gestione dei righini e gli a capo. Nel primo caso, era ritenuto un affronto alla professione lasciare una riga solitaria alla fine o all'inizio della pagina: le vedove e le orfane, le chiamavano. Nell'altro caso, andavano alla caccia di quelle involontarie paroline scostumate che inavvertitamente fossero nate dalla divisione sillabica. Ché era inammissibile che una riga cominciasse con sesso (per esempio dalla spezzatura di pos-sesso o con-sesso) e men che meno - figurarsi! - con fica (per esempio dalla suddivisione di magni-fica, quali-fica, speci-fica).
Mi son venuti in mente vedendo l'etichetta d'un vin dolce della zona di Lison, Veneto orientale. Il Terra di Bonifica di Toni Bigai. Che scrive, birichino a di poco: Ter - a capo - Ra di - a capo - Boni - a capo - Fica. Una svista dovuta al fatto che non ci son più i proto d'una volta? Macché, non ci credo. Perché poi leggi la contr'etichetta, e vedi che è tutta giocata sulla provocazione.
Dice così: «Terra di bonifica è un vino dolce ottenuto da uve bianche Picolit e Tocai, prodotte in zona non vocata, frutto di una lunga fermentazione in barrique, vuole contrastare l'egemonia e la presunzione di chi solo si fregia di una zona vocata. Inizio a produrre vino dolce, punto d'arrivo per un vero enologo, "questa è la mia opinione e io la condivido.» Geniale.
Ora, di Toni Bigai non so praticamente null'altro. Mi si dice che è eclettico personaggio del vino che vuol rilanciare la sua terra, quella "non vocata" di Lison, appunto. E che per questo s'è messo in proprio, affrancandosi dall'azienda paterna. E, avendone tastati i vini, condivido il termine usato da Vini d'Italia, la guida del Gambero Rosso & Slow Food: rusticità.
E il Terra di Bonifica? Vino strano, inconsueto. Al naso ha toni quasi di lieviti: mi ricorda, che so, le birre bianche del Belgio (che poi è la stessa nota che ho incontrato in un altro vino dello stesso produttore: si chiama A Mi Manera, "alla mia maniera", un bianco da uve, mi pare, di tocai, picolit, malvasia e chardonnay, ma mi potrei sbagliare). In bocca ha vaghe e piacevoli vene aromatiche e andamento burroso e bella sapidità che aiuta la beva. Passito personalissimo. Fatto davvero "alla sua maniera". Nella mia scala di piacevolezza, gli darei due lieti faccini :-) :-)
Aggiungo: chi ha la possibilità, li tenga d'occhio i vini di Toni Bigai. Potrebbe sorprendere.
Sia chiaro: è solo una mia opinione, ma va da sé che io la condivido...
giovedì 1 gennaio 2009
mercoledì 19 dicembre 2007
È Natale, vai con la birra!
Angelo Peretti
È Natale, e come sappiamo, siamo tutti più buoni: non è mica vero, ma ogni tanto è bello illudersi.
È Natale, e la cassetta della posta, e la casella delle email traboccano di auguri. E di solito tocca anche ai giornali, perfino quelli on line come quest’InternetGourmet che avete la pazienza di leggere (ed è stato letto 250mila volte: sono proprio contento), fare gli auguri ai lettori. E sia, e gran volentieri: auguri!
È Natale, e sui magazine d’enogastronomia si elargiscono consigli in tema di ricette e vini e abbinamenti e sfiziosità varie, regalini golosi inclusi. E dunque anche su questo tema vedo d’essere allineato. Eccoci dunque col pezzo natalizio a soggetto. Ma non parlo né di piatti, né di vini: è la birra stavolta la protagonista. O meglio, son le birre di Natale. Meglio ancora, le Noël del Belgio, che adoro.
Siccome però sono un po’ di corsa e anche un po’ pigro, la parte centrale di quest’intervento la prendo pari pari da un pezzo che ho scritto un paio di settimane fa per la Pagina del Gusto del quotidiano L’Arena (buon Natale a Morello Pecchioli, il mio capo, che cura la pagina). E poi, alla fine, ci metto gli appunti di degustazione delle sei bière de Noël tastate alla Taverna Kus nella degustazione che abbiamo allestito qualche giorno fa: la cena era a base di stinco di maiale al forno, gorgonzola naturale con miele di castagno, torta al cioccolato. Wow!
E insomma: eccoci qua. Dici: «Birra», e pensi alla schiumosa bevanda giallo-dorata moderatamente alcolica che si serve in pizzeria. Ti dicono invece: «Birra di Natale» e magari fai un po’ fatica a capire di cosa si tratti. Eppure questi sono proprio i giorni delle bière de Noël, capolavori dell’arte birraria belga. È stato nei giorni scorsi che, uno dopo l’altro, i piccoli birrifici artigianali del Belgio hanno fatto uscire le loro birre natalizie.
Produzioni limitate, rare, intriganti. Che non hanno nulla, ma proprio nulla a che vedere con le bionde copiosamente tracannate dal boccale.
Sono scure: il colore va dall’ambrato al bruno carico. Di alcol ne hanno un bel po’, dagli 8 fino ai 13 gradi, mica scherzi. Vietato berle gelate: tutt’al più fresche, attorno ai 14 gradi di temperatura, ma se vanno a 18 non c’è problema, come se fossero dei vini rossi importanti. E come un buon rosso, normalmente, sono in bottiglie da 0,75, perché è nella boccia da tre quarti che sviluppano al meglio i loro strepitosi caratteri aromatici. In etichetta, temi classici del periodo: neve, alberi addobbati, notti stellate, angioletti, monaci, l’immancabile Babbo Natale, scoiattoli, gnomi. Spesso la decorazione è addirittura serigrafata direttamente sulla boccia. Tra le birre di Natale del mito belga ci sono la Noël St. Feuillien, la Christmas Ale St. Bernardus, la Noël dell’Abbaye des Rocs, la Chouffe N’Ice, la Binchoise de Nöel, l’alcolicissima Bush de Nöel. Sono birre che riescono perfino a invecchiare bene: qualche anno non gli fa male. Si assaporano a sorsi. Stanno a meraviglia con la cucina invernale. Ma sono ideali anche per il dopo cena: un bicchiere basta e avanza per passarci un’ora, chiacchierando con gli amici, prendendosi un po’ di relax davanti al caminetto.
Il gusto è decisamente unico, ammaliante. Ed è influenzato dalle segretissime ricette dei mastri birrai. Intanto, per fare le birre di Natale si usano malti selezionatissimi. E poi vien fatta l’aromatizzazione: c’è chi adopera cannella, noce moscata, coriandolo, ginepro, spesso anche del miele, e persino frutti, la buccia di arancia, in particolare. Si mormora ci si taglino qualche volta dei distillati. Ovvio che ne derivi una complessità organolettica di tutto rispetto. Intanto, hanno un gradevolissimo fondo amaro che ricorda la liquirizia, ma anche una vena di dolcezza che rammenta il miele di castagno, il caramello. Poi, la speziatura. E le note di frutta secca: nocciola, noce soprattutto. E vaghi ricordi di frutti di bosco surmaturi. E una spuma cremosa e morbida. Affascinanti.
Adesso le schede delle sei birre che ho citato di sopra. Di ciascuna fornisco l’indice di piacevolezza media riscontrato nella degustazione: eravano in sedici, e il voto poteva andare da zero a dieci, inclusi il mezzo punto. Poi c’è il mio consueto parere in faccini, da uno a tre. Poi ancora il prezzo all’ingrosso in bottiglia da 0,75 (è questo il formato giusto).
Spéciale Noël Abbaye des Rocs Al naso trovi la crosta di pane scaldato nel forno e una leggera vena di anice. La bocca è ampia, avvolgente, dolceamara: malto, liquirizia, memoria tenue di dattero, nocciola tostata. Epperò anche clorofilla, eucalipto. E castagne, anche. E castagne sotto cognac, soprattutto. E c’è lunghezza. Oggi pare ancora un po’ giovinetta e scomposta, ma, secondo me, potrebbe dar sorprese alla distanza. Fatela un po’ affinare in bottiglia. Ha 9 gradi di alcol.
Indice di piacevolezza medio: 7,067
Un faccino :-)
Prezzo all’ingrosso: 5,14 euro.
Spéciale Noël La Binchoise Naso di rhum agricolo, vene di amarena candita, buccia d'arancia essiccata, spezie dolci. E via via che passa il tempo, il bouquet si fa sempre più incredibilmente affascinante: esce gradualmente l'amaretto, il liquore agli agrumi, il rosolio. Poi vene floreali, la rosa, ancora, soprattutto, e poi un po' di ciclamino. E poi ancora, prepotente, il tè al limone, al bergamotto. Incredibile. E c’è bocca elegante, con note luppolate, ma soprattutto frutta, frutta, frutta: piccolo frutto di bosco succoso, albicocca stramatura, papaya candita, fico secco. Suadente. Intrigante. 9 gradi.
Indice di piacevolezza medio: 8,033
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Prezzo all’ingrosso: 4,89 euro
Cuvée de Noël St. Feuillien Naso da caffè e cioccolato, leggera vena di liquirizia, crosta di pane bruciata. Sentori leggeri di grafite. In bocca è potente, decisa. Malto e liquirizia: parecchio dell’uno e dell’altra. Bella lunghezza, ma non concede nulla dal lato della ruffianeria. Il finale è tutto sulla vena amara. Birra maschia. 9 gradi.
Indice di piacevolezza medio: 6,900
Un faccino :-)
Prezzo all’ingrosso 5,67 euro
N'Ice Chouffe Altra birra da far affinare ancora in bottiglia, ché questa è un classico, ma ha bisogno di farsi. Oggi al naso ha tracce evidenti di alcol denaturato, con vene però di dattero, di fico, belle e mercate. La bocca è in sintonia. Ha tensione, densità, potenza. Ricorda vagamente, nella nota dolce, l'aceto balsamico. Untuosa, quasi. Una birra decisa, molto tonica dal lato acido. 10 gradi.
Indice di piacevolezza medio 7,833
Due lieti faccini :-) :-)
Prezzo all’ingrosso 6,17 euro
Christmas Ale St. Bernardus Oh, oh, oh! Direbbe Babbo Natale. Gran birra, gran birra. Naso fascinosamente antico, da sherry oloroso, da palo cortado. Memorie di mobile antico, eppoi di crosta di pane tostato, di nocciola, di mandorla amara. La mandorla esce in prima battuta anche in bocca, subito però equilibrata da una vena dolceamara di caramello e miele di castagno. Impressionante la persistenza: emergono con gradualità seducenti e sempre più salde e ricche memorie di frutta secca e poi nocciolo di pesca. Affascinante. 10 gradi.
Indice di piacevolezza medio 8,400
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Prezzo all’ingrosso 5,96 euro.
Bush Noël Premium Brasserie Dubuisson Freres La Bush, la corazzata delle birre di Natale belghe. Impressionante al naso nelle sue note di rhum, di armagnac. E poi sherry. E poi botti di legno vecchie di anni e anni. E cenni perfino vinosi. L'alcol è evidente, ma importanti sono le note di agrumi canditi, di frutta secca, di frutti antichi di bosco sumaturi, di cachi maturissimi pur'essi. In bocca è cremosa e anche densa e melassa e avvolgente e perfino vanigliata. Caramello e zucchero di canna e miele millefiori e dattero al naturale e rhum giamaicani. Potentissima. Se ma l'avessero fatta annusare senza dirmi che è una birra, avrei detto che è un passito, nobile e invecchiato, con aristocratiche vene ossidative date dall'affinamento. 13 gradi.
Indice di piacevolezza medio 8,033
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Prezzo all’ingrosso 8,52
È Natale, e come sappiamo, siamo tutti più buoni: non è mica vero, ma ogni tanto è bello illudersi.
È Natale, e la cassetta della posta, e la casella delle email traboccano di auguri. E di solito tocca anche ai giornali, perfino quelli on line come quest’InternetGourmet che avete la pazienza di leggere (ed è stato letto 250mila volte: sono proprio contento), fare gli auguri ai lettori. E sia, e gran volentieri: auguri!
È Natale, e sui magazine d’enogastronomia si elargiscono consigli in tema di ricette e vini e abbinamenti e sfiziosità varie, regalini golosi inclusi. E dunque anche su questo tema vedo d’essere allineato. Eccoci dunque col pezzo natalizio a soggetto. Ma non parlo né di piatti, né di vini: è la birra stavolta la protagonista. O meglio, son le birre di Natale. Meglio ancora, le Noël del Belgio, che adoro.
Siccome però sono un po’ di corsa e anche un po’ pigro, la parte centrale di quest’intervento la prendo pari pari da un pezzo che ho scritto un paio di settimane fa per la Pagina del Gusto del quotidiano L’Arena (buon Natale a Morello Pecchioli, il mio capo, che cura la pagina). E poi, alla fine, ci metto gli appunti di degustazione delle sei bière de Noël tastate alla Taverna Kus nella degustazione che abbiamo allestito qualche giorno fa: la cena era a base di stinco di maiale al forno, gorgonzola naturale con miele di castagno, torta al cioccolato. Wow!
E insomma: eccoci qua. Dici: «Birra», e pensi alla schiumosa bevanda giallo-dorata moderatamente alcolica che si serve in pizzeria. Ti dicono invece: «Birra di Natale» e magari fai un po’ fatica a capire di cosa si tratti. Eppure questi sono proprio i giorni delle bière de Noël, capolavori dell’arte birraria belga. È stato nei giorni scorsi che, uno dopo l’altro, i piccoli birrifici artigianali del Belgio hanno fatto uscire le loro birre natalizie.
Produzioni limitate, rare, intriganti. Che non hanno nulla, ma proprio nulla a che vedere con le bionde copiosamente tracannate dal boccale.
Sono scure: il colore va dall’ambrato al bruno carico. Di alcol ne hanno un bel po’, dagli 8 fino ai 13 gradi, mica scherzi. Vietato berle gelate: tutt’al più fresche, attorno ai 14 gradi di temperatura, ma se vanno a 18 non c’è problema, come se fossero dei vini rossi importanti. E come un buon rosso, normalmente, sono in bottiglie da 0,75, perché è nella boccia da tre quarti che sviluppano al meglio i loro strepitosi caratteri aromatici. In etichetta, temi classici del periodo: neve, alberi addobbati, notti stellate, angioletti, monaci, l’immancabile Babbo Natale, scoiattoli, gnomi. Spesso la decorazione è addirittura serigrafata direttamente sulla boccia. Tra le birre di Natale del mito belga ci sono la Noël St. Feuillien, la Christmas Ale St. Bernardus, la Noël dell’Abbaye des Rocs, la Chouffe N’Ice, la Binchoise de Nöel, l’alcolicissima Bush de Nöel. Sono birre che riescono perfino a invecchiare bene: qualche anno non gli fa male. Si assaporano a sorsi. Stanno a meraviglia con la cucina invernale. Ma sono ideali anche per il dopo cena: un bicchiere basta e avanza per passarci un’ora, chiacchierando con gli amici, prendendosi un po’ di relax davanti al caminetto.
Il gusto è decisamente unico, ammaliante. Ed è influenzato dalle segretissime ricette dei mastri birrai. Intanto, per fare le birre di Natale si usano malti selezionatissimi. E poi vien fatta l’aromatizzazione: c’è chi adopera cannella, noce moscata, coriandolo, ginepro, spesso anche del miele, e persino frutti, la buccia di arancia, in particolare. Si mormora ci si taglino qualche volta dei distillati. Ovvio che ne derivi una complessità organolettica di tutto rispetto. Intanto, hanno un gradevolissimo fondo amaro che ricorda la liquirizia, ma anche una vena di dolcezza che rammenta il miele di castagno, il caramello. Poi, la speziatura. E le note di frutta secca: nocciola, noce soprattutto. E vaghi ricordi di frutti di bosco surmaturi. E una spuma cremosa e morbida. Affascinanti.
Adesso le schede delle sei birre che ho citato di sopra. Di ciascuna fornisco l’indice di piacevolezza media riscontrato nella degustazione: eravano in sedici, e il voto poteva andare da zero a dieci, inclusi il mezzo punto. Poi c’è il mio consueto parere in faccini, da uno a tre. Poi ancora il prezzo all’ingrosso in bottiglia da 0,75 (è questo il formato giusto).
Spéciale Noël Abbaye des Rocs Al naso trovi la crosta di pane scaldato nel forno e una leggera vena di anice. La bocca è ampia, avvolgente, dolceamara: malto, liquirizia, memoria tenue di dattero, nocciola tostata. Epperò anche clorofilla, eucalipto. E castagne, anche. E castagne sotto cognac, soprattutto. E c’è lunghezza. Oggi pare ancora un po’ giovinetta e scomposta, ma, secondo me, potrebbe dar sorprese alla distanza. Fatela un po’ affinare in bottiglia. Ha 9 gradi di alcol.
Indice di piacevolezza medio: 7,067
Un faccino :-)
Prezzo all’ingrosso: 5,14 euro.
Spéciale Noël La Binchoise Naso di rhum agricolo, vene di amarena candita, buccia d'arancia essiccata, spezie dolci. E via via che passa il tempo, il bouquet si fa sempre più incredibilmente affascinante: esce gradualmente l'amaretto, il liquore agli agrumi, il rosolio. Poi vene floreali, la rosa, ancora, soprattutto, e poi un po' di ciclamino. E poi ancora, prepotente, il tè al limone, al bergamotto. Incredibile. E c’è bocca elegante, con note luppolate, ma soprattutto frutta, frutta, frutta: piccolo frutto di bosco succoso, albicocca stramatura, papaya candita, fico secco. Suadente. Intrigante. 9 gradi.
Indice di piacevolezza medio: 8,033
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Prezzo all’ingrosso: 4,89 euro
Cuvée de Noël St. Feuillien Naso da caffè e cioccolato, leggera vena di liquirizia, crosta di pane bruciata. Sentori leggeri di grafite. In bocca è potente, decisa. Malto e liquirizia: parecchio dell’uno e dell’altra. Bella lunghezza, ma non concede nulla dal lato della ruffianeria. Il finale è tutto sulla vena amara. Birra maschia. 9 gradi.
Indice di piacevolezza medio: 6,900
Un faccino :-)
Prezzo all’ingrosso 5,67 euro
N'Ice Chouffe Altra birra da far affinare ancora in bottiglia, ché questa è un classico, ma ha bisogno di farsi. Oggi al naso ha tracce evidenti di alcol denaturato, con vene però di dattero, di fico, belle e mercate. La bocca è in sintonia. Ha tensione, densità, potenza. Ricorda vagamente, nella nota dolce, l'aceto balsamico. Untuosa, quasi. Una birra decisa, molto tonica dal lato acido. 10 gradi.
Indice di piacevolezza medio 7,833
Due lieti faccini :-) :-)
Prezzo all’ingrosso 6,17 euro
Christmas Ale St. Bernardus Oh, oh, oh! Direbbe Babbo Natale. Gran birra, gran birra. Naso fascinosamente antico, da sherry oloroso, da palo cortado. Memorie di mobile antico, eppoi di crosta di pane tostato, di nocciola, di mandorla amara. La mandorla esce in prima battuta anche in bocca, subito però equilibrata da una vena dolceamara di caramello e miele di castagno. Impressionante la persistenza: emergono con gradualità seducenti e sempre più salde e ricche memorie di frutta secca e poi nocciolo di pesca. Affascinante. 10 gradi.
Indice di piacevolezza medio 8,400
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Prezzo all’ingrosso 5,96 euro.
Bush Noël Premium Brasserie Dubuisson Freres La Bush, la corazzata delle birre di Natale belghe. Impressionante al naso nelle sue note di rhum, di armagnac. E poi sherry. E poi botti di legno vecchie di anni e anni. E cenni perfino vinosi. L'alcol è evidente, ma importanti sono le note di agrumi canditi, di frutta secca, di frutti antichi di bosco sumaturi, di cachi maturissimi pur'essi. In bocca è cremosa e anche densa e melassa e avvolgente e perfino vanigliata. Caramello e zucchero di canna e miele millefiori e dattero al naturale e rhum giamaicani. Potentissima. Se ma l'avessero fatta annusare senza dirmi che è una birra, avrei detto che è un passito, nobile e invecchiato, con aristocratiche vene ossidative date dall'affinamento. 13 gradi.
Indice di piacevolezza medio 8,033
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Prezzo all’ingrosso 8,52
lunedì 10 dicembre 2007
C'era una volta il Cabernet
Angelo Peretti
Ma sì, dai: il titolo è una provocazione. Il Cabernet c’è ancora, e tanto. Altro che c’era una volta. Però l’infatuazione, quella non sarà del tutto finita, ma è un po’ sulla via del tramonto. Parlo dell’Italia, ovviamente (oh, la Francia è altra cosa: lo dice uno che adora Bordeaux). Ne restano, per carità, di buonissimi, ma l’onda lunga si sta affievolendo. O almeno mi pare.
Tutto è cominciato sul finire degli anni Ottanta, per diventare mania nel decennio successivo. Sull’onda del successo del Sassicaia, ecco nascere vini con desinenza in aia (nel nome o nello stile) un po’ ovunque.
Poi, è stato boom. E via a piantar cabernet e merlot dall’Alto Adige alla Sicilia, e a far vini, dunque, d’uvaggio bordolese, e a far pertanto surmaturazione, e concentrazione, e muscolo, e potenza, e fruttone, e tannino dolce da lunga sosta in barrique, e vaniglia da piccola botte. Con la benedizione di Mr Parker, di Wine Spectator. E della critica nostrana. Epperò anche dei frequentatori di ristoranti e wine bar, che quei vini li domandavano eccome.
Oh, per carità: dicevo della concentrazione eccetera, ma mica sempre ci si è riusciti. Ed anzi, tante, troppe volte ci si è trovati e ci si trova ad avere a che fare con cabernet & merlot scomposti e verdi e crudi e allappanti o stucchevolmente dolci. Ma, ho detto, di buoni ce n’è stati e ce n’è. Però non è più la moda a dettar legge. E quel che è buono emerge, finalmente, perchè è appunto buono. E basta.
Era moda, dicevo. E le mode cambiano. E mi domando se davvero serviva metter mano ai disciplinari nostrani per ficcarci dentro a ogni costo le vigne bordoleseggianti. E a cabernetizzare l’italico vigneto. E a cabernetizzare anzi – così come tra i bianchi chardonnayzizzare – mezzo globo terraqueo. Ma il vino è business, si sa, e se il bordolese vola, tutti via a far bordolesi. Ecché, è forse diverso l’attuale tormentone del pinot grigio in America & United Kingdom?
Ora, per cercar di farmi un quadro di quel che è stato ed è il fenomeno dei bordolesi dalle mie parti, ossia il Triveneto e l’area del Garda, ho allestito qualche sera fa un wine tasting durante il quale ne abbiamo stappati più di venti. Cercando di scegliere nomi importanti e altri meno. Mettendo insieme il Garda, il Trentino, l’Alto Adige, i Colli Euganei, il Friuli. Anni i più vari, con prevalenza però per il nuovo millennio. Bevendo anche un bel po’ di rossi tribicchierati dalla guida del Gambero & Slow Food. E qualcuno di buono buono l’abbiamo pur trovato. E adesso dei più interessanti do conto qui sotto: sono sei, quelli meglio apprezzati dai presenti. Con doppio voto: i soliti faccini, da uno a tre, e l’indice di piacevolezza medio (ai presenti alle mie degustazioni domando sempre di valutare il vino con voto decimale, usando il mezzo punto se serve, secondo il parametro della piacevolezza personale, e dunque ha 10 il vino, se ci fosse, di cui vorresti immediatamente ristappare un’altra bottiglia, e giù a scendere). L’ordine è l’indice di piacevolezza decimale.
San Leonardo 1997 Tenuta San Leonardo Signori, giù il cappello. È gran rosso, questo qui. Nobilissimo. Giovanissimo, pur avendo raggiunto il decennio. Dal bicchiere emergono, di slancio, la spezia, l’erba officinale, il peperone, il frutto maturo. Naso da vino ancora giovinetto. E poi che vitalità in bocca! Ha eleganza, e freschezza invitante, e lunghezza appagante, avvincente. Vino di bel piacere e bella beva. Che ancora tanto tempo può sostare in bottiglia. Trentino. Cabernet sauvignon in prevalenza, e poi franc e merlot in piccola parte, se non erro.
Indice di piacevolezza: 8,962
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Quaiare 2000 Le Fraghe Il 2000 è stato, a detta di molti, il miglior Quaiare di Matilde Poggi (ma a me è molto piaciuto, sempre, il più piccolo, e più bardolinista se vogliamo, 2003). E in effetti, questo 2000 alla distanza è rosso che tuttora stupisce e colpisce. Ha tanto frutto rosso. Maturo. Maturissimo. E spezia minuta. E pepe. E in bocca c’è sì dolcezza fruttata, ma anche nervosa vena acida, che dà spalla e ravviva. E tannino ancora giovine. Confesso: non me l’aspettavo così in gran spolvero. Veneto, lago di Garda, entroterra. Cabernet sauvignon prevalente, e poi franc.
Indice di piacevolezza: 8,115
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Garda Cabernet Le Zalte 2003 Cascina La Pertica Oh, oh: secondo vino del mio lago! E son proprio piacevoli queste Zalte della Cascina La Pertica. Ricordo d’aver adorato, l’anno passato, questo 2003, e non lo riassaggiavo da un anno ormai, e l’ho ritrovato piacevole. Però s’è dovuto lasciar parecchio nel bicchiere, ché l’abbiamo dapprima trovato ridotto. Ma poi ecco il suo classico fruttino, e l’erbetta alpestre, e la vena acida che rinfresca, e il corpo minuto epperò anche la lunghezza invidiabile. Lago di Garda, sponda lombarda. Cabernet sauvignon e appena un filo di merlot. Biodinamico.
Indice di piacevolezza 7,808
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Breganze Cabernet Vigneto Due Santi 2005 Zonta Guardate, io l’adoro ‘sto vino. Mi piace il suo frutto pulito e succoso e avvolgente, e la sua beva franca e immediata, eppur anche la sua lunghezza, da rosso di valore. È giovanissimo, certo, e dunque andrebbe bevuto un po’ più in là (e per questo qualcuno l’ha un po’ penalizzato nella degustazione). Ma se vi capita d’incrociarlo, provatelo. Eppoi son contento che in casa Zonta non ci si monti la testa e si tengano prezzi ragionevoli, nonostante i tre bicchieri ormai fiocchino. Bravi. Per il vino e per la moderazione.
Indice di piacevolezza 7,654
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Südtiroler Cabernet Sanct Valentin 1999 Cantina San Michele Appiano Ebbé, mica fan buoni solo i bianchi, quelli della Cantina di Appiano. E ci scommetto che tanti lo berrebbero ben volentieri ‘sto rosso. Ha dunque naso di spezia e gran fruttone e vena minerale e nota verde. E in bocca, ecco una rinfrescante memoria di pompelmo rosa e quasi buccia d’arancia, e ancora fruttino rosso. E c’è insomma contrasto intrigante fra la verzura olfattiva e l’agrumata presenza al palato. E sarebbe perfetto se non fosse per quel pelo di dolcezza di troppo. Alto Adige, ovviamente.
Indice di piacevolezza 7,615
Due lieti faccini :-) :-)
Colli Euganei Rosso Gemola 2001 Vignalta Ora, non ho dubbi: se avessi davanti una tavolata e volessi trovare un rosso che contenta un po’ tutti già al primo sorso, scelgo il Gemola. Ché è vino esemplare per quello stile che dicevo in apertura: ha tutto quel che serve, ossia concentrazione, e frutto, e dolcezza, e lunghezza, e pienezza, e avvolgenza. Fatto benissimo. Per me, in un vino ci vorrei beva maggiore, ma son gusti. E comunque, sia chiaro: un bel bicchiere lo s'apprezza eccome. Veneto, Colli Euganei, Padova la provincia. Merlot in prevalenza e il resto cabernet sauvignon.
Indice di piacevolezza 7,538
Due lieti faccini :-) :-)
Ma sì, dai: il titolo è una provocazione. Il Cabernet c’è ancora, e tanto. Altro che c’era una volta. Però l’infatuazione, quella non sarà del tutto finita, ma è un po’ sulla via del tramonto. Parlo dell’Italia, ovviamente (oh, la Francia è altra cosa: lo dice uno che adora Bordeaux). Ne restano, per carità, di buonissimi, ma l’onda lunga si sta affievolendo. O almeno mi pare.
Tutto è cominciato sul finire degli anni Ottanta, per diventare mania nel decennio successivo. Sull’onda del successo del Sassicaia, ecco nascere vini con desinenza in aia (nel nome o nello stile) un po’ ovunque.
Poi, è stato boom. E via a piantar cabernet e merlot dall’Alto Adige alla Sicilia, e a far vini, dunque, d’uvaggio bordolese, e a far pertanto surmaturazione, e concentrazione, e muscolo, e potenza, e fruttone, e tannino dolce da lunga sosta in barrique, e vaniglia da piccola botte. Con la benedizione di Mr Parker, di Wine Spectator. E della critica nostrana. Epperò anche dei frequentatori di ristoranti e wine bar, che quei vini li domandavano eccome.
Oh, per carità: dicevo della concentrazione eccetera, ma mica sempre ci si è riusciti. Ed anzi, tante, troppe volte ci si è trovati e ci si trova ad avere a che fare con cabernet & merlot scomposti e verdi e crudi e allappanti o stucchevolmente dolci. Ma, ho detto, di buoni ce n’è stati e ce n’è. Però non è più la moda a dettar legge. E quel che è buono emerge, finalmente, perchè è appunto buono. E basta.
Era moda, dicevo. E le mode cambiano. E mi domando se davvero serviva metter mano ai disciplinari nostrani per ficcarci dentro a ogni costo le vigne bordoleseggianti. E a cabernetizzare l’italico vigneto. E a cabernetizzare anzi – così come tra i bianchi chardonnayzizzare – mezzo globo terraqueo. Ma il vino è business, si sa, e se il bordolese vola, tutti via a far bordolesi. Ecché, è forse diverso l’attuale tormentone del pinot grigio in America & United Kingdom?
Ora, per cercar di farmi un quadro di quel che è stato ed è il fenomeno dei bordolesi dalle mie parti, ossia il Triveneto e l’area del Garda, ho allestito qualche sera fa un wine tasting durante il quale ne abbiamo stappati più di venti. Cercando di scegliere nomi importanti e altri meno. Mettendo insieme il Garda, il Trentino, l’Alto Adige, i Colli Euganei, il Friuli. Anni i più vari, con prevalenza però per il nuovo millennio. Bevendo anche un bel po’ di rossi tribicchierati dalla guida del Gambero & Slow Food. E qualcuno di buono buono l’abbiamo pur trovato. E adesso dei più interessanti do conto qui sotto: sono sei, quelli meglio apprezzati dai presenti. Con doppio voto: i soliti faccini, da uno a tre, e l’indice di piacevolezza medio (ai presenti alle mie degustazioni domando sempre di valutare il vino con voto decimale, usando il mezzo punto se serve, secondo il parametro della piacevolezza personale, e dunque ha 10 il vino, se ci fosse, di cui vorresti immediatamente ristappare un’altra bottiglia, e giù a scendere). L’ordine è l’indice di piacevolezza decimale.
San Leonardo 1997 Tenuta San Leonardo Signori, giù il cappello. È gran rosso, questo qui. Nobilissimo. Giovanissimo, pur avendo raggiunto il decennio. Dal bicchiere emergono, di slancio, la spezia, l’erba officinale, il peperone, il frutto maturo. Naso da vino ancora giovinetto. E poi che vitalità in bocca! Ha eleganza, e freschezza invitante, e lunghezza appagante, avvincente. Vino di bel piacere e bella beva. Che ancora tanto tempo può sostare in bottiglia. Trentino. Cabernet sauvignon in prevalenza, e poi franc e merlot in piccola parte, se non erro.
Indice di piacevolezza: 8,962
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Quaiare 2000 Le Fraghe Il 2000 è stato, a detta di molti, il miglior Quaiare di Matilde Poggi (ma a me è molto piaciuto, sempre, il più piccolo, e più bardolinista se vogliamo, 2003). E in effetti, questo 2000 alla distanza è rosso che tuttora stupisce e colpisce. Ha tanto frutto rosso. Maturo. Maturissimo. E spezia minuta. E pepe. E in bocca c’è sì dolcezza fruttata, ma anche nervosa vena acida, che dà spalla e ravviva. E tannino ancora giovine. Confesso: non me l’aspettavo così in gran spolvero. Veneto, lago di Garda, entroterra. Cabernet sauvignon prevalente, e poi franc.
Indice di piacevolezza: 8,115
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Garda Cabernet Le Zalte 2003 Cascina La Pertica Oh, oh: secondo vino del mio lago! E son proprio piacevoli queste Zalte della Cascina La Pertica. Ricordo d’aver adorato, l’anno passato, questo 2003, e non lo riassaggiavo da un anno ormai, e l’ho ritrovato piacevole. Però s’è dovuto lasciar parecchio nel bicchiere, ché l’abbiamo dapprima trovato ridotto. Ma poi ecco il suo classico fruttino, e l’erbetta alpestre, e la vena acida che rinfresca, e il corpo minuto epperò anche la lunghezza invidiabile. Lago di Garda, sponda lombarda. Cabernet sauvignon e appena un filo di merlot. Biodinamico.
Indice di piacevolezza 7,808
Due lieti faccini e quasi tre :-) :-)
Breganze Cabernet Vigneto Due Santi 2005 Zonta Guardate, io l’adoro ‘sto vino. Mi piace il suo frutto pulito e succoso e avvolgente, e la sua beva franca e immediata, eppur anche la sua lunghezza, da rosso di valore. È giovanissimo, certo, e dunque andrebbe bevuto un po’ più in là (e per questo qualcuno l’ha un po’ penalizzato nella degustazione). Ma se vi capita d’incrociarlo, provatelo. Eppoi son contento che in casa Zonta non ci si monti la testa e si tengano prezzi ragionevoli, nonostante i tre bicchieri ormai fiocchino. Bravi. Per il vino e per la moderazione.
Indice di piacevolezza 7,654
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
Südtiroler Cabernet Sanct Valentin 1999 Cantina San Michele Appiano Ebbé, mica fan buoni solo i bianchi, quelli della Cantina di Appiano. E ci scommetto che tanti lo berrebbero ben volentieri ‘sto rosso. Ha dunque naso di spezia e gran fruttone e vena minerale e nota verde. E in bocca, ecco una rinfrescante memoria di pompelmo rosa e quasi buccia d’arancia, e ancora fruttino rosso. E c’è insomma contrasto intrigante fra la verzura olfattiva e l’agrumata presenza al palato. E sarebbe perfetto se non fosse per quel pelo di dolcezza di troppo. Alto Adige, ovviamente.
Indice di piacevolezza 7,615
Due lieti faccini :-) :-)
Colli Euganei Rosso Gemola 2001 Vignalta Ora, non ho dubbi: se avessi davanti una tavolata e volessi trovare un rosso che contenta un po’ tutti già al primo sorso, scelgo il Gemola. Ché è vino esemplare per quello stile che dicevo in apertura: ha tutto quel che serve, ossia concentrazione, e frutto, e dolcezza, e lunghezza, e pienezza, e avvolgenza. Fatto benissimo. Per me, in un vino ci vorrei beva maggiore, ma son gusti. E comunque, sia chiaro: un bel bicchiere lo s'apprezza eccome. Veneto, Colli Euganei, Padova la provincia. Merlot in prevalenza e il resto cabernet sauvignon.
Indice di piacevolezza 7,538
Due lieti faccini :-) :-)
sabato 1 dicembre 2007
L’equilibrio e il cristallo e il vino
Angelo Peretti
Equilibrio, equilibrio, equilibrio. È quel che cerco in un un vino. Insieme con la finezza, che però ne è, a ben pensarci, conseguenza. E son proprio contento che quella parolina magica la si sia ripetuta tante e tante volte al convegno veronese promosso da Angiolino Maule - leggi produzione biodinamica a Gambellara, ossia La Biancara - con la sua associazione VinNatur. Oh, sì che son contento, ché ho massimo rispetto per le teorie steineriane, per il biologico e il naturale e quel che volete voi, ma anche - permettetelo - per chi fa con serietà agricoltura convenzionale, a condizione però che il vino che ne vien fuori, qualunque sia la pratica di fondo, sia di quelli che ti ricordi con piacere, perché t’ha donato emozione e perché qualcosa d’importante e d’unico t’ha raccontato. E quel racconto si dipana appunto, quando c’è, sull’equilibrio.
Ora, però, che l’equilibrio d’un vino lo si ricerchi non già - non solo - in cantina, ma soprattutto dal riequilibrio in primis della vigna e della terra che le è custode e forse madre, mi par cosa meritoria. Ed efficace. Dunque, ben vengano le teorizzazione e gli empirismi dei biodinamici e dei vigneron che s’autodefiniscono naturali e autentici. A condizione - ovvio - che autentici siano l’entusiasmo e l’impegno, e non ci si fermi al mettere il bio sull’etichetta, per far marketing a buon mercato, ché non è più tempo di bolla speculativa, e val la pena ricordarsi degli anni neppur tanto remoti del boom internettiano, quando bastava mettere una e davanti al nome di un’azienda - e farla diventare appunto un’e-qualcosa - perché il titolo schizzasse in borsa, salvo poi ritrovarsi con un pugno di mosche di lì a poco. Ecco: non si faccia l’errore, ché non funziona (più).
Premesso tutto questo, d’entusiasmo n’ho trovato parecchio fra i seguaci e i colleghi e i maestri d’Angiolino. E magari in qualcheduno di loro anche un pochetto di radicalismo, se non settarismo, ma son peccati di gioventù. Purtuttavia mi par d’aver capito che la fase d’infatuazione sta tramontando per lasciar posto a un positivo e sano realismo, che induce a ben sperare. E più di tutti m’è piaciuto, in questo, Christian Marcel, che pratica la cristallizzazione sensibile, e ha tenuta una relazione che dir fascinosa è poco. E il protagonista, questo Marcel, m’è parso persona rigorosa e trasparente e per nulla orientato a far commercio. Tant’è che ha ribadito che si tratta - il suo - d’uno strumento di ricerca, e non ancora d’una scienza esatta. Che evidenzia o può evidenziare, però, cose che sfuggono alle analisi convenzionali.
La sottolineatura è questa: l’approccio scientifico porta all’analisi fisico-chimica, che molto spiega, ma non tutto. L’inspiegato può interpretarsi in forma antroposofica, e la cristalizzazione sensibile è in quest’area. Ch’è magari soggettiva. Ma offre un plus che sarebbe assurdo passar sotto silenzio solo perché la scienza ufficiale non se n’è ancora occupata a fondo e dunque neancora ha emesso - o voluto emettere - il proprio parere. E insomma: non tutto è spiegato e spiegabile con la scienza ufficiale, e neppure con l’antroposofia, vivaddìo, e dunque ancora molta è la strada da percorrere, ma comunque il metodo è ormai da lungo sperimentato, e dunque affianca ed integra - per chi vuole - l’analisi scientifica.
Ora, va detto che questa cristallizzazione sensibile è metodologia nata una settantina d’anni fa sulla scorta dei suggerimenti di Rudolf Steiner, che del pensiero biodinamico è il padre. La faccenda funziona - a soldoni - così: su un disco di vetro, s’aggiunge del cloruro di rame ad un estratto di sostanza organica o minerale. L’interazione fra il rame, che è il conduttore, e la carica elettromagnetica delle molecole in soluzione fa sì che si formino, sul dischetto, figure in forma di cristalli, immagini geometriche capaci in qualche modo esprime le forze della materia. Il problema è dar corretta lettura a quei cristalli. Ma se questo riesce, ecco che se ne traggono indicazioni utili assai sulla sanità del luogo o della pianta o del vino, sui rischi di malattia della vigna, sulle dinamiche del terroir, sulla correttezza dei portainnesti, sulla felicità della cuvée, sulla capacità d’invecchiamento. Detto così può sembrar velleitario, ma prove e riscontri porterebbero a dire che funziona, andando a dar spiegazioni possibili, plausibili, laddove l’analisi convenzionale non giunge, e dunque supportandola e arricchendola. Non m’addentrerò oltre nella questione (chi volesse saperne di più vada al sito www.vinimage.com).
Ora, mi soffermo invece un momento su una frase che ha detto Pierre Paillard, che ha guidato i lavori del convegno: «Ciò che conta - ha affermato - è la realtà dei fatti. Se la teoria non è in grado di spiegare i fatti, è la teoria che va cambiata, perché i fatti rimangono». In fondo, il cammino verso la conoscenza s’è sempre basato su osservazioni di questo genere. E dunque avanti con le sperimentazioni. E con la biodinamica e il naturale. Cum granu salis, però: non credo ai millenarismi, e detesto i settarismi. E cerco di prender quel che c’è di buono da tutti.
E può figurare abritrario dir che la chimica fa morir la terra e distrugge il terroir - ed è possibile e probabilmente è anzi vero - ma nel contempo applaudire metodi che comunque il terroir lo modificano. Che altro non è, se non un modificare il terroir, il metodo illustrato al convegno - applauditissimo, appunto - che per mezzo dell’estensione interrata d’un filo di rame attorno al vigneto favorisce, incidendo sui campi elettromagnetici, il deflusso dell’acqua in eccesso? Vero è che con la procedura in questione la vigna si fa più sana ed integra e perfino più equilibrata nella vegetazione e nella fruttificazione. Vero anche però - mi pare - che la correlazione fra vigna e suolo e clima è artificiosamente modificata, e dunque dov’è il rispetto rigoroso del terroir? Così la penso, e posso aver torto, ovviamente.
Spero anch’io, comunque, che si possa essere alla vigilia d’un nuovo umanesimo, come ha osservato Pierre Paillard. E che si possa avere un rapporto rinnovato con la vita e con la natura. E che ciascuno possa metterci del suo: «Cambiare globalmente - parole di Paillard - non è possibile. Bisogna che ciascuno cambi individualmente nel proprio ambito». Condivido. Senza però pretendere che il proprio cambiamento sia per forza l’unico e sia il solo corretto.
In ogni caso, è vero: sono i fatti che restano. E i fatti mi dicono che negli ultimi anni ho bevuto vini fascinosi sia in biodinamica che in tecnica convenzionale. Ma anche che quand’incontri il biodinamico ben fatto, allora nel bicchiere hai vino da urlo. E che te n’accorgi all’assaggio, mica dall’etichetta. E questa personalità e ricchezza ed equilibrio che ci ritrovi ti fan riflettere (e gioire). E qui siam tornati, all’equilibrio. Che prima del vino va ricercato in vigna e nella terra. Epperò prima ancora che in vigna e nella terra, ritengo, nella mente e nel cuore.
Ultima cosa, per sdrammatizzare, ché m’accorgo d’esser stato serioso. Un voto al convegno: alto per la partecipazione, alto per i contenuti, alto per i relatori, bassissimo e insufficiente per il break, ché non è possibile sentir parlar di vino per due giorni e trovar solo acqua minerale e succo d’arancia in cartone. Insomma: un goccio di bio-vino l’avrei pur bevuto... Vabbé, mi son rifatto, poi, a casa.
Equilibrio, equilibrio, equilibrio. È quel che cerco in un un vino. Insieme con la finezza, che però ne è, a ben pensarci, conseguenza. E son proprio contento che quella parolina magica la si sia ripetuta tante e tante volte al convegno veronese promosso da Angiolino Maule - leggi produzione biodinamica a Gambellara, ossia La Biancara - con la sua associazione VinNatur. Oh, sì che son contento, ché ho massimo rispetto per le teorie steineriane, per il biologico e il naturale e quel che volete voi, ma anche - permettetelo - per chi fa con serietà agricoltura convenzionale, a condizione però che il vino che ne vien fuori, qualunque sia la pratica di fondo, sia di quelli che ti ricordi con piacere, perché t’ha donato emozione e perché qualcosa d’importante e d’unico t’ha raccontato. E quel racconto si dipana appunto, quando c’è, sull’equilibrio.
Ora, però, che l’equilibrio d’un vino lo si ricerchi non già - non solo - in cantina, ma soprattutto dal riequilibrio in primis della vigna e della terra che le è custode e forse madre, mi par cosa meritoria. Ed efficace. Dunque, ben vengano le teorizzazione e gli empirismi dei biodinamici e dei vigneron che s’autodefiniscono naturali e autentici. A condizione - ovvio - che autentici siano l’entusiasmo e l’impegno, e non ci si fermi al mettere il bio sull’etichetta, per far marketing a buon mercato, ché non è più tempo di bolla speculativa, e val la pena ricordarsi degli anni neppur tanto remoti del boom internettiano, quando bastava mettere una e davanti al nome di un’azienda - e farla diventare appunto un’e-qualcosa - perché il titolo schizzasse in borsa, salvo poi ritrovarsi con un pugno di mosche di lì a poco. Ecco: non si faccia l’errore, ché non funziona (più).
Premesso tutto questo, d’entusiasmo n’ho trovato parecchio fra i seguaci e i colleghi e i maestri d’Angiolino. E magari in qualcheduno di loro anche un pochetto di radicalismo, se non settarismo, ma son peccati di gioventù. Purtuttavia mi par d’aver capito che la fase d’infatuazione sta tramontando per lasciar posto a un positivo e sano realismo, che induce a ben sperare. E più di tutti m’è piaciuto, in questo, Christian Marcel, che pratica la cristallizzazione sensibile, e ha tenuta una relazione che dir fascinosa è poco. E il protagonista, questo Marcel, m’è parso persona rigorosa e trasparente e per nulla orientato a far commercio. Tant’è che ha ribadito che si tratta - il suo - d’uno strumento di ricerca, e non ancora d’una scienza esatta. Che evidenzia o può evidenziare, però, cose che sfuggono alle analisi convenzionali.
La sottolineatura è questa: l’approccio scientifico porta all’analisi fisico-chimica, che molto spiega, ma non tutto. L’inspiegato può interpretarsi in forma antroposofica, e la cristalizzazione sensibile è in quest’area. Ch’è magari soggettiva. Ma offre un plus che sarebbe assurdo passar sotto silenzio solo perché la scienza ufficiale non se n’è ancora occupata a fondo e dunque neancora ha emesso - o voluto emettere - il proprio parere. E insomma: non tutto è spiegato e spiegabile con la scienza ufficiale, e neppure con l’antroposofia, vivaddìo, e dunque ancora molta è la strada da percorrere, ma comunque il metodo è ormai da lungo sperimentato, e dunque affianca ed integra - per chi vuole - l’analisi scientifica.
Ora, va detto che questa cristallizzazione sensibile è metodologia nata una settantina d’anni fa sulla scorta dei suggerimenti di Rudolf Steiner, che del pensiero biodinamico è il padre. La faccenda funziona - a soldoni - così: su un disco di vetro, s’aggiunge del cloruro di rame ad un estratto di sostanza organica o minerale. L’interazione fra il rame, che è il conduttore, e la carica elettromagnetica delle molecole in soluzione fa sì che si formino, sul dischetto, figure in forma di cristalli, immagini geometriche capaci in qualche modo esprime le forze della materia. Il problema è dar corretta lettura a quei cristalli. Ma se questo riesce, ecco che se ne traggono indicazioni utili assai sulla sanità del luogo o della pianta o del vino, sui rischi di malattia della vigna, sulle dinamiche del terroir, sulla correttezza dei portainnesti, sulla felicità della cuvée, sulla capacità d’invecchiamento. Detto così può sembrar velleitario, ma prove e riscontri porterebbero a dire che funziona, andando a dar spiegazioni possibili, plausibili, laddove l’analisi convenzionale non giunge, e dunque supportandola e arricchendola. Non m’addentrerò oltre nella questione (chi volesse saperne di più vada al sito www.vinimage.com).
Ora, mi soffermo invece un momento su una frase che ha detto Pierre Paillard, che ha guidato i lavori del convegno: «Ciò che conta - ha affermato - è la realtà dei fatti. Se la teoria non è in grado di spiegare i fatti, è la teoria che va cambiata, perché i fatti rimangono». In fondo, il cammino verso la conoscenza s’è sempre basato su osservazioni di questo genere. E dunque avanti con le sperimentazioni. E con la biodinamica e il naturale. Cum granu salis, però: non credo ai millenarismi, e detesto i settarismi. E cerco di prender quel che c’è di buono da tutti.
E può figurare abritrario dir che la chimica fa morir la terra e distrugge il terroir - ed è possibile e probabilmente è anzi vero - ma nel contempo applaudire metodi che comunque il terroir lo modificano. Che altro non è, se non un modificare il terroir, il metodo illustrato al convegno - applauditissimo, appunto - che per mezzo dell’estensione interrata d’un filo di rame attorno al vigneto favorisce, incidendo sui campi elettromagnetici, il deflusso dell’acqua in eccesso? Vero è che con la procedura in questione la vigna si fa più sana ed integra e perfino più equilibrata nella vegetazione e nella fruttificazione. Vero anche però - mi pare - che la correlazione fra vigna e suolo e clima è artificiosamente modificata, e dunque dov’è il rispetto rigoroso del terroir? Così la penso, e posso aver torto, ovviamente.
Spero anch’io, comunque, che si possa essere alla vigilia d’un nuovo umanesimo, come ha osservato Pierre Paillard. E che si possa avere un rapporto rinnovato con la vita e con la natura. E che ciascuno possa metterci del suo: «Cambiare globalmente - parole di Paillard - non è possibile. Bisogna che ciascuno cambi individualmente nel proprio ambito». Condivido. Senza però pretendere che il proprio cambiamento sia per forza l’unico e sia il solo corretto.
In ogni caso, è vero: sono i fatti che restano. E i fatti mi dicono che negli ultimi anni ho bevuto vini fascinosi sia in biodinamica che in tecnica convenzionale. Ma anche che quand’incontri il biodinamico ben fatto, allora nel bicchiere hai vino da urlo. E che te n’accorgi all’assaggio, mica dall’etichetta. E questa personalità e ricchezza ed equilibrio che ci ritrovi ti fan riflettere (e gioire). E qui siam tornati, all’equilibrio. Che prima del vino va ricercato in vigna e nella terra. Epperò prima ancora che in vigna e nella terra, ritengo, nella mente e nel cuore.
Ultima cosa, per sdrammatizzare, ché m’accorgo d’esser stato serioso. Un voto al convegno: alto per la partecipazione, alto per i contenuti, alto per i relatori, bassissimo e insufficiente per il break, ché non è possibile sentir parlar di vino per due giorni e trovar solo acqua minerale e succo d’arancia in cartone. Insomma: un goccio di bio-vino l’avrei pur bevuto... Vabbé, mi son rifatto, poi, a casa.
martedì 27 novembre 2007
La collina, il lago, la pioggia e il Franciacorta
Angelo Peretti
Sarà che sono un cattivo autista, nel senso che certamente non amo l’automobile alla follia, ma quando c’è troppo traffico vado regolarmente in tensione. Mi capita di sicuro quando devo attraversare Brescia sulla Milano-Venezia: tutto quel caos di macchine e tir mi dà disagio. E forse di più me ne procura l’anarchia viabilistica che c’è subito fuori dell’autostrada, sulle tangenziali e superstrade bresciane che portano in città o nei sobborghi, tra file e file di capannoni, col via vai impazzito di gente che sembra non saper fare altro che spingere sull’acceleratore anche là dove correre non si dovrebbe (potrebbe).
Ecco dunque che mi ci sono diretto con un po’ d’ansia in Franciacorta, in una tarda mattinata novembrina che pioveva a dirotto, avendo dovuto dapprima passare il trittico infernale Brescia est-centro-ovest e poi zigzagare fra il serpentone di metallo di auto e camion di fuori dal casello di Rovato.
Gli è però che ero atteso alla mia prima vera full immersion nella bollicinosa realtà franciacortina (altre visite precedenti erano state toccate e fughe), e dunque il viaggio valeva la pena. Stavolta m’avevano organizzato una visita quelli della Sata, agenzia d’agronomi d’assalto (rintrazio in particolare Marco Tonni per avermi proposto la giornata in Franciacorta), col credo dell’equilibrio della terra e della vigna. E dunque attenti a non nutrire falsamente i suoli, che vuol dire per esempio niente chimica, e sano letame, invece, tra i filari. E poi m’aspettava Marco Zizioli, enologo giovane dalla personalità spiccata, pure lui consulente in Franciacorta, in stretta sintonia col gruppo Sata.
Vi dirò subito che, nonostante il traffico d’avvicinamento - poi lassù a due passi dal lago d’Iseo le cose son cambiate in meglio, e parecchio - e la grand’inzuppata che mi son beccato, il pezzo di Franciacorta che ho incontrato m’è piaciuto, e un bel po’. Ed anzi le vigne spoglie e la pioggia che seguitava a scrosciare formavano, insieme, un che di suggestivo. O forse è che a me, lacustre, quei cieli grigi, quell’arie malinconiche son familiari, e usuale m’è pure la collina morenica vitata, e dunque mi rispecchio in questa terra a due passi da un lago, pur piccolino. E fascinosi ho trovato alcuni scorci, come verso le torbiere, al vigneto delle Boschette (mi par si chiami così, o sbaglio?) della famiglia Bosio. E affascinantissima (si può dire?) ho trovato la collina che, a Provaglio, è stata impiantata di vigna da Chiara Ziliani. Ed è poi tutta bellissima e stretta e fitta la vigna. Sull’esempio della Champagne. E il lavoro di consulenza agronomica lo vedi, lo tocchi con mano.
Eppoi in Franciacorta si fa tutto con imprenditorialità somma, e dunque se si dice che il buon vino lo si fa soprattutto nel vigneto, be’, qui si prende l’agronomo che prepari la vigna, ché faccia scaturire dunque il frutto buono su cui poi - solo poi - dovrà impegnarsi l’enologo. E così va a finire che anche i piccoletti, che la consulenza agronomica magari non se la possono ancora permettere, imitano gli altri, e dunque è ben condotto tutto il vigneto - o quasi - franciacortino.
E questo non vuol dire standardizzazione. Ché il terroir incide, eccome, se non punti all’omologazione. E dunque ecco che le bolle di Franciacorta sembrano percorrere due diverse strade: quelle che puntano al verde e al floreale, e quelle che invece mettono in luce il fruttino e la polpa.
L’altra diversificazione è invece stilistica: c’è chi (i più) guarda alla morbidezza, e dunque mette zucchero abbastanza alto nel liqueur, ed è scelta che paga commercialmente, oggi, e chi invece ancora testardamente (evviva! Ma son pochetti) s’ostina a privilegiare la vena acida e nervosa.
Poi c’è la terza diversità, quella che ripartisce le bolle fra il brut (e qui ci metto dentro pur l’extra brut e il raramente fatto pas dosè) e il satèn, ennesima genialata di Franciacorta, nato quindici anni fa per aver più setosità dalla minor pressione, e oggi in crescita d’affermazione. Ché poi in Franciacorta il successo è quotidianità: problemi a vendere ce n’è zero, per chi sa fare il passo giusto. E il passo giusto qui sembrano tenerlo quasi tutti.
Adesso, per finire, qualche vino delle quattro aziende visitate, tutte seguite a Ziioli e dagli agronomi di Sata.
Franciacorta Satèn Ziliani C - Chiara Ziliani Non è millesimato, ma la vendemmia di riferimento è una sola, quella del 2004, e la sboccatura è di giugno scorso. Ha naso vanigliato e quasi, direi, burroso, ed ha briochina all’albicocca, ed eleganza e fiore. E floreale è pure il palato, ed è anche verde, vegetale, e mi piace questo slancio rinfrescante. C’è lunghezza, e distensione. S’apre gradualmente poi sul piccolo frutto asprigno. Ed ha bella lunghezza. Figlio di vigne giovanissime, che avevano tre anni soltanto all’atto della raccolta dell’uve, dice che la collina è giusta.
Due lieti faccini :-) :-)
Franciacorta Extra Brut Boschedòr 2003 - Bosio Oh, santo cielo, un millesimato del 2003! Annata della calura, che penseresti poco adatta alla bolla, e millesimata poi, e addirittura extra brut, figuriamoci! E invece il vino è interessante parecchio. Trentatrè mesi sui lieviti, è stato. E propone al naso nocciola e noce e vena minerale e, sotto, la crosta di pane appena uscito dal forno. In bocca, ecco che la bolla è cremosa, ben modulata. Ed è espressa in bella misura la freschezza. E c’è frutto, e tanto agrume (l’arancia, la sua buccia). E una vena balsamica piacevole parecchio.
Due lieti faccini :-) :-)
Franciacorta Satèn - Riva di Franciacorta La prima vendemmia dell’azienda, neonata, è stata quella del 2005, ed è dunque questo (insieme al brut) il primo vino prodotto, ed è stato sui lieviti brevemente pertanto, 19 mesi o giù di lì. Ed è stato sboccato appena un paio di mesi fa. Eppure le premesse son buone. Il naso ha piacevoli note citrine e la bocca è sullo stesso piano epperò anche innervata d’eleganti memorie di fiore bianco. La struttura non è di quelle imponenti, però c’è eleganza.
Due lieti faccini :-) :-)
Franciacorta Satèn - Valle Far bolicina in un agriturismo. Buona la bolla, bello l’agritur (e tutt’intorno il vigneto, in una conca), di sostanza la cucina. Cucina e Franciacorta vanno a braccetto, e col burro e l’agliatura dei piatti ci sta anche quel pelo di morbidezza in più che ha il vino. E va giù un calice dietro l’altro, nonostante gli zuccheri spintarelli, questo satèn. Il naso ha tanta nocciola, un po’ tostata perfino. E ricompare l’aroma al palato. E c’è crosta di pane. E bel fruttino di bosco. E c’è lunghezza interessante. E c’è cremosità e polpa. Non è millesimato, ma è tutto comunque della vendemmia 2002, con sboccatura a fine gennaio del 2006.
Due lieti faccini :-) :-)
Sarà che sono un cattivo autista, nel senso che certamente non amo l’automobile alla follia, ma quando c’è troppo traffico vado regolarmente in tensione. Mi capita di sicuro quando devo attraversare Brescia sulla Milano-Venezia: tutto quel caos di macchine e tir mi dà disagio. E forse di più me ne procura l’anarchia viabilistica che c’è subito fuori dell’autostrada, sulle tangenziali e superstrade bresciane che portano in città o nei sobborghi, tra file e file di capannoni, col via vai impazzito di gente che sembra non saper fare altro che spingere sull’acceleratore anche là dove correre non si dovrebbe (potrebbe).
Ecco dunque che mi ci sono diretto con un po’ d’ansia in Franciacorta, in una tarda mattinata novembrina che pioveva a dirotto, avendo dovuto dapprima passare il trittico infernale Brescia est-centro-ovest e poi zigzagare fra il serpentone di metallo di auto e camion di fuori dal casello di Rovato.
Gli è però che ero atteso alla mia prima vera full immersion nella bollicinosa realtà franciacortina (altre visite precedenti erano state toccate e fughe), e dunque il viaggio valeva la pena. Stavolta m’avevano organizzato una visita quelli della Sata, agenzia d’agronomi d’assalto (rintrazio in particolare Marco Tonni per avermi proposto la giornata in Franciacorta), col credo dell’equilibrio della terra e della vigna. E dunque attenti a non nutrire falsamente i suoli, che vuol dire per esempio niente chimica, e sano letame, invece, tra i filari. E poi m’aspettava Marco Zizioli, enologo giovane dalla personalità spiccata, pure lui consulente in Franciacorta, in stretta sintonia col gruppo Sata.
Vi dirò subito che, nonostante il traffico d’avvicinamento - poi lassù a due passi dal lago d’Iseo le cose son cambiate in meglio, e parecchio - e la grand’inzuppata che mi son beccato, il pezzo di Franciacorta che ho incontrato m’è piaciuto, e un bel po’. Ed anzi le vigne spoglie e la pioggia che seguitava a scrosciare formavano, insieme, un che di suggestivo. O forse è che a me, lacustre, quei cieli grigi, quell’arie malinconiche son familiari, e usuale m’è pure la collina morenica vitata, e dunque mi rispecchio in questa terra a due passi da un lago, pur piccolino. E fascinosi ho trovato alcuni scorci, come verso le torbiere, al vigneto delle Boschette (mi par si chiami così, o sbaglio?) della famiglia Bosio. E affascinantissima (si può dire?) ho trovato la collina che, a Provaglio, è stata impiantata di vigna da Chiara Ziliani. Ed è poi tutta bellissima e stretta e fitta la vigna. Sull’esempio della Champagne. E il lavoro di consulenza agronomica lo vedi, lo tocchi con mano.
Eppoi in Franciacorta si fa tutto con imprenditorialità somma, e dunque se si dice che il buon vino lo si fa soprattutto nel vigneto, be’, qui si prende l’agronomo che prepari la vigna, ché faccia scaturire dunque il frutto buono su cui poi - solo poi - dovrà impegnarsi l’enologo. E così va a finire che anche i piccoletti, che la consulenza agronomica magari non se la possono ancora permettere, imitano gli altri, e dunque è ben condotto tutto il vigneto - o quasi - franciacortino.
E questo non vuol dire standardizzazione. Ché il terroir incide, eccome, se non punti all’omologazione. E dunque ecco che le bolle di Franciacorta sembrano percorrere due diverse strade: quelle che puntano al verde e al floreale, e quelle che invece mettono in luce il fruttino e la polpa.
L’altra diversificazione è invece stilistica: c’è chi (i più) guarda alla morbidezza, e dunque mette zucchero abbastanza alto nel liqueur, ed è scelta che paga commercialmente, oggi, e chi invece ancora testardamente (evviva! Ma son pochetti) s’ostina a privilegiare la vena acida e nervosa.
Poi c’è la terza diversità, quella che ripartisce le bolle fra il brut (e qui ci metto dentro pur l’extra brut e il raramente fatto pas dosè) e il satèn, ennesima genialata di Franciacorta, nato quindici anni fa per aver più setosità dalla minor pressione, e oggi in crescita d’affermazione. Ché poi in Franciacorta il successo è quotidianità: problemi a vendere ce n’è zero, per chi sa fare il passo giusto. E il passo giusto qui sembrano tenerlo quasi tutti.
Adesso, per finire, qualche vino delle quattro aziende visitate, tutte seguite a Ziioli e dagli agronomi di Sata.
Franciacorta Satèn Ziliani C - Chiara Ziliani Non è millesimato, ma la vendemmia di riferimento è una sola, quella del 2004, e la sboccatura è di giugno scorso. Ha naso vanigliato e quasi, direi, burroso, ed ha briochina all’albicocca, ed eleganza e fiore. E floreale è pure il palato, ed è anche verde, vegetale, e mi piace questo slancio rinfrescante. C’è lunghezza, e distensione. S’apre gradualmente poi sul piccolo frutto asprigno. Ed ha bella lunghezza. Figlio di vigne giovanissime, che avevano tre anni soltanto all’atto della raccolta dell’uve, dice che la collina è giusta.
Due lieti faccini :-) :-)
Franciacorta Extra Brut Boschedòr 2003 - Bosio Oh, santo cielo, un millesimato del 2003! Annata della calura, che penseresti poco adatta alla bolla, e millesimata poi, e addirittura extra brut, figuriamoci! E invece il vino è interessante parecchio. Trentatrè mesi sui lieviti, è stato. E propone al naso nocciola e noce e vena minerale e, sotto, la crosta di pane appena uscito dal forno. In bocca, ecco che la bolla è cremosa, ben modulata. Ed è espressa in bella misura la freschezza. E c’è frutto, e tanto agrume (l’arancia, la sua buccia). E una vena balsamica piacevole parecchio.
Due lieti faccini :-) :-)
Franciacorta Satèn - Riva di Franciacorta La prima vendemmia dell’azienda, neonata, è stata quella del 2005, ed è dunque questo (insieme al brut) il primo vino prodotto, ed è stato sui lieviti brevemente pertanto, 19 mesi o giù di lì. Ed è stato sboccato appena un paio di mesi fa. Eppure le premesse son buone. Il naso ha piacevoli note citrine e la bocca è sullo stesso piano epperò anche innervata d’eleganti memorie di fiore bianco. La struttura non è di quelle imponenti, però c’è eleganza.
Due lieti faccini :-) :-)
Franciacorta Satèn - Valle Far bolicina in un agriturismo. Buona la bolla, bello l’agritur (e tutt’intorno il vigneto, in una conca), di sostanza la cucina. Cucina e Franciacorta vanno a braccetto, e col burro e l’agliatura dei piatti ci sta anche quel pelo di morbidezza in più che ha il vino. E va giù un calice dietro l’altro, nonostante gli zuccheri spintarelli, questo satèn. Il naso ha tanta nocciola, un po’ tostata perfino. E ricompare l’aroma al palato. E c’è crosta di pane. E bel fruttino di bosco. E c’è lunghezza interessante. E c’è cremosità e polpa. Non è millesimato, ma è tutto comunque della vendemmia 2002, con sboccatura a fine gennaio del 2006.
Due lieti faccini :-) :-)
lunedì 19 novembre 2007
Quei sapori che tornano dal passato
Angelo Peretti
Lo si è letto in questi giorni: a Palermo sono stati condannati per estorsione aggravata i tre imputati che erano accusati di aver chiesto il pizzo alla storica focacceria San Francesco, in pieno centro della città. Li aveva denunciati il titolare.
Alla focacceria ci sono stato di recente. Di fronte ci stazionava una macchina dei carabinieri. Era strapieno di gente. Soprattutto giovani. Ci ho mangiato il pani ca’ meusa, il panino con la milza. Per di più maritato, e cioè arricchito col formaggio - credo sia caciocavallo: dicono così su Osterie d’Italia - tagliato a listarelle, che si fonde col calore delle frattaglie. Com’era? Straordinariamente gustoso. Un sapore antico. Unico. Se torno da quelle parti, è certo che me ne sbafo un altro.
A Firenze non ho resistito al fascino della bancarella di Orazio Nencioni, accanto alla Loggia del Porcellino stracolma di chioschetti di vestiario e pellame. Avevo appena pranzato. Ma quando mi sono imbattuto nel furgoncino che serviva i panini con il lampredotto, be’, come facevo a passar oltre? E cosa sia il lampredotto è presto detto: trippa. «Un caso di resistenza gastronomica» dice Osterie, a proposito dei trippai fiorentini. La lessano e la tengono in caldo, per affettarla davanti a te. Poi splàf, nel panino riscaldato sulla piastra. Pesantuccia, ma irrinunciabile.
Li chiamano, adesso, street food, questi panini schiettamente popolari. Cibo di strada. Appartengono alla tradizione. Da salvare. Da assaporare. Alla faccia delle continue restrizioni igienico-sanitarie. A volte francamente incomprensibili.
Direte: ma come, tu, veronese, ami il panino quando il sindaco di Verona, appunto, ne vieta il consumo nelle piazze? Intanto, Tosi ha proibito d’accamparsi sui monumenti, e comunque decideranno gli elettori scaligeri se è cosa buona o no. Però mi verrebbe da dire che ha fatto bene, considerati i panini che si vendono in centro: con tutte le materie prime di pregio che si fanno in provincia, che senso ha che i turisti s’ingozzino di plasticume?
E comunque, non è di panini che voglio riflettere in queste righe. Piuttosto di tradizione. Di cibo della tradizione. E dico evviva, perfino, alle sagre, se vi si fa da mangiare coi sacri crismi. Senza asservirsi al precotto, al preconfezionato, alle buste industriali. A Pizzighettone, nel Cremonese, sono capitato casualmente, qualche giorno fa, alla festa del fasulìn de l’öc cun le cùdeghe, e il titolo un po’ m’inquietava. Ma che saporita quella zuppa (servita in scodelle di coccio) di fagiolini dell’occhio, ormai quasi introvabili, e cotiche di maiale (tante) cotte lunghissimamente. Si può far qualità perfino nelle piazze, se si rispetta per davvero la tradizione. Se la si ha a cuore. Mica asservendola, snaturandola, plagiandola per farci soldi facili e magari esentasse.
Ecco: la tradizione gastronomica. È questa che va d’attualità. E non solo per faccende di strada o di piazza. Non solo, ovvio, quando ci son di mezzo le frattaglie (che mangio volentieri, lo si è capito). Vedo, più in generale. un ritorno - finalmente - alla cucina tradizionale. Italica. È questa la ristorazione che funziona, oggi. Il resto vive da tempo aria di crisi. Purché non sia solo moda, passeggera.
In realtà, credo che il mondo della ristorazione (quella qualitativamente valida, intendo, ché c’è troppa gente che ammanisce schifezze) lo si possa dividere in due. Le trattorie (le osterie) e i ristoranti tout court.
Le prime, le trattorie, per me sono quelle che debbon fare, appunto, tradizione. Con prodotti di territorio, con tipicità del luogo, con sapienza antica. Ma attenzione: il prodotto dev’esser buono, ché altrimenti si è alla farsa, e nel nome del tradizionale si portano in tavola nefandezze. Prima il valore della materia prima, in ogni caso. E, insieme, il rispetto della storia alimentare. Magari alleggerendola, certo: mica c’è bisogno, adesso, di dar troppa sostanza, di far sentire lo stomaco pieno. E dunque meno condimento, meno unto, e magari, se possibile, cotture più moderate e brevi, che non portino a sfibrare la pietanza. Ma è questa, ripeto, la mission della trattoria: preservare la tradizione. E può esser anche cucina borghese ottocentesca: vitello tonnato, ad esempio. Ma niente tagliata con la rucola, please.
Alla ristorazione spetta un altro ruolo. Che è quello d’applicare ingegno alle materie prime di qualità, che siano del luogo (lo preferisco) oppure no. E ci dev’essere servizio adeguatissimo. Ché questa non è più solo esperienza di gola, ma dev’essere invece festa dei sensi a tutto tondo. È il posto dove non si va a mangiare, ma a far serata. E dunque giusto piatto, giusto bicchiere, giusta tovaglia, giusta location, giusta ambientazione, giusti tempi, giuste temperature. Insomma: attenzione anche al dettaglio, alla sfumatura. E questo costa fatica e impegno, certo. E si traduce magari in prezzi non bassi. Ma giustificati, o almeno giustificabili. E poco importa se in cucina la spinta creativa la si applichi alla reinterpretazione delle tradizioni o alla creatività a tutto tondo. Qui paghi la genialità complessiva. Qui vince la testa, il pensiero.
In comune, la mia trattoria del cuore e il mio ristorante della testa, hanno un elemento: la ricerca del prodotto. Hanno il cuoco, o il patron, che la mattina presto va al mercato a cercar di che far cucina. Che non s’accontenta di far l’ordine al telefono e aspettare il furgone. Ed hanno anzi in comune anche un altro, parimenti importante, fattore: il senso dell’ospitalità, dell’accoglienza, del rispetto del cliente, ché altrimenti chi te lo fa fare di tribolar tanto al mercato, in sala, fra le pignatte?
In mezzo c’è di tutto. I posti dove ti nutri in qualche maniera. Con materie prime tutte uguali, prese da quei soliti tre o quattro fornitori che ti portano in casa di tutto e di più. E qui ti sbattono sul tavola la roba da mangiare e ti considerano appena un numero: «Caffè al 16!» senti gridare, e tu non sei più una persona, ma sei ridotto, appunto, a numero, quello che c’è scritto sul tavolo, su quei meschini, untuosi segnaposto. E poi magari, al momento del conto, paghi ugualmente i tuoi trenta, quaranta euro, che non son piccolo prezzo.
Lo si è letto in questi giorni: a Palermo sono stati condannati per estorsione aggravata i tre imputati che erano accusati di aver chiesto il pizzo alla storica focacceria San Francesco, in pieno centro della città. Li aveva denunciati il titolare.
Alla focacceria ci sono stato di recente. Di fronte ci stazionava una macchina dei carabinieri. Era strapieno di gente. Soprattutto giovani. Ci ho mangiato il pani ca’ meusa, il panino con la milza. Per di più maritato, e cioè arricchito col formaggio - credo sia caciocavallo: dicono così su Osterie d’Italia - tagliato a listarelle, che si fonde col calore delle frattaglie. Com’era? Straordinariamente gustoso. Un sapore antico. Unico. Se torno da quelle parti, è certo che me ne sbafo un altro.
A Firenze non ho resistito al fascino della bancarella di Orazio Nencioni, accanto alla Loggia del Porcellino stracolma di chioschetti di vestiario e pellame. Avevo appena pranzato. Ma quando mi sono imbattuto nel furgoncino che serviva i panini con il lampredotto, be’, come facevo a passar oltre? E cosa sia il lampredotto è presto detto: trippa. «Un caso di resistenza gastronomica» dice Osterie, a proposito dei trippai fiorentini. La lessano e la tengono in caldo, per affettarla davanti a te. Poi splàf, nel panino riscaldato sulla piastra. Pesantuccia, ma irrinunciabile.
Li chiamano, adesso, street food, questi panini schiettamente popolari. Cibo di strada. Appartengono alla tradizione. Da salvare. Da assaporare. Alla faccia delle continue restrizioni igienico-sanitarie. A volte francamente incomprensibili.
Direte: ma come, tu, veronese, ami il panino quando il sindaco di Verona, appunto, ne vieta il consumo nelle piazze? Intanto, Tosi ha proibito d’accamparsi sui monumenti, e comunque decideranno gli elettori scaligeri se è cosa buona o no. Però mi verrebbe da dire che ha fatto bene, considerati i panini che si vendono in centro: con tutte le materie prime di pregio che si fanno in provincia, che senso ha che i turisti s’ingozzino di plasticume?
E comunque, non è di panini che voglio riflettere in queste righe. Piuttosto di tradizione. Di cibo della tradizione. E dico evviva, perfino, alle sagre, se vi si fa da mangiare coi sacri crismi. Senza asservirsi al precotto, al preconfezionato, alle buste industriali. A Pizzighettone, nel Cremonese, sono capitato casualmente, qualche giorno fa, alla festa del fasulìn de l’öc cun le cùdeghe, e il titolo un po’ m’inquietava. Ma che saporita quella zuppa (servita in scodelle di coccio) di fagiolini dell’occhio, ormai quasi introvabili, e cotiche di maiale (tante) cotte lunghissimamente. Si può far qualità perfino nelle piazze, se si rispetta per davvero la tradizione. Se la si ha a cuore. Mica asservendola, snaturandola, plagiandola per farci soldi facili e magari esentasse.
Ecco: la tradizione gastronomica. È questa che va d’attualità. E non solo per faccende di strada o di piazza. Non solo, ovvio, quando ci son di mezzo le frattaglie (che mangio volentieri, lo si è capito). Vedo, più in generale. un ritorno - finalmente - alla cucina tradizionale. Italica. È questa la ristorazione che funziona, oggi. Il resto vive da tempo aria di crisi. Purché non sia solo moda, passeggera.
In realtà, credo che il mondo della ristorazione (quella qualitativamente valida, intendo, ché c’è troppa gente che ammanisce schifezze) lo si possa dividere in due. Le trattorie (le osterie) e i ristoranti tout court.
Le prime, le trattorie, per me sono quelle che debbon fare, appunto, tradizione. Con prodotti di territorio, con tipicità del luogo, con sapienza antica. Ma attenzione: il prodotto dev’esser buono, ché altrimenti si è alla farsa, e nel nome del tradizionale si portano in tavola nefandezze. Prima il valore della materia prima, in ogni caso. E, insieme, il rispetto della storia alimentare. Magari alleggerendola, certo: mica c’è bisogno, adesso, di dar troppa sostanza, di far sentire lo stomaco pieno. E dunque meno condimento, meno unto, e magari, se possibile, cotture più moderate e brevi, che non portino a sfibrare la pietanza. Ma è questa, ripeto, la mission della trattoria: preservare la tradizione. E può esser anche cucina borghese ottocentesca: vitello tonnato, ad esempio. Ma niente tagliata con la rucola, please.
Alla ristorazione spetta un altro ruolo. Che è quello d’applicare ingegno alle materie prime di qualità, che siano del luogo (lo preferisco) oppure no. E ci dev’essere servizio adeguatissimo. Ché questa non è più solo esperienza di gola, ma dev’essere invece festa dei sensi a tutto tondo. È il posto dove non si va a mangiare, ma a far serata. E dunque giusto piatto, giusto bicchiere, giusta tovaglia, giusta location, giusta ambientazione, giusti tempi, giuste temperature. Insomma: attenzione anche al dettaglio, alla sfumatura. E questo costa fatica e impegno, certo. E si traduce magari in prezzi non bassi. Ma giustificati, o almeno giustificabili. E poco importa se in cucina la spinta creativa la si applichi alla reinterpretazione delle tradizioni o alla creatività a tutto tondo. Qui paghi la genialità complessiva. Qui vince la testa, il pensiero.
In comune, la mia trattoria del cuore e il mio ristorante della testa, hanno un elemento: la ricerca del prodotto. Hanno il cuoco, o il patron, che la mattina presto va al mercato a cercar di che far cucina. Che non s’accontenta di far l’ordine al telefono e aspettare il furgone. Ed hanno anzi in comune anche un altro, parimenti importante, fattore: il senso dell’ospitalità, dell’accoglienza, del rispetto del cliente, ché altrimenti chi te lo fa fare di tribolar tanto al mercato, in sala, fra le pignatte?
In mezzo c’è di tutto. I posti dove ti nutri in qualche maniera. Con materie prime tutte uguali, prese da quei soliti tre o quattro fornitori che ti portano in casa di tutto e di più. E qui ti sbattono sul tavola la roba da mangiare e ti considerano appena un numero: «Caffè al 16!» senti gridare, e tu non sei più una persona, ma sei ridotto, appunto, a numero, quello che c’è scritto sul tavolo, su quei meschini, untuosi segnaposto. E poi magari, al momento del conto, paghi ugualmente i tuoi trenta, quaranta euro, che non son piccolo prezzo.
domenica 11 novembre 2007
Ah, la gioia che può dare un Moscato col prosciutto crudo!
Angelo Peretti
Confesso di non sapere quasi nulla del Moscato d’Asti. Del Moscato piemontese in genere, ché c’è anche la doc, appunto, del Piemonte Moscato. Non sono mai stato in zona, a veder vigne e cantine, a camminare i luoghi. Solo qualche passaggio di sfuggita. In macchina. Niente.
Confesso un’altra cosa: che mi piace, e molto. E che lo reputo un vino di riferimento. Che gli altri italici produttori bianchisti dovrebbe assaggiare, provare, testare, valutare, studiare con attenzione. Mica per far vini uguali, no. Ma per capire i limiti. Per comprendere, intendo, dove sia il confine, che pare labile (e forse labile in effetti è), tra eleganza e grossolanità, tra armonia e stridore. Ché oggi è qui che si gioca la partita. E il Moscato non ammette errori: dolce, aromatico, effervescente, di poco corpo, o impronti il vino sulla finezza, o non c’è nulla da fare, e avrai stucchevolezza.
Ecco: è qui il limite, è qui la sfida vera. Nei tempi (al tramonto, spero, di quei tempi) della concentrazione, del muscolo, della potenza, della struttura portata agli eccessi, del legno prevaricante, del tannino angosciante, c’è nell’Astigiano chi insegna che invece si può agire sulla levità, sulla leggerezza, sulla nuance. Che diventa fascinazione. Che intriga. Che avvince, perfino.
Eppoi, piantiamola, vivaddìo, di considerarlo vin da dessert, il Moscato. Ci sta, certo, con le torte di mele e di pere, con le creme. Ma è vino. E a me piace pensarlo coi formaggi cremosi, magari, o coi salumi, in primis col prosciutto crudo, quello più dolce, giovane. Provatelo, Moscato e prosciutto: abbinamento da favole, accostamento che pare, sì, azzardato & trasgressivo, e invece è sognante connubio, con la dolcezza tattile del grasso di maiale che s’associa per similitudine con la morbidezza fruttata del vino, con la salagione che si fone con la lieve speziatura liquida, col pizzicore della vivacità minuta che pulisce il palato e prepara al nuovo boccone e al nuovo sorso, e la bocca è un’ondata di saliva. L’acquolina in bocca, s’usa dire.
Che dite: vaneggio? Credo la pensassero così anche alcuni di coloro che son venuti alla deustazione di Moscato d’Asti che ho organizzato qualche tempo fa alla Taverna Kus, a San Zeno di Montagna, il covo dei miei wine tastings. Invece tutti sorpresi. Perfetto col prosciutto, sì, del Veneto. Ma anche col prosciutto d’anatra - artigianale - che ha portato Mario Bruno Guerra (I Rasoli è il suo agriturismo, sul Baldo), e con la sua pancetta steccata e fumé. Ammaliante con la crescenza. Perfino col Gorgonzola dolce. E s’è visto, dunque, ch’è vino vino per davvero. Vino da bere, intendo, anche a tavola. Ohibò.
E adesso ecco qui che di seguito illustro qualcheduno dei Moscati che abbiamo tastato: riporto i migliori, e sono otto sui sedici messi nel bicchiere. Con un’avvertenza, e cioè che, ahinoi, parecchie ossidazioni abbiam trovato. Per colpa, ritengo, di cattive conservazioni nei magazzini dei distributori e dei rivenditori (ché da loro li abbiamo presi i più tanti). E per questo son finite fuori gioco, per esempio, le bocce della Caudrina di Romano Dogliotti, che in passato ricordo da sogno, e invece stavolta... Peccato. E il Moscato ha in fondo anche questo d’anomalo: richiede cura nel conservarlo, nel tenerlo. Ché non ti perdona niente, e uno sbalzo di temperatura gli può esser fatale. Ma possibile che chi lo vende non sappia queste cose? Possibile non gli si voglia bene, a un gioiellino del genere, e lo si tratti male assai, lo si deturpi?
Oh, mi viene alla mente un’altra avvertenza: vedrete ben tre etichette di Paolo Saracco. Non stupitevi: è un genio, in fatto di Moscato. Almeno, io la penso così.
Ecco i vini, col doppio punteggio: centesimi e faccini.
Piemonte Moscato d'Autunno 2006 Paolo Saracco Il commento generale dei partecipanti alla degustazione? Che sembra un bianco della Loira, floreale e fruttato di frutto bianco ed erbaceo di salvia e d’ortica, d’erba limoncella perfino. Come un bellissimo Sauvignon francese, ma con l’effervescenza in aggiunta, su un corpo minuto ma fascinoso. Un cameo. Seducente, intrigante, sensuale. Gioioso. Lo bevi, lo ribevi, non te ne stanchi mai. Elegantissimo. Lo reputo uno dei più grandi bianchi d’Italia, e non vi sembri un azzardo.
91/100 - tre lieti faccini :-) :-) :-)
Moscato d'Asti 2007 Paolo Saracco La nuova annata. Qualcheduno l’ha preferito al 2006 (che leggete qui sotto) per la vena verde rinfrescante, dissetante. Giovanissimo, ancora non del tutto espresso. Eppure è lì che avanza, col suo classico stile, la sua tensione. Grintosissimo.
85/100 - due lieti faccini :-) :-)
Moscato d'Asti 2006 Paolo Saracco Oplà, altra bella bottiglia! Bellissimo naso, fruttato, floreale, speziato. Leggero tono di noce. E bella bocca, soda. Frutto ben espresso. Distensione, armonia. Piacevolissimo, per nulla stucchevole.
84/100 - due lieti faccini :-) :-)
Moscato d'Asti 2006 Cascina Fonda Naso dapprima un po' ritroso a concedersi. Poi s’apre con gradualità su toni floreali e di pesca bianca e di pera Kaiser. Varietale. Bocca delicata, direi di bell’eleganza. Dolcezza non invasiva. E c’è anche una bella lunghezza. Piacevole parecchio.
84/100 - due lieti faccini :-) :-)
Moscato d'Asti Biancospino 2006 La Spinetta Fragranze finissime, floreali. Fiori bianchi. Pera kaiser un po' acerba. Bocca piacevole, ancora su toni di fiore bianco, con leggero fondo di nocciola e di mandorla. Parecchio dolce, però.
83/100 - due lieti faccini :-) :-)
Moscato d'Asti 2006 G.D. Vajra Che strano vino! All’olfatto è quasi minerale. Molto personale. Fatica a concedersi. Non ha quelle note varietali che t’aspetti. C'è qualche cenno di lavanda secca, vene resinose, coccola di cipresso. Leggera speziatura, memorie balsamiche. In bocca è tesissimo, nervoso, scattante. Piuttosto lungo. Ripeto: strano, stranissimo vino.
80/100 - un lieto faccino e quasi due :-) :-)
Asti 2006 Cascina Fonda Abbiamo stappato anche qualche Asti. Spumante, intendo. Questo è quello che c’è piaciuto di più, nella serata. Bel naso, floreale, fine, pulito. Bocca sullo stesso piano. Freschezza, slancio. Leggera nota di nocciola.
80/100 - un lieto faccino :-)
Moscato d'Asti 2006 Cà Bianca Tecnicamente è fatto gran bene. Un pelo di personalità in più, un po’ di slancio, e affascinerebbe. Ha vena pulita di fiore e una leggera nota aromatica varietale. Pesca bianca quasi acerba. Bocca non particolarmente zuccherosa. Spezia sottile, di noce moscata.
78/100 - un lieto faccino :-)
Confesso di non sapere quasi nulla del Moscato d’Asti. Del Moscato piemontese in genere, ché c’è anche la doc, appunto, del Piemonte Moscato. Non sono mai stato in zona, a veder vigne e cantine, a camminare i luoghi. Solo qualche passaggio di sfuggita. In macchina. Niente.
Confesso un’altra cosa: che mi piace, e molto. E che lo reputo un vino di riferimento. Che gli altri italici produttori bianchisti dovrebbe assaggiare, provare, testare, valutare, studiare con attenzione. Mica per far vini uguali, no. Ma per capire i limiti. Per comprendere, intendo, dove sia il confine, che pare labile (e forse labile in effetti è), tra eleganza e grossolanità, tra armonia e stridore. Ché oggi è qui che si gioca la partita. E il Moscato non ammette errori: dolce, aromatico, effervescente, di poco corpo, o impronti il vino sulla finezza, o non c’è nulla da fare, e avrai stucchevolezza.
Ecco: è qui il limite, è qui la sfida vera. Nei tempi (al tramonto, spero, di quei tempi) della concentrazione, del muscolo, della potenza, della struttura portata agli eccessi, del legno prevaricante, del tannino angosciante, c’è nell’Astigiano chi insegna che invece si può agire sulla levità, sulla leggerezza, sulla nuance. Che diventa fascinazione. Che intriga. Che avvince, perfino.
Eppoi, piantiamola, vivaddìo, di considerarlo vin da dessert, il Moscato. Ci sta, certo, con le torte di mele e di pere, con le creme. Ma è vino. E a me piace pensarlo coi formaggi cremosi, magari, o coi salumi, in primis col prosciutto crudo, quello più dolce, giovane. Provatelo, Moscato e prosciutto: abbinamento da favole, accostamento che pare, sì, azzardato & trasgressivo, e invece è sognante connubio, con la dolcezza tattile del grasso di maiale che s’associa per similitudine con la morbidezza fruttata del vino, con la salagione che si fone con la lieve speziatura liquida, col pizzicore della vivacità minuta che pulisce il palato e prepara al nuovo boccone e al nuovo sorso, e la bocca è un’ondata di saliva. L’acquolina in bocca, s’usa dire.
Che dite: vaneggio? Credo la pensassero così anche alcuni di coloro che son venuti alla deustazione di Moscato d’Asti che ho organizzato qualche tempo fa alla Taverna Kus, a San Zeno di Montagna, il covo dei miei wine tastings. Invece tutti sorpresi. Perfetto col prosciutto, sì, del Veneto. Ma anche col prosciutto d’anatra - artigianale - che ha portato Mario Bruno Guerra (I Rasoli è il suo agriturismo, sul Baldo), e con la sua pancetta steccata e fumé. Ammaliante con la crescenza. Perfino col Gorgonzola dolce. E s’è visto, dunque, ch’è vino vino per davvero. Vino da bere, intendo, anche a tavola. Ohibò.
E adesso ecco qui che di seguito illustro qualcheduno dei Moscati che abbiamo tastato: riporto i migliori, e sono otto sui sedici messi nel bicchiere. Con un’avvertenza, e cioè che, ahinoi, parecchie ossidazioni abbiam trovato. Per colpa, ritengo, di cattive conservazioni nei magazzini dei distributori e dei rivenditori (ché da loro li abbiamo presi i più tanti). E per questo son finite fuori gioco, per esempio, le bocce della Caudrina di Romano Dogliotti, che in passato ricordo da sogno, e invece stavolta... Peccato. E il Moscato ha in fondo anche questo d’anomalo: richiede cura nel conservarlo, nel tenerlo. Ché non ti perdona niente, e uno sbalzo di temperatura gli può esser fatale. Ma possibile che chi lo vende non sappia queste cose? Possibile non gli si voglia bene, a un gioiellino del genere, e lo si tratti male assai, lo si deturpi?
Oh, mi viene alla mente un’altra avvertenza: vedrete ben tre etichette di Paolo Saracco. Non stupitevi: è un genio, in fatto di Moscato. Almeno, io la penso così.
Ecco i vini, col doppio punteggio: centesimi e faccini.
Piemonte Moscato d'Autunno 2006 Paolo Saracco Il commento generale dei partecipanti alla degustazione? Che sembra un bianco della Loira, floreale e fruttato di frutto bianco ed erbaceo di salvia e d’ortica, d’erba limoncella perfino. Come un bellissimo Sauvignon francese, ma con l’effervescenza in aggiunta, su un corpo minuto ma fascinoso. Un cameo. Seducente, intrigante, sensuale. Gioioso. Lo bevi, lo ribevi, non te ne stanchi mai. Elegantissimo. Lo reputo uno dei più grandi bianchi d’Italia, e non vi sembri un azzardo.
91/100 - tre lieti faccini :-) :-) :-)
Moscato d'Asti 2007 Paolo Saracco La nuova annata. Qualcheduno l’ha preferito al 2006 (che leggete qui sotto) per la vena verde rinfrescante, dissetante. Giovanissimo, ancora non del tutto espresso. Eppure è lì che avanza, col suo classico stile, la sua tensione. Grintosissimo.
85/100 - due lieti faccini :-) :-)
Moscato d'Asti 2006 Paolo Saracco Oplà, altra bella bottiglia! Bellissimo naso, fruttato, floreale, speziato. Leggero tono di noce. E bella bocca, soda. Frutto ben espresso. Distensione, armonia. Piacevolissimo, per nulla stucchevole.
84/100 - due lieti faccini :-) :-)
Moscato d'Asti 2006 Cascina Fonda Naso dapprima un po' ritroso a concedersi. Poi s’apre con gradualità su toni floreali e di pesca bianca e di pera Kaiser. Varietale. Bocca delicata, direi di bell’eleganza. Dolcezza non invasiva. E c’è anche una bella lunghezza. Piacevole parecchio.
84/100 - due lieti faccini :-) :-)
Moscato d'Asti Biancospino 2006 La Spinetta Fragranze finissime, floreali. Fiori bianchi. Pera kaiser un po' acerba. Bocca piacevole, ancora su toni di fiore bianco, con leggero fondo di nocciola e di mandorla. Parecchio dolce, però.
83/100 - due lieti faccini :-) :-)
Moscato d'Asti 2006 G.D. Vajra Che strano vino! All’olfatto è quasi minerale. Molto personale. Fatica a concedersi. Non ha quelle note varietali che t’aspetti. C'è qualche cenno di lavanda secca, vene resinose, coccola di cipresso. Leggera speziatura, memorie balsamiche. In bocca è tesissimo, nervoso, scattante. Piuttosto lungo. Ripeto: strano, stranissimo vino.
80/100 - un lieto faccino e quasi due :-) :-)
Asti 2006 Cascina Fonda Abbiamo stappato anche qualche Asti. Spumante, intendo. Questo è quello che c’è piaciuto di più, nella serata. Bel naso, floreale, fine, pulito. Bocca sullo stesso piano. Freschezza, slancio. Leggera nota di nocciola.
80/100 - un lieto faccino :-)
Moscato d'Asti 2006 Cà Bianca Tecnicamente è fatto gran bene. Un pelo di personalità in più, un po’ di slancio, e affascinerebbe. Ha vena pulita di fiore e una leggera nota aromatica varietale. Pesca bianca quasi acerba. Bocca non particolarmente zuccherosa. Spezia sottile, di noce moscata.
78/100 - un lieto faccino :-)
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